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20/11/2015

Isis: l’errore di partenza

Tutta la questione dell’Isis e della conseguente decisione sulla guerra, si basa su un assunto di partenza: che l’Isis voglia distruggere l’Occidente cristiano, il nostro stile di vita, le nostre libertà e trasformare San Pietro in una Moschea, come si legge nei loro proclami che ci appaiono farneticanti. Dunque è l’Occidente il nemico principale della jihad da cui dobbiamo difenderci. Ma le cose stanno proprio così?

Indubbiamente questa è la versione propagandistica dell’Isis e non c’è dubbio che gli jihadisti “di base” (se ci si consente il termine) pensano esattamente questo e sono disposti ad immolarsi con gli attentati suicidi, anche per vendicare i morti dei bombardamenti occidentali.

Forse è il caso di ricordare che le imprese guerresche occidentali hanno fatti 1 milione di morti fra i civili irakeni, centinaia di migliaia fra gli Afghani, decine di migliaia fra libanesi, libici ecc. Senza contare i palestinesi nel conflitto con gli israeliani. Dunque, che ci sia un sentimento di forte ostilità nei confronti dell’occidente è del tutto plausibile e non solo fra gli estremisti della Jihad, ma anche fra la gente comune ed è proprio su questo risentimento che gli jihadisti fanno leva sia per allargare la loro sfera di influenza, sia per delegittimare, parallelamente le classi dirigenti nazionali dei paesi arabi o, comunque, islamici.

La “narrazione” della guerra Occidente-Islam è profondamente distorsiva ed impedisce di vedere una serie di aspetti di grande importanza. In primo luogo occulta il dato della guerra civile islamica che, come diremo, è prevalente sulla guerra con l’Occidente. In secondo luogo alimenta la leggenda di un islam moderato che si identifica con i pretesi alleati dell’Occidente (sauditi, quatarioti, Erdogan ecc.) che, al contrario, rappresentano la parte peggiore e più integralista dell’Islam.

Di conseguenza, spinge ad individuare come nemici primari molti settori laici dell’Islam come i regimi militari Baaht o gli yemeniti. Ovviamente, Gheddafi, Saddam, Assad hanno espresso regimi di ripugnante autoritarismo che si sono macchiati di crimini contro l’umanità, su questo non c’è dubbio, ma sono stati (come peraltro lo è in una certa misura il regime dei generali egiziani, per nulla migliore dei regimi Baaht) un argine al fondamentalismo jihadista e, forse, non erano i nemici da affrontare per primi.

Poi si tende ad una identificazione fra Islam e suoi settori jihadisti secondo l’erratissimo schema del conflitto di civiltà che individua il nemico nell’Islam in quanto tale. Ed è interessante notare che di questa idea esistono due versioni speculari: quelle di destra alla Fallaci (per intenderci) che è accettata da Pierluigi Battista o Giuliano Ferrara, ma anche una di “sinistra” di quelli che riconoscono nell’azione Isis la risposta armata ed asimmetrica all’aggressione occidentale, e, per ciò stesso, l’espressione dell’Islam che resiste”.

Che ci sia una aggressione occidentale è fuori discussione, così come il fatto che si siano compiuti orrendi crimini di guerra da parte degli americani, quello che non è vero è che l’Isis rappresenti il mondo islamico, quel che legittimerebbe perfettamente il delirio del conflitto di civiltà. Ma, soprattutto, questa visione rozzamente manichea, non opera alcuna distinzione fra militanti di base e gruppo dirigente jihadista.

L’immagine che si ha e si diffonde dei capi jihadisti, sia Al Quaeda che Isis (e prima delle altre formazioni come quella algerina del Fis) è quella di rozzi ed esaltati capi setta, che davvero sognano di espandere il loro dominio a tutto il medio oriente, mezza Europa e, in futuro, in India.

In realtà, tanto i capi di Aq quanto quello dell’Isis, al di là della propaganda, hanno dimostrato grande realismo politico, abilità nel giocare di sponda e capacità comunicativa non comune. Nel caso dell’Isis, inoltre, hanno dimostrato una non comune capacità organizzativa. Per gli jihadisti, la guerra civile islamica è il vero piano strategico su cui misurarsi, mentre l’Occidente è solo un “nemico di rimbalzo”. Quello che interessa ai capi della Jihad è la costituzione di una grande potenza teocratica di area. Il mondo islamico, sulla carta, assomma a 1 miliardo e 200 milioni di persone, con un esercito che complessivamente raggiunge i 20 milioni di uomini con sofisticatissimi sistemi d’arma (grazie soprattutto agli acquisti dell’Arabia Saudita e dell’Egitto), dispone di una potenza nucleare (il Pakistan) e forse due (con l’Iran), è una potenza finanziaria di prim’ordine grazie al controllo della maggior parte della produzione petrolifera mondiale. Ma non conta praticamente nulla: non ha nessun membro permanente del consiglio di sicurezza, nessun membro del G8 ed a stento uno (l’Egitto) nel G20, ha un peso marginale nella City di Londra e praticamente nessuno a Wall Street, non conta niente nel Fmi e nella Banca mondiale ecc. Gli islamici, dove sono minoranze, sono messi ai margini delle rispettive società (in Europa, e si pensi alla banlieu, in Cina gli uiguri, in Russia i ceceni, per non dire dei palestinesi e della minoranza islamica in India ecc.) senza che nessuno ne possa assumere la rappresentanza a livello mondiale, facendone valere i diritti.

Questo perché il mondo islamico è frazionato in una trentina di stati, nessuno dei quali ha il rango di grande potenza di riferimento, mentre ci sono una mezza dozzina di aspiranti a questo ruolo, che giocano la partita su piani diversi (Egitto, Irak, Pakistan, Turchia, Indonesia, Arabia Saudita, Iran, recentemente anche il Quatar). Gli jihadisti ritengono che la radice del male stia proprio nella costituzione di Stati nazionali che spezzano l’”Umma” e ritengono (per certi versi non infondatamente) che il modo per permettere al mondo islamico di entrare nella “stanza dei bottoni” del potere mondiale è proprio quello di abbattere gli stati nazionali e costruire un superstato islamico fondato sulla nozione teologica di Califfato.

In questo quadro, il principale nemico della Jihad non sono i “crociati” di Europa ed America, ma proprio le classi dirigenti nazionali islamiche. Gli occidentali sono appunto, un “nemico dello schermo” che serve a dimostrare chi ha il coraggio di opporsi al “ Satana occidentale” e delegittimare le classi al potere negli stati arabi e comunque islamici, presentandole come corrotte ed asservite al nemico. Da questo punto di vista, gli jihadisti hanno già ottenuto notevoli successi, mietendo consensi che, se ancora minoritari, non sono affatto irrilevanti, attingendo al grande bacino della frustrazione delle masse islamiche. Dunque, lo scontro con l’occidente, dalle invasioni subite agli attentati inflitti, hanno una valenza essenzialmente tattica.

L’eventuale nuova  invasione di europei ed americani avrebbe facilmente ragione delle forze del Califfato, ma questo è nel conto: l’attuale configurazione geografica dello Stato Islamico non è data affatto per definitiva e neppure la stessa esistenza dello stato è ritenuta un dato necessariamente stabile. Se l’attuale “Califfato” fosse distrutto da forze preponderanti, magari dopo sanguinosissimi scontri in cui perissero decine di migliaia di suoi combattenti, sarebbe molto facile ribaltare la sconfitta militare (inevitabile) in un enorme successo propagandistico, con tanto di schiere di martiri caduti per la fede. Ed il reclutamento riprenderebbe moltiplicato in ogni parte del mondo.

Perdonatemi l’accostamento blasfemo, lo faccio solo per dire quale potrebbe essere la valenza propagandistica del fatto, sarebbe qualcosa di molto simile a quello che fu, per il movimento socialista mondiale, la Comune di Parigi: una grande tragedia, con migliaia di massacrati, ma che si convertì in uno strumento di straordinaria efficacia per costruire l’immaginario intorno a cui far crescere il socialismo.

E gli attentati in Europa (ed Usa) non diminuirebbero, ma, al contrario aumenterebbero. Allora come se ne esce? Ne riparliamo una delle prossime volte, ma certamente non con una avventura militare che andrebbe proprio nel senso di quello che l’Isis vuole.

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