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22/01/2016

Il colore degli Oscar

di Michele Paris

La lunga vigilia dell’annuale cerimonia che il 28 febbraio prossimo vedrà la consegna degli Academy Awards (Oscar) a Los Angeles continua a essere scossa dalle polemiche sollevate da alcuni attori e registi di colore per l’assenza di interpreti appartenenti a una minoranza etnica tra i candidati alla statuetta nelle principali categorie. Ad animare la protesta sono in particolare il regista Spike Lee e l’attrice Jada Pinkett Smith, moglie di Will Smith, i quali, pur respingendo il concetto di “boicottaggio”, hanno annunciato che non prenderanno parte né seguiranno in TV la prossima consegna degli Oscar.

Questa iniziativa si è propagata in fretta negli Stati Uniti, anche grazie al (ri)lancio dell’hashtag #OscarsSoWhite, trovando terreno fertile tra giornalisti, pseudo-intellettuali e personaggi del mondo dello spettacolo di orientamento “liberal”, convinti che i veri problemi della società americana abbiano a che fare esclusivamente con le tematiche razziali (o relative all’orientamento sessuale).

Secondo i protagonisti della contestazione, diretta contro i membri dell’Academy of Picture Arts and Sciences (AMPAS), sarebbe inammissibile che, per il secondo anno consecutivo, tra i candidati e le canditate all’Oscar per il ruolo di migliore attore/attrice protagonista e non protagonista non vi sia nemmeno un interprete di colore, oppure ispanico, asiatico, ecc.

Fermo restando che il sopravvalutato Spike Lee o la consorte di Will Smith non sono sfiorati dall’idea che, semplicemente, nella stagione scorsa non ci siano stati attori di colore che hanno fornito prestazioni meritevoli di una “nomination”, sia pure secondo gli standard dell’AMPAS, la protesta in corso ha ben poco a che vedere con un genuino impegno per i diritti delle minoranze oppresse e, soprattutto, contro le colossali ingiustizie sociali che interessano un paese come gli Stati Uniti e di cui le prime vittime sono appunto neri e ispanici.

Detto questo, è innegabile che i criteri di scelta dei candidati da premiare adottati dall’Academy siano quanto meno discutibili, come dimostrano la modestia e la banalità che spesso caratterizzano le pellicole candidate e premiate. Con buona pace di quanti protestano per la mancanza di candidati di colore, l’Academy in passato ha inoltre mancato di premiare o anche solo di candidare all’Oscar per i loro film artisti bianchi di assoluto rilievo, come Orson Welles, Charlie Chaplin, Alfred Hitchcock, Howard Hawks, Fritz Lang, Buster Keaton, Robert Altman e molti altri.

Più che altro, la mobilitazione contro gli Oscar, generalmente approvata dalla stampa “progressista”, aiuta a comprendere l’attitudine nei confronti dei problemi della società di coloro che vi stanno prendendo parte. Spike Lee, in questo senso, è un caso esemplare, visto che frequentemente in passato si è scagliato contro l’esclusione degli afro-americani all’interno dell’industria cinematografica. Il regista di Atlanta ha lamentato soprattutto la presenza quasi esclusiva ai vertici degli “studios” americani di dirigenti bianchi, tra coloro cioè che prendono le decisioni su quali film verranno girati e che, di conseguenza, finiscono per intascare la maggior parte dei proventi della distribuzione.

Questi scrupoli sono condivisi da molti nell’alta borghesia americana appartenente a minoranze razziali e rivelano un’aspirazione non tanto a vedere risolte le disuguaglianze sociali a beneficio di tutte le fasce oppresse della popolazione, bensì a consentire che un maggior numero di afro-americani o “latinos”, ma pur sempre una piccola minoranza, possa accedere a posizioni decisionali ben retribuite, sia nel mondo della politica sia del business.

A queste motivazioni ha in qualche modo fatto riferimento nei giorni scorsi un’altra attrice di colore, Janet Hubert, in una dura replica alle prese di posizioni di Jada Pinkett Smith. La Hubert ha definito “ironico” il fatto che “persone che hanno guadagnato milioni e milioni di dollari grazie a coloro che intendono boicottare” propongano simili iniziative “solo perché non hanno ottenuto una nomination”. Il riferimento, in questo caso, è all’esclusione di Will Smith dalla rosa dei candidati all’Oscar per migliore attore dopo che era stato da molti indicato come uno dei possibili favoriti per la sua interpretazione nel film Concussion.

La stessa attrice ha anche ricordato come i coniugi Smith siano “parte di Hollywood” e di un “sistema che è ingiusto verso altri attori”, visto che posseggono una grande casa di produzione che realizza esclusivamente pellicole in cui sono coinvolti loro stessi, i loro amici o i membri della loro famiglia.

Le critiche all’Academy e all’industria del cinema negli Stati Uniti sono in ogni caso più che legittime, ma dovrebbero se mai riguardare l’esclusione dalle “nomination” di film e, ancor più, il sostanziale disinteresse a produrre pellicole che affrontino con serietà i problemi sociali – che riguardano bianchi e neri – e politici di un paese attraversato da tensioni e contraddizioni enormi, nonché guidato da una classe dirigente al limite, se non al di là, della criminalità.

La fissazione sulle questioni razziali serve in sostanza a occultare quelle di classe, alla base della crisi sociale che attraversa gli Stati Uniti, e finisce paradossalmente per promuovere un’idea di società reazionaria, fondata su quelle stesse divisioni che si vorrebbe combattere. La logica conseguenza di battaglie come quella propagandata nell’ambito relativamente ristretto del mondo del cinema da #OscarsSoWhite porta a promuovere l’istituzionalizzazione di un sistema di “quote” riservate alle minoranze o, meglio, alle élite appartenenti alle minoranze etniche, che in nessun modo contribuisce a risolvere le esplosive differenze sociali prodotte dal capitalismo.

Negli USA, peraltro, questo sistema – definitivo “affirmative action” – è già in essere ad esempio in ambito scolastico, con le università che adottano in parte criteri puramente razziali per assicurare che un certo numero di propri studenti appartenga a una minoranza etnica. Questo sistema, attaccato da molti da destra e giunto un paio di volte all’attenzione della Corte Suprema negli ultimi anni, viene usato dalla classe dirigente americana come valvola di sfogo delle tensioni sociali e razziali, così da dare l’impressione di una società equa che consente a chiunque di entrare a far parte dell’élite.

Tornando alla protesta contro la cerimonia degli Oscar, le premesse a dir poco discutibili che la caratterizzano hanno dato vita a prese di posizione bizzare e difficilmente commentabili. Ad esempio, la presunta ideatrice dell’hashtag #OscarsSoWhite in un’intervista alla testata Hollywood Reporter si è chiesta per quale ragione il film di Ridley Scott The Martian (Sopravvissuto) dello scorso anno, interpretato da Matt Damon, non avrebbe potuto avere come protagonista un attore affermato di colore (Jamie Foxx) o ispanico (Javier Bardem). Questa affermazione lascia intendere, assurdamente, che la scelta di Matt Damon sarebbe stata dettata da considerazioni di natura razzista.

Ad ogni modo, il movimento contro le presunte discriminazioni dell’AMPAS ha già prodotto qualche effetto. Per cominciare, parecchie pressioni sono state fatte sul conduttore della cerimonia del 28 febbraio, l’attore di colore Chris Rock, per convincerlo a rinunciare all’incarico.

Inoltre, i vertici dell’Academy hanno annunciato che si riuniranno eccezionalmente la prossima settimana per discutere una serie di cambiamenti dei criteri di selezione delle pellicole e degli attori candidati all’Oscar in modo che essi rispecchino maggiormente le diversità etniche della società americana.

La decisione è giunta dopo che il presidente dell’Academy, l’afro-americana Cheryl Boone Isaacs, si era detta “dispiaciuta e frustrata” per la scelta di attrici e attori esclusivamente bianchi. La preoccupazione principale è dettata probabilmente dal timore che la protesta raccolga sempre più consensi e si trasformi in un vero e proprio boicottaggio, compromettendo la vendita dei diritti televisivi della cerimonia di premiazione, di fatto la principale fonte di entrate dell’AMPAS.

Tra i cambiamenti allo studio ci sarebbe l’allargamento del numero di pellicole “nominate” da 5 a 10, come è avvenuto talvolta in passato, in modo da favorire l’inclusione di film diretti o interpretati da afro-americani. Ugualmente, i candidati all’Oscar nelle categorie attori protagonisti e non protagonisti potrebbero salire a 10, anche se in questo caso le perplessità sembrerebbero essere maggiori, poiché la formula che prevede 5 candidati resiste fin dagli anni Trenta.

Un altro cambiamento potrebbe riguardare infine le modalità di voto e la stessa composizione dei membri dell’Academy, con nuove nomine e meccanismi per favorire l’esclusione di quanti non lavorano da anni nel mondo del cinema. Questo approccio appare però piuttosto delicato. I membri dell’Academy ne fanno parte infatti a vita e qualsiasi modifica che comprometta il loro status e la libertà di cui godono nella scelta delle “nomination” potrebbe incontrare fortissime resistenze.

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