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22/12/2015

Egitto - Cosa nascondono gli aiuti economici sauditi?

Il principe saudita Salman bin ʿAbd al-ʿAziz al Saʿud (sinistra) e il presidente egiziano as-Sisi (destra)
di Giovanni Pagani

Il piano di aiuti sauditi all’Egitto di Al-Sisi sarà esteso da 6,5 a 8 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Lo ha annunciato il 15 dicembre scorso il principe Mohammed bin Salman bin Abdulaziz al-Saud – in qualità di Vice Primo ministro e ministro della Difesa del regno – a seguito della costituzione della coalizione musulmana contro il terrorismo; guidata da Riyadh e sposata anche dal Cairo. La decisione, che sembra confermare la cooperazione economica tra le due sponde del Mar Rosso, lascia tuttavia irrisolte alcune incongruenze tra le politiche regionali del regno saudita e gli interessi nazionali del Cairo.

Dall’ascesa al potere del generale Al-Sisi nell’estate del 2013, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno complessivamente versato nelle casse egiziane oltre 20 miliardi di dollari. Tali aiuti, che spaziano dal settore delle infrastrutture e dell’agricoltura alla cooperazione militare, si inseriscono nel quadro di una strategia più ampia che vede Riyad impegnata in vari paesi arabi per consolidare il fronte sunnita in chiave anti-iraniana. Secondo quanto riportato dall’IMF, soltanto nel 2015 il regno saudita avrebbe infatti finanziato i governi di Egitto, Yemen, Giordania, Bahrein, Oman, Marocco, Sudan e Gibuti – tutti di orientamento sunnita – per un valore complessivo di 22,5 miliardi di dollari. L’Egitto, primo destinatario degli aiuti, si è inoltre affermato come principale partner militare di Riyad nell’impegno a costituire una forza militare panaraba e a contrastare il terrorismo.

Ma mentre la decisione saudita di aumentare il proprio sostegno economico allo stato egiziano sembra confermare la comunione d’intenti tracciata a luglio, in occasione della Dichiarazione del Cairo, molti analisti osservano come l’asse Cairo-Riyad potrebbe in realtà risentire d’incongruenze sostanziali sul piano strategico. Soprattutto, resta da sciogliere il nodo della questione siriana, nella quale il presidente Al-Sisi e Re Salman occupano posizioni quantomeno divergenti se non opposte.

La fragilità di molti paesi arabi all’indomani delle rivoluzioni iniziate nel 2011, unita al contingente e graduale indebolimento dell’influenza statunitense nella regione, ha liberato ampi spazi per le mire egemoniche di vari attori regionali; prima fra tutti l’Arabia Saudita. Forte dei propri mezzi economici e del benestare di Washington, Riyad ha intrapreso una politica estera sempre più aggressiva e spregiudicata, volta soprattutto a colpire gli interessi di Tehran e del fronte sciita, al quale guarda come principale minaccia. Grazie anche alla relativa stabilità interna di cui gode il regno, la priorità assoluta di re Salman è dunque contrastare la Repubblica Islamica in ogni sua mossa, dando vita a uno scontro settario che ha effetti destabilizzanti da Baghdad allo Yemen e dai sobborghi di Aleppo al Libano meridionale.

Al contrario, l’agenda politica del generale Al-Sisi una volta salito al potere nel 2013 si è concentrata maggiormente sulla stabilità interna e la sicurezza; adottando una linea più quietista e prudente sul fronte esterno. Ciò si è concretato in un sostanziale giro di vite nei confronti della Fratellanza Musulmana – molti esponenti della quale sono oggi condannati a morte, incluso l’ex presidente democraticamente eletto Mohammed Morsi – e in un massiccio dispiegamento di forze militari nella penisola del Sinai; dove alcuni gruppi jihadisti già presenti nella zona hanno dichiarato la propria affiliazione al sedicente Stato Islamico. Sul fronte estero, il Cairo ha invece preferito limitare i propri interventi agli scenari in cui era richiesto dall’interesse nazionale, come nel caso dei raid effettuati in Libia dopo la decapitazione di trenta operai copti da parte di Daesh, o dagli obblighi di un’alleanza esigente con Riyad, come avvenuto di fatto in Yemen.

Inoltre, se da un lato il Cairo si dimostra scettico di fronte all’interventismo saudita, l’ascesa al trono di Re Salman a Riyad è coincisa con una postura più conciliante nei confronti della Fratellanza Musulmana; giurato nemico interno del presidente Al-Sisi fin dai massacri dell’estate 2013. A tal proposito, mentre Re Abdullah aveva inizialmente appoggiato il partito salafita egiziano al-Nour, dichiarando i Fratelli Musulmani organizzazione terroristica nel 2014, l’inasprirsi dello scontro con l’Iran sciita ha suggerito a Riyad maggiore prudenza. La visita in Arabia Saudita di alcuni rappresentanti della Fratellanza tunisina, yemenita e palestinese lo scorso luglio, prova infatti come Re Salman abbia optato per un atteggiamento più distensivo e conciliante rispetto al suo predecessore; a dispetto degli interessi interni di Al-Sisi.

In questo quadro controverso, il nodo principale dell’alleanza tra Egitto e Arabia Saudita rimane tuttavia la Siria. Dove la guerra per procura tra Tehran e Riyad è ormai sempre più evidente, ma dove gli interessi del presidente egiziano Al-Sisi sembrano coincidere più con gli obiettivi della prima che della seconda. Il Cairo preferisce la sopravvivenza al potere di Bashar al-Assad alla destabilizzazione del paese, convinto che la vittoria dei gruppi islamisti in Siria possa rinvigorire anche le cellule terroristiche presenti nel Sinai. A tal proposito, la recente partecipazione del ministro siriano per l’Edilizia Abitativa e la Pianificazione Urbana, Mohamed Waleed Ghazal, a un meeting tenutosi a Sharm el-Sheik l’11 dicembre scorso, potrebbe suggerire una ripresa dei legami diplomatici tra il Cairo e Damasco; interrotti da Mohammed Morsi nel 2013.

Infine, il benestare dato da Al-Sisi all’intervento russo e i suoi buoni rapporti con Vladimir Putin rendono ulteriormente complicata l’intesa tra Egitto e Arabia Saudita sul futuro della Siria.
Come suggerito dal recente incremento negli aiuti sauditi, la cooperazione economica tra i due paesi proseguirà. Riyad continuerà a investire nella costruzione del secondo canale di Suez; saranno incoraggiati gli investimenti egiziani in Arabia Saudita e sauditi in Egitto; verranno definiti i confini delle acque territoriali sul Mar Rosso e un clima di maggiore cooperazione economica verrà complessivamente raggiunto.

Tuttavia, rimane meno probabile che l’asse Cairo-Riyadh possa trovare una linea comune sui futuri equilibri regionali, e se anche una forza militare panaraba sarà mai formata, è difficile che il suo impiego sul campo non risulti ostacolato dagli interessi nazionali dei due paesi. Non è un caso, a tal proposito, che tra i sei temi principali affrontati dalla Dichiarazione del Cairo a luglio, non abbia trovato spazio proprio il nome di Bashar al-Assad.

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