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23/12/2015

L’eclissi della faglia israelo-palestinese

“Il mondo, tuttavia, resta ancora molto eterogeneo. Il coercitivo imperialismo delle nazioni avanzate è in grado di esistere solo perché restano sul nostro pianeta le nazioni arretrate, le nazionalità oppresse, i paesi coloniali e semicoloniali. La lotta dei popoli oppressi per l’unificazione nazionale e l’indipendenza nazionale è doppiamente progressiva perché, da un lato prepara condizioni più favorevoli per il loro proprio sviluppo, mentre dall’altro infligge dei colpi all’imperialismo. Questa, in particolare, è la ragione per cui, nella lotta fra una civilizzata, imperialista, democratica repubblica e un arretrata, barbarica monarchia in un paese coloniale, i socialisti stanno interamente dalla parte del paese oppresso, nonostante la sua monarchia, e contro il paese oppressore, a dispetto della sua “democrazia”.
(Lenin..ehm, no. Stalin…non proprio. Mao Tse Tung. Fuori strada. Leon Trotsky, Lenin e la guerra imperialista, 1938)

La guerra indotta tra sunniti e sciiti, le “primavere arabe”, il nucleare iraniano, la decomposizione della Siria, la nascita e il ruolo dell’Isis, la paventata (e fallita) egemonia turca nella regione, la questione curda, la guerra in Iraq, la tribalizzazione della Libia: queste e altre vicende, che nell’ultimo quindicennio hanno contribuito a far deflagrare la situazione mediorientale, sono tutte accomunate da un fattore: l’irrilevanza rispetto alla contraddizione tra Israele e Palestina.

La crisi generale della regione mediorientale sembra avere mille rivoli, nessuno dei quali conduce alla lotta di liberazione della Palestina dal colonialismo israeliano. Questo cambiamento, a dir poco epocale, sembra essere passato sottotraccia nelle analisi complessive della situazione, eppure è rivelatore di un salto di paradigma foriero di conseguenze. Ad un conflitto interamente politico generato dall’occupazione israeliana dei territori palestinesi, sono subentrati una serie di fattori religiosi, culturali, geopolitici ed economici. Per tale ragione, se fino ad allora era possibile ragionare sul medioriente secondo schemi politici più o meno equivalenti per il resto del mondo e soprattutto per la sinistra europea, la deflagrazione mediorientale secondo altre faglie di diversa natura rende la comprensione dei fenomeni e lo schieramento molto più difficile. E infatti è una delle cause (non l’unica certamente) del disorientamento generale della sinistra nelle vicende mediorientali.

Lo scontro tra sunniti e sciiti, nonostante sia una contraddizione religiosa presente nel mondo musulmano, è stata in questo decennio suscitata e radicalizzata artificialmente da interessi esterni allo stesso mondo arabo, determinando una tracimazione nel campo dei rapporti politici prima inesistente o secondaria. “Prima” – prima cioè dell’inaugurazione del venticinquennio di guerra occidentale al medioriente cominciata dall’invasione dell’Iraq del 1991, e precipitato dopo la seconda invasione irachena del 2003 – lo scontro religioso rimaneva propriamente sul piano religioso, senza invadere il campo dei rapporti politici e il sostanziale panarabismo filo palestinese della nazione araba. Non impediva la nascita della Repubblica Araba Unita nel 1958, cioè l’unione nazionale tra Egitto e Siria; così come non ha impedito, nel corso soprattutto degli anni Duemila, il sostegno sciita di Hezbollah alla lotta di Gaza governata dalla sunnita Hamas. Esempi che servono a rafforzare il concetto centrale per cui attorno alla causa palestinese si aggregava una sostanziale unità d’intenti antimperialista del mondo arabo, al di là di come poi questo antimperialismo veniva declinato, e prescindendo da qualsiasi differenza religiosa infra-islamica. L’esclusione di alcuni Stati dall’unità araba non si doveva a contraddizioni religiose ma a cedimenti e collusioni verso il nemico israeliano-statunitense, come nel caso dell’Arabia Saudita.

Oggi siamo catapultati in uno scenario in cui la questione palestinese perde di rilevanza anche per la stessa Israele. L’Isis, così come prima Al Queda, è tutto fuorché un nemico di Israele: ambedue le centrali del terrore sono di fatto il braccio armato della politica saudita nella regione, cioè del principale alleato arabo di Israele; per di più, proprio in queste settimane sta procedendo la ripresa dei rapporti diplomatici tra Israele e Turchia, incrinati dopo la vicenda della Freedom Flottiglia del 2010 e non a caso riaperti discretamente di questi tempi, chiarendo che l’appoggio plateale della Turchia all’Isis non costituisce un problema per Israele; la vicenda del nucleare iraniano continua a preoccupare lo Stato sionista più della sbrindellata resistenza palestinese, relegata a problema d’ordine pubblico-militare che non prevede al momento soluzioni politiche. Non ultimo, il cedimento (agli occhi del governo israeliano) degli Usa nella trattativa con Teheran sul nucleare ha viceversa lasciato campo libero ad Israele sul fronte palestinese, come contropartita allo sblocco dell’embargo occidentale nei confronti dell’Iran.

In questa dinamica non perdono solo i palestinesi, relegati ad un destino di irrilevanza internazionale, ma perde tutto il mondo arabo e in subordine viene meno la possibilità di comprensione degli eventi della sinistra, araba ed europea. Tramutato un conflitto politico (il conflitto politico per eccellenza del mondo arabo) sul piano dei rapporti religiosi, ogni posizione in campo viene inficiata da una lente deformante che consente meno sponde e meno unità d’intenti. Il mondo arabo ricompattato da un nemico comune (Israele e, di conseguenza, le politiche filo sioniste occidentali), oggi vede venire meno quest’unità non per un accelerazione delle contraddizioni di classe, ma per una serie di ingerenze politiche determinate esclusivamente dal gioco di alcune grandi e medie potenze interessate ognuna alla loro porzione di medioriente economicamente sfruttabile.

E’ difficile oggi affermare che la disintegrazione della Libia e della Siria come Stati sovrani provenga politicamente dal conflitto israelo-palestinese. Eppure, indirettamente, la normalizzazione pacificante di taluni soggetti mediorientali ha permesso la disarticolazione dell’unità politica araba sulla vicenda e di conseguenza moltiplicato gli scontri intestini, tutti, nessuno escluso, generati da interessi esterni al mondo arabo e combattuti per conto terzi determinando quello scenario da proxy war che da un ventennio dilania la popolazione araba. E’ per tale motivo che non è possibile fare sponda, in qualsiasi modo, con la politica pacificante occidentale nei confronti degli ultimi soggetti statuali o politici ancora antimperialisti (inteso in questo caso come anti-israeliani e anti-nordamericani) della regione. Perché questa dinamica espelle la lotta palestinese dal campo delle contraddizioni principali della regione mediorientale, e perché sposta la direzione politica ed economica dei conflitti su piani molto meno maneggevoli come lo scontro culturale e religioso che oggi pervade la dimensione araba.

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