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28/11/2015

L’uso strumentale dell’accusa di «terrorismo» e il parallelo tra Isis e Brigate rosse


Gli attentati di Parigi del 13 novembre ci hanno fatto – lo ammettiamo, ingenuamente – pensare per un momento che finalmente, in Italia, dopo tanto blaterare di «terrorismo», i commentatori avrebbero capito cosa è il «terrorismo» e avrebbero imparato a distinguerlo non solo dalla lotta armata ma anche dalla normale dialettica politica tra le classi. Abbiamo peccato di ingenuità, appunto.

Avremmo dovuto ricordare, infatti, che già nel novembre del 2014, un anno fa, su «Famiglia Cristiana» il sociologo Stefano Allievi, disquisendo sull’Isis, si chiedeva retoricamente
che cosa sarebbe successo in Italia se le Brigate rosse avessero avuto un loro territorio? [...] All’interno dell’islam si svolge una battaglia culturale che somiglia a quella affrontata dalla sinistra all’epoca del terrorismo. Allora, semplificando, ci fu una serie di passaggi: da “i brigatisti sono provocatori fascisti” a “compagni che sbagliano” a “nemici del popolo”. Solo quando riconobbe che i terroristi, anche se si richiamavano a ideologie e simboli della sinistra, erano nemici dei lavoratori e dello Stato, la sinistra innescò il processo che sconfisse il terrorismo.
Si trattava di una delle prime avvisaglie di quel parallelo tra Isis e Brigate rosse, esperienze diversissime ma “incredibilmente” racchiuse sotto la comune categoria di “terrorismo”, che negli ultimi giorni, dagli attentati di Parigi in poi, è stata riproposta spesso – più o meno tra le righe – dai media e dal mondo politico. Per primo si è espresso Matteo Renzi che, come un disco rotto, ha ribadito più volte a distanza di giorni il concetto che «l’Italia ha sconfitto il terrorismo interno negli anni ‘70 e ‘80 e sicuramente ha la forza per combattere il terrorismo anche in questa fase» (leggi) e che «per isolare il terrorismo italiano negli anni ‘70 e ‘80, più ancora delle azioni del governo è stata importante la reazione della società civile: l’indignazione degli operai, dei studenti e dei cittadini» (leggi). Renzi parla di sconfitta del «terrorismo», ma non bisogna qui dimenticare che quello che definisce tale – perché il suo riferimento è vagamente cronologico, ma si rivolge chiaramente al fenomeno della lotta armata di sinistra, alle Brigate rosse – è stato sconfitto anche e soprattutto con la tortura dei militanti arrestati, con il waterboarding, con la violenza sessuale, con l’umiliazione: è questo che vuole? È questa la situazione che si sta preparando?

Le parole sull’indignazione degli operai, poi, non sono casuali, ma contengono un riferimento alla figura dell’operaio e sindacalista dell’Italsider Guido Rossa, che denunciò Francesco Berardi come colui che aveva lasciato alcuni volantini brigatisti e fu per questo, in seguito, ucciso dalle Br. Una vicenda, quella di Guido Rossa, più nota al grande pubblico rispetto ad altre, anche grazie al film del 2005 Guido che sfidò le Brigate Rosse: per questo è particolarmente utile come veicolo di messaggi politici.

Non a caso, a poche ore dagli attentati di Parigi, si è riferito a lui persino il conduttore Massimo Giletti durante la trasmissione L’Arena (vedi)  , contenitore televisivo della domenica pomeriggio che, in quella puntata, ha raccolto il 20-30% di share pari a oltre 4 milioni di spettatori: ben più di quanto potrà mai raggiungere qualsiasi quotidiano. Nel corso di quella puntata, appunto, Giletti si è rivolto ai cosiddetti «islamici moderati», chiedendo loro di denunciare i loro correligionari jihadisti e di dimostrare, così, lo stesso coraggio di Rossa.

Nonostante che la richiesta a ogni musulmano in quanto tale di dissociarsi e di denunciare i presunti jihadisti abbia un contenuto razzista difficile da ignorare, l’appello ai «musulmani moderati» a fare «come Guido Rossa» ha trovato diversi emulatori: a esso non si è sottratto, tra le righe, neanche Federico Rampini sulle colonne di «Repubblica» (leggi).

I paralleli con le Brigate rosse, però, non si fermano qui. Il matematico cattolico Luigi Borzacchini, ad esempio, ha inoltrato una lettera al «Corriere della sera» davvero paradigmatica: in essa, pur parlando delle differenze tra i due fenomeni politici del brigatismo rosso e del fondamentalismo islamico, evidenzia, «nelle psicologie individuali dei terroristi» (???), «la stessa crudeltà, la stessa incredibile capacità militare (ci siamo dimenticati la ‘geometrica bellezza’ del rapimento Moro?), le stesse giustificazioni (i bambini di Gaza/del Vietnam), tanto condivisibili quanto ingiustificabili: l’imperialismo, il capitalismo, lo sfruttamento sono problemi reali ma assolutamente inattaccabili dal terrorismo».

Anche su SkyTg24 non sono mancati paralleli forzati. Come segnalato da un compagno su facebook, nella puntata pomeridiana del 25 novembre (vedi), il giornalista Gianluca Semprini ha stabilito un paragone tra l’Isis – o, meglio, tra un presunto «manuale del jihadista» che descriverebbe le tattiche per la guerra in città, trovato in possesso di uno dei quattro marocchini espulsi da Bologna qualche giorno fa perché accusati di «fare propaganda per la jihad» –  e Germano Maccari – definito come uno dei quattro carcerieri di Aldo Moro, quell’ingegner Altobelli che aveva il ruolo di «camuffarsi» – e Nadia Desdemona Lioce – di cui viene detto che al momento dell’arresto era in possesso di due palmari contenenti un «manuale del brigatista».

Il punto più basso, però, forse è stato toccato da un editoriale di Marco Peschiera pubblicato sul «Secolo XIX», a cui hanno risposto con due belle lettere gli ex brigatisti Barbara Balzerani ed Enrico Porsia. In questo articolo, intitolato Dal brigatista Dura ad Abaaoud, il terrore fa rima con kalashnikov, si fa un paragone psicologico tra Riccardo Dura, uno dei  brigatisti uccisi dagli uomini di Dalla Chiesa a via Fracchia a Genova, e Abdelhamid Abaaoud, uno degli accusati di «jihadismo» ucciso il 18 novembre nel blitz di Saint-Denis: il punto in comune tra i due sarebbe l’infanzia difficile e l’abitare in una periferia disagiata.

Insomma, l’Italia ha conosciuto davvero, nel suo passato neanche troppo lontano, il fenomeno del terrorismo e delle stragi di stato, quelle di cui si diceva che «le bombe nelle piazze, le bombe nei vagoni, le mettono i fascisti e le pagano i padroni»: si tratta, però, di un fenomeno totalmente e volutamente rimosso. Nonostante il parallelo tra le stragi dell’Isis e questi fenomeni potrebbe emergere quasi in modo spontaneo, il paragone oggi più frequente è quello con le Brigate rosse, nonostante l’entità numerica delle vittime di stragi come quella alla stazione di Bologna (85 morti in un unico attacco) sia piuttosto simile a quella del 13 novembre di Parigi (130 morti in tre esplosioni e sei sparatorie). Come simile – se non identica – è la pratica di colpire nel mucchio, i civili, persone che stanno facendo altro: una scelta ben diversa da quella brigatista di considerare come bersagli – a torto o a ragione, non stiamo qui dando alcun giudizio – esponenti precisi del mondo politico, industriale o intellettuale che si ritenevano «responsabili» di qualcosa. Insomma, delle azioni di certo armate e violente, ma che non miravano a incutere «terrore» nella popolazione in senso lato o in comunità ben stabilite (obiettivo che costituisce il nucleo concettuale della categoria di «terrorismo»): non ci ha mai convinto la retorica dei movimenti Occupy sul 99% contro l’1%, ma le persone che si potevano sentire minacciate dalle Br non raggiungevano, probabilmente, neanche lontanamente la seconda percentuale. Si trattava, piuttosto, di qualcosa di simile alle uccisioni dei capi di stato attuate dagli anarchici, soprattutto russi e italiani, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Si trattava, soprattutto, di un conflitto interno a uno stato-nazione configurabile come una forma armata di lotta di classe rivoluzionaria contro lo Stato. La pratica terrorista di Daesh, invece, fa parte di un conflitto internazionale, disordinato e policentrico, e si rivolge contro i civili.

Fa un po’ ridere, quindi, che dopo aver stabilito questo parallelo Isis-Br, siano gli stessi media a mostrare stupore quando i sondaggi mostrano che molti italiani pensano che la bomba alla stazione di Bologna sia stata messa dalle Brigate rosse e non, come fu, dai neofascisti dei Nar (leggi e leggi). A volte basterebbe poco per istruire gli spettatori e i lettori: fare i giusti paralleli e contestualizzare sempre.

Bisogna a questo punto chiarire alcuni aspetti della questione: in primo luogo cosa si intende per «terrorismo», in secondo l’uso che si fa di questo termine, utilizzato in modo estensivo come un randello per screditare tutte le esperienze politiche, che adottino o meno pratiche terroriste, che mettono in discussione l’ordine vigente.

Il concetto di «terrorismo» è molto controverso e non ne esiste una definizione ufficiale e condivisa, come esplicitato in un interessante contributo di Aldo Giannuli. Si tratta, tra l’altro, di un concetto molto variabile nel tempo: il terrorista, in altri termini, è stato per molti anni il rivoluzionario che aveva perso. È quanto messo in luce, ad esempio, da Giancarlo De Cataldo – che di professione, oltre che lo scrittore, fa il magistrato e non il militante rivoluzionario – nell’interessante volume Il Maestro, il Terrorista, il Terrone: il terrorista di cui racconta la storia è Felice Orsini che «fallì nell’intento di uccidere Napoleone III, e le sue bombe fecero strage di vittime innocenti» (p. 1). Insomma, un italiano che, nel gennaio 1858, fu autore di un tentativo di attentato contro Napoleone III, nella stessa Parigi insanguinata in questi giorni dagli attentati jihadisti: Orsini e altri suoi compagni lanciarono alcune bombe con innesco a fulminato di mercurio, riempite di chiodi e pezzi di ferro – quelle che in seguito furono dette «bombe all’Orsini» – contrò la carrozza dell’imperatore. Napoleone III sopravvisse, mentre tra la folla – radunata all’ingresso dell’Opéra dove l’imperatore doveva assistere a una rappresentazione teatrale – si contarono otto morti e centoquaranta feriti. Un effetto collaterale, certo, non frutto di una scelta precisa di uccidere dei civili per seminare terrore tra la popolazione: ma come sarebbe giudicata, oggi, dai media e dal mondo politico tale azione? Nonostante ciò, a Milano, Molfetta, Andria, Cisterna di Latina e Priverno esistono, a tutt’oggi, strade dedicate a Felice Orsini: nonostante le pratiche che oggi sarebbero ricondotte alla categoria di terrorismo, egli è considerato uno degli eroi risorgimentali che contribuirono a fare l’Italia.

Il fatto che questo genere di contraddizioni nell’ambigua categoria di «terrorismo» siano raramente – per non dire mai – rammentate in Italia dimostra come questo paese sia culturalmente periferico rispetto ai dibattiti che, invece, sono prevalenti scienze sociali straniere (leggi e leggi).

Qui non si tratta più solo di ristabilire la differenza tra «terrorismo» e «lotta armata» ma di comprendere come anche questo guazzabuglio lessicale e ideologico abbia, in questo particolare contesto politico, una funzione ben precisa. Il nemico esterno, cioè il militante-terrorista di Daesh, viene utilizzato ancora una volta per colpire il nemico interno, cioè ogni ipotesi di cambiamento radicale del sistema economico e sociale che intraprenda una strada diversa da quella (ormai solo formale e di facciata, tra l’altro) elettorale e parlamentare. Quella di terrorismo è ormai, infatti, «la categoria politica universale per descrivere, o etichettare, tutto ciò che sfugge al controllo politico parlamentare, esce dal recinto sempre più ristretto della democrazia liberale o contrasti in qualche modo con quella forma di morale pubblica che il sistema politico-economico ci somministra quotidianamente, e che in questi anni ha completamente tracimato ogni confine irrompendo in qualunque aspetto del vivere sociale»: lo scrivevamo nel luglio 2011, come commento agli attentati di Oslo, attuati da un neonazista bianco e cattolicissimo. Uno di quegli episodi che dimostrano quanto sia ridicolo e infame il refrain fintamente tollerante che si sente in questi giorni sempre più spesso in televisione, per bocca di leghisti e gente della loro stessa risma: «Non diciamo che tutti i musulmani sono terroristi, ma che tutti i terroristi sono musulmani». Le 77 vittime degli attentanti di Oslo dimostrano proprio il contrario, a meno di considerare le 8 persone uccise dall’autobomba e i 69 giovani del partito laburista uccisi indiscriminatamente «meno innocenti» dei loro coetanei che la sera del 13 novembre avevano deciso di assistere al concerto al Bataclan.

Non sono, dunque, solo i singoli brigatisti rossi – Dura, o Maccari, o anche Lioce – che vengono grottescamente ridicolizzati: attraverso la loro identificazione con quello che oggi viene considerato il «primo nemico» «male assoluto» – spesso in un’assurda reductio ad Hitlerum a cui non si sottraggono neanche alcuni compagni, con l’uso di espressioni come «nazi-islamismo» o «fascismo islamico» – è tutta l’esperienza di cambiamento di cui furono (parziale ma, almeno per le Brigate rosse degli anni ’70-’80 non inconsistente) espressione – anche di quelle che adottarono pratiche diverse – a essere messe sotto accusa. Non è un caso se l’accusa di terrorismo – tra l’altro gravida di ripercussioni legali anche molto importanti, soprattutto dopo l’approvazione dell’ultimo pacchetto antiterrorismo, il cosiddetto «decreto Alfano»  – sia mossa contro ogni tentativo delle masse di fare la propria storia: non più, quindi, solo contro le Brigate rosse e le organizzazioni che scelsero effettivamente la pratica della lotta armata, ma anche, negli ultimi tempi, contro i militanti No-Tav o – e qui la definizione è internazionalmente riconosciuta – contro il Pkk curdo, poi rivalutato proprio nella lotta contro Daesh. L’obiettivo è una criminalizzazione e una delegittimazione che rende ogni esperienza di lotta – condivisibile o meno – contro il sistema in cui viviamo invisa all’opinione pubblica. È la lotta di classe – qualunque sia la forma che assume e qualsiasi giudizio si possa dare sulle pratiche che sceglie – a essere criminalizzata attraverso la sovrapposizione con l’attuale «nemico assoluto», quel Daesh che sta prendendo, nell’immaginario collettivo, quel posto occupato negli ultimi settant’anni dal regime nazista.

L’attribuzione dell’etichetta di terrorismo – a volte data in cattiva fede, altre in nome di una scelta rassicurante –, inoltre, depoliticizza le esperienze politiche che scelgono questa pratica e fa sembrare frutto di follia (individuale o collettiva) o di disagio psicologico quella che è in realtà un’opzione – non necessariamente condivisibile, ovviamente – che, volenti o nolenti, è invece politica, come argomentato in un bell’articolo recentemente pubblicato sul «Manifesto». La stessa delegittimazione e la stessa depoliticizzazione, del resto, sono state il metro con cui si è trattata spesso l’esperienza brigatista, con un’attenzione morbosa per i caratteri psicologici, il contesto familiare di appartenenza, la condizione a volte (ma non sempre) di marginalità sociale dei suoi militanti.

Per quanto si tratti di una guerra non convenzionale, l’Occidente ha portato il conflitto bellico in mezzo mondo e, come un boomerang, se lo ritrova ora in casa. È quello che facevamo notare già un anno e mezzo fa a proposito della cagnara – non diversa, tra l’altro, da quella che nel 2006 aveva travolto Marco Ferrando, che aveva sostenuto la legittimità della resistenza irakena che utilizzava attacchi come quello di Nassirya – che si era alzata perché il deputato 5 stelle Alessandro Di Battista aveva provato incredibilmente a fare anche lui questo tentativo di opporsi alla depoliticizzazione della pratica terrorista (leggi e leggi). Già allora, contro Di Battista ma soprattutto contro l’opinione dominante, mettevamo però in guardia:
Insomma, arrivando al dunque, quello che oggi viene individuato come il nuovo male assoluto dell’occidente, l’ISIS, non è altro che il frutto di un secolo di politiche occidentali. E, senza andare troppo in là nel tempo, il frutto diretto delle politiche statunitensi in Medioriente di questo decennio di guerre, dirette e indirette. E l’ISIS si combatte, dice Di Battista, capendo le ragioni che lo hanno generato, cioè intervenendo sulle cause, non sugli effetti. Bene, non potremmo che essere più d’accordo. Non ci stupisce, ovviamente, lo stupore dei vari neoliberali presenti in Parlamento. Semmai ci sorprende la paura, da parte di una certa sinistra, di fare proprio un ragionamento del genere. Se c’è un problema, nell’analisi di Di Battista, è quello di identificare qualsiasi resistenza armata delle popolazioni subalterne con la definizione generica e inutile di “terrorismo”. La lotta armata della resistenza palestinese è tutto fuorché “terrorismo”, così come non costituiscono terrorismo tutte quelle forme di resistenza, o di attacco, verso i centri del potere colonialista e imperialista. Sono invece assimilabili alla definizione che il capitalismo dà di terrorismo proprio le forme di guerra messe in atto dall’ISIS, vera e propria internazionale nera del terrore che niente ha a che vedere con la lotta armata presente in decine di paesi nel mondo, dalla Colombia all’India, dalla Palestina al Libano. E se giustamente Di Battista si impegna a scovare l’origine politica e storica di tale formazione, proponendo un metodo d’analisi anni luce più avanti delle ovvietà mainstream, il suo linguaggio centrato sulla definizione di terrorismo rimane ancorato al modello culturale liberale, che racchiude sotto la definizione di terrore qualsiasi forma di lotta differente dal metodo parlamentare. Sarebbe stato proprio questo uno dei possibili dibattiti tra una sinistra degna di questo nome e l’egregio tentativo di Di Battista. Il silenzio di questi giorni costituisce l’ennesima occasione persa per occupare un discorso pubblico altrimenti lasciato in mano ai liberali d’ogni risma.
Negli stessi giorni, scrivevamo, ancora che:
La lotta dei popoli colonizzati, dalla Palestina all’Iraq, dagli Hezbollah libanesi alle FARC colombiane, dalle comunità naxalite all’ETA, rientrano in una lotta armata delle classi subalterne per la propria liberazione, sociale, coloniale o nazionale che sia. Mentre le guerre di potere portate avanti con il terrore da varie organizzazioni islamiche, che oggi si definiscono ISIS e ieri erano i salafiti o Al Queda, o le tribù libiche appoggiate dall’occidente, così come la guerra imposta dalle frange salafite in Siria, così come i bombardamenti israeliani o NATO in giro per il mondo, così come l’aggressione imperialista in Ucraina, vengano definite chiaramente con la parola terrorismo. Quale che sia la sua matrice, politica, religiosa o di Stato. E si abbia il coraggio di distinguere tra le ragioni della lotta armata e quelle del terrorismo, operando una scelta politica. Che non significa, sottolineiamo, aderire o appoggiare quel particolare metodo di lotta, quanto legittimarlo quale possibile evoluzione dei rapporti politici, dargli cioè dignità politica. In nessuna della nostre riflessioni c’è un’adesione acritica alla lotta armata, tanto italiana quanto internazionale. C’è però un tentativo politico, che è quello di operare una riflessione che non rifiuti a prescindere, cedendo alla lettura liberale, anche la lotta armata quale strumento di liberazione. E un tentativo “storicizzante”, che cerca di spiegare le origini e gli sviluppi di questa all’interno della vicenda politica, quantomeno quella italiana. […] Invece D’Orsi […] si spinge a giustificare la battaglia dell’ISIS, sebbene non condivisibile neanche per lui, perché contro l’occupazione militare e i bombardamenti aerei l’unica arma per portare avanti la propria guerra è quella del terrorismo. Il problema è che l’ISIS, proprio perché figlio diretto delle politiche occidentali, non combatte quelle politiche, ma lotta per il controllo del territorio, cercando di scalzare gli sciiti (o alawiti) al governo in Iraq e Siria per mere ragioni di potere.
Vorremmo poter dire di essere stati profetici (era l’agosto 2014 e Daesh non aveva ancora fatto la sua irruzione nelle metropoli europee) ma, in realtà, siamo “solo” materialisti.

Infine, posta la giusta differenza tra «terrorismo» e «lotta armata», resta da dire qualche parola sull’uso «morale» che fanno i politici e i media occidentali contemporanei della categoria di «terrorismo»: il terrorista è immorale perché uccide e uccide indiscriminatamente, è «l’altro da noi», il «barbaro». È colui che non fa parte del genere umano. In realtà, però, non si possono attribuire facilmente connotazioni morali (o immorali) alla pratica del terrorismo: come dimostra il recente libro sui Gap partigiani di Santo Peli, ad esempio, anche alcune azioni di guerra dei partigiani che agivano in un contesto urbano sono collocabili, per stessa ammissione dei loro autori, nella categoria di terrorismo e ciò non inficia assolutamente la giustezza della loro lotta.

Per quanto siamo ben lontani dal vedere con ostilità ogni forma di violenza e di conflitto e dal considerare prioritaria nel giudizio politico su alcuni eventi la morale sulla «vita umana come da salvaguardare ad ogni costo», c’è da dire che al di là del dato giuridico-diplomatico (per il quale una guerra deve essere dichiarata, deve essere soggetta alle convenzioni internazionali sul trattamento dei civili, deve essere combattuta da formazioni regolari, ecc.), sotto il profilo morale non ci sembra ci sia troppa differenza tra uccidere i civili con i bombardamenti aerei o con l’esplosione di una bomba che uno si porta addosso: il primo caso, forse nell’illusione che le bombe possano essere davvero «intelligenti», sembra solo più «pulito», più «chirurgico», nonostante i militari coinvolti in tali operazioni siano colpiti il più delle volte da sindrome post traumatica da stress e, tornati nelle rispettive e amate patrie, si rendano responsabili – come nel caso di molti soldati statunitensi di ritorno dall’Irak e dall’Afghanistan (leggi e leggi) – di violenze domestiche contro i propri familiari, di atti di autolesionismo, di violenze e aggressioni contro sconosciuti. Non si tratta, quindi, di operazioni così “leggere”.

Il fatto che ci siano kamikaze che si fanno esplodere è solo un indice del fatto che non esiste più la guerra tra due eserciti che si scontrano sul campo di battaglia: ma, del resto, di «guerra totale», in cui è abolita la differenza e la separazione tra «fronte» e «civili» si parla già a partire dalla prima guerra mondiale, se non dalla guerra di secessione statunitense dell’Ottocento. Ciò ha poi avuto la più celebre consacrazione durante la seconda guerra mondiale: da allora, le vittime civili hanno sempre superato quelle militari nei conflitti. Sia sufficiente pensare che questo conflitto si è concluso tra l’aprile e il maggio del 1945 solo nel contesto europeo: la guerra “mondiale” è terminata solo nell’agosto del 1945, dopo il lancio di bombe atomiche contro i civili sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Non è terrorismo anche questo? Uccidere e terrorizzare la popolazione civile in vista dell’ottenimento di un obiettivo politico: per quanto la definizione di terrorismo sia incerta e ambigua, questo ci sembra propriamente un suo cardine.

Ribadiamo, dunque, la domanda: il jihadista che si fa esplodere nei pressi (o dentro) uno stadio è davvero moralmente più deprecabile dei piloti italiani che negli anni ’30 sganciarono gas tossici come l’iprite su Etiopia e Libia, di quelli alleati che bombardarono i tedeschi di Dresda durante la Seconda guerra mondiale, di quelli statunitensi che hanno colpito civili con il napalm e con l’agente arancio in Vietnam negli anni ’60 (ma anche in Italia, nel 1943-44), o ancora di quelli statunitensi che hanno lanciato il fosforo bianco sulla città irakena di Falluja o dei loro colleghi israeliani che hanno fatto lo stesso in Libano e nella striscia di Gaza? È moralmente più discutibile solo perché implica l’idea di suicidarsi – ancora probabilmente vero e proprio tabù per le società (post)cattoliche – oltre a quella di uccidere? Oppure il fatto che quando alcuni atti sono perpetrati dagli occidentali e dai loro alleati vengano definiti come «operazioni di polizia internazionale» li rende un po’ meno terroristici?

Come abbiamo scritto come commento alla manifestazione che fece seguito all’attentato contro la redazione di «Charlie Hebdo» a gennaio, «a guidare la marcia contro i “barbari tagliagole” c’erano altri barbari, quelli in giacca e cravatta» (leggi). Anche se adottassimo un punto di vista moralisteggiante, dunque, la definizione di terrorismo (per quanto, nel caso di Daesh, usata a proposito), come un boomerang, non può che tornare indietro contro i governi imperialisti occidentali.

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