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26/01/2016

Siria, nubi su Ginevra

di Michele Paris

Il nuovo round dei colloqui di pace sulla Siria previsti a partire da lunedì a Ginevra è stato rinviato almeno di qualche giorno in seguito al persistere dei differenti punti di vista tra le varie potenze coinvolte attorno a una serie di questioni preliminari. In primo luogo, le divergenze sono emerse a proposito delle forze e dei gruppi di opposizione al regime di Assad che dovrebbero essere invitati al tavolo dei negoziati.

Gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, la Turchia e i loro alleati nel conflitto siriano ritengono che l’unica formazione “ribelle” accreditata nelle trattative con Damasco dovrà essere la commissione formata all’indomani di un incontro non privo di tensioni patrocinato da Riyadh alcune settimane fa. Di questo organo fanno parte però varie organizzazioni armate che, legittimamente, la Russia considera di natura terroristica e, di conseguenza, dovrebbero essere escluse dalle trattative di pace.

In cima alla lista dei gruppi sgraditi a Mosca ci sono Jaish al-Islam e Ahrar al-Sham, entrambi legati alla filiale di al-Qaeda in Siria – il Fronte al-Nusra – e al centro degli sforzi di Washington e della monarchia saudita per essere inclusi nell’opposizione da considerare “moderata”. Con il sostegno di Riyadh, qualche giorno fa la commissione per i negoziati che dovrebbe presentarsi a Ginevra ha adottato una decisione provocatoria, nominando come capo negoziatore proprio il leader politico di Jaish al-Islam, Mohammed Alloush.

I governi che si battono per il rovesciamento di Assad si sono detti finora contrari all’inclusione di una terza delegazione da invitare ai colloqui di Ginevra, come proposto da Mosca e Damasco, formata ad esempio dai curdi siriani delle Unità di Protezione Popolare (YPG) o da rappresentanti della società civile.

Di fronte alle posizioni contrastanti, il segretario di Stato americano, John Kerry, nel corso di una visita in Laos lunedì ha annunciato che l’inizio dei negoziati è stato spostato, dal momento che “è meglio un rinvio di qualche giorno piuttosto che assistere al crollo [delle trattative]” prima che esse abbiano inizio. Sempre lunedì, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura, ha manifestato l’intenzione di inaugurare i colloqui venerdì prossimo, pur non nascondendo le difficoltà.

Il diplomatico italo-svedese ha fatto sapere che martedì verranno inviato gli inviti alle parti coinvolte. In questa fase, i negoziati dovrebbero durare dalle due alle tre settimane, per concludersi, nella migliore delle ipotesi, in un cessate il fuoco per consentire l’accesso in Siria di aiuti umanitari.

Il governo di Assad ha da parte sua già dato da tempo la propria disponibilità a mandare a Ginevra una delegazione per trattare un eventuale processo di pace e di transizione che dovrebbe portare a elezioni in Siria entro 18 mesi. L’opposizione sponsorizzata da Riyadh chiede però che, prima di sedersi al tavolo delle trattative, Damasco implementi alcune misure previste dalla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, tra cui lo stop ai bombardamenti e agli “assedi” delle aree controllate dai “ribelli”.

Le difficoltà che stanno incontrando i negoziati di pace anche solo per prendere il via dimostrano quanto sia in salita la strada verso una risoluzione diplomatica della crisi che dura ormai da quasi cinque anni. Dietro alle dispute a cui si sta assistendo in questi giorni ci sono d’altra parte sempre gli interessi divergenti tra gli attori impegnati sui due fronti contrapposti in Siria.

Da un lato, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Medio Oriente, dietro la guerra allo Stato Islamico (ISIS), continuano ad appoggiare le milizie dell’opposizione, incluse quelle di orientamento fondamentalista se non apertamente terrorista, per raggiungere il loro vero obiettivo, cioè la rimozione del regime di Damasco.
Soprattutto la Turchia, poi, mantiene rapporti ambigui con lo stesso ISIS, come dimostrato dalla Russia qualche settimana fa, preferendo di gran lunga la presenza del “califfato” oltre il confine meridionale al coagularsi di un semi-stato curdo.

D’altro canto, l’intervento militare diretto della Russia dallo scorso settembre a fianco dell’alleato siriano ha stabilizzato il regime di Assad, permettendo anzi a quest’ultimo di recuperare territori in mano ai “ribelli”. L’efficacia dei bombardamenti russi ha così stravolto i piani di USA, Turchia e Arabia Saudita, nonostante l’impegno di questi paesi nel sostenere l’opposizione armata in Siria.

Washington, così come i suoi alleati, non ha tuttavia modificato il proprio obiettivo strategico finale in Siria ma, essendo cambiata la realtà sul campo dopo l’azione del Cremlino, intende raggiungerlo con un mix di impegno militare e manovre diplomatiche. Infatti, negli ultimi mesi esponenti dell’amministrazione Obama e vertici militari USA hanno alternato dichiarazioni e iniziative a sostegno dei negoziati di pace ad annunci circa un maggiore dispiegamento di forze in Iraq e in Siria, ufficialmente sempre per combattere l’ISIS.

Se è vero che Washington ha ammorbidito la propria posizione sul ruolo di Bashar al-Assad, smettendo di chiedere le sue dimissioni come condizione preliminare per l’avvio dei negoziati, d’altro canto non ha mai fatto mancare l’appoggio sostanziale alle posizioni estreme sulla crisi in Siria di Turchia e Arabia Saudita, malgrado l’opera altamente destabilizzante portata avanti da entrambi i paesi. Kerry e il vice-presidente USA, Joe Biden, non a caso hanno visitato rispettivamente Riyadh e Istanbul recentemente, evitando qualsiasi critica ai due regimi e confermando invece la soddisfazione del loro governo per il comportamento degli alleati.

Una notizia che ha confermato questa disposizione americana è stata quella diffusa nel fine settimana circa la creazione di una base militare USA nella Siria nord-orientale non lontano dal confine con la Turchia. L’iniziativa dovrebbe servire ufficialmente a ospitare un certo numero di membri delle Forze Speciali in appoggio ai “ribelli” impegnati contro l’ISIS.

Soprattutto, però, oltre a essere una gravissima violazione della sovranità siriana, la decisione di Washington rischia di provocare uno scontro con le forze russe presenti in Siria, visto che Mosca, con il consenso del governo legittimo di Damasco, starebbe valutando a sua volta la possibilità di costruire una struttura fortificata nella stessa area.

La Russia intende rafforzare la propria presenza lungo il corridoio che collega la Siria alla Turchia per bloccare il transito di uomini, armi e denaro destinati all’opposizione armata anti-Assad, cosa che Ankara ha al contrario cercato di evitare, ben sapendo che una simile iniziativa assesterebbe un colpo mortale alle milizie “ribelli” che perseguono i suoi stessi obiettivi, a cominciare da quelle di tendenze fondamentaliste.

La notizia della mossa americana è giunta comunque singolarmente in concomitanza con la riconquista da parte dell’esercito di Damasco, con l’appoggio aereo di Mosca, della località di Rabia, in mano ai “ribelli” fin dal 2012 e ritenuta cruciale per il controllo della provincia costiera di Latakia, vera e propria roccaforte alauita (sciita) del regime di Assad.

Quest’ultimo successo militare delle forze governative deve avere gettato molti ancor più nello sconforto a Washington, nonché, ad Ankara, il presidente turco Erdogan e il suo primo ministro Davutoglu. A Rabia erano presenti gruppi armati facenti capo al Fronte al-Nusra e di etnia turcomanna, finora strenuamente difesi dalla Turchia. Queste formazioni rischiano poi di subire altri rovesci nel prossimo futuro, come ha spiegato un comandante dell’esercito siriano all’agenzia di stampa francese AFP, visto che Damasco e Mosca utilizzeranno Rabia come base per lanciare operazioni contro postazioni “ribelli” nella vicina provincia di Idlib in direzione est.

L’offensiva russo-siriana sta sempre più minacciando le rotte dei rifornimenti considerate vitali per le milizie anti-Assad, con possibili effetti sui negoziati di Ginevra. A fronte della campagna mediatica occidentale, i delegati delle formazioni che dovrebbero sedersi al tavolo delle trattative, oltre a non avere di fatto alcuna base di sostegno popolare in Siria, potranno esibire una sempre più ridotta influenza sulle vicende militari sul campo. Ciò trasformerà in poco più di una farsa la loro pretesa, e quella dei loro sponsor, di dettare le condizioni per il raggiungimento di una soluzione pacifica del conflitto, cominciando dall’estromissione di Assad dal processo di transizione politica.

Con la situazione sul campo che si sta venendo a creare, dunque, i negoziati di “pace” potrebbero diventare, per gli Stati Uniti e i loro alleati dentro e fuori la Siria, un modo per guadagnare tempo e fermare in qualche modo l’avanzata delle forze regolari contro la galassia dei “ribelli”/terroristi anti-Assad, in modo da riorganizzare queste milizie e cercare di ristabilire gli equilibri, se necessario anche attraverso l’impegno diretto, o la minaccia di esso, in territorio siriano.

La soluzione negoziata non è mai stata d’altra parte un’opzione acettabile per la fine della crisi in Siria da parte dell’Occidente e dei regimi mediorientali sunniti, a meno che non preveda la sottomissione di Assad o la sua deposizione. Quest’ultima ipotesi è però sempre più improbabile, visti gli sviluppi sul fronte militare, così che, al di là dell’avvio o meno di Ginevra III nei prossimi giorni, è tutt’altro che inverosimile attendersi un nuovo tentativo di escalation del conflitto da parte di coloro che, a Washington, Ankara o Riyadh, rischiano di veder svanire il sogno del cambio di regime a Damasco su cui hanno investito massicciamente in questi ultimi anni.

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