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27/11/2015

Droni ancora a segno: ucciso un leader dei Tehreek-i-Taliban

La Cia lo dà per morto nell’ultima operazione compiuta da quattro droni nell’area di Damma, fra Afghanistan e il nord Waziristan, il portavoce dei Tehreek-i-Taliban nega decisamente che la notizia abbia fondamento: l’attacco c’è stato, si contano una dozzina di guerriglieri colpiti, ma Khan Said Sajna non sarebbe fra le vittime. Lui è il leader della frazione dei talebani del Waziristan meridionale che ha guidato una ribellione rivolta alla componente dei turbanti vicina al governo pakistano. Sajna è considerato dagli Stati Uniti mente e braccio d’un assalto compiuto quattro anni fa contro la base navale Mehram di Karaki in cui vennero distrutti due aerei statunitensi. Allora non agiva con la sigla TTP, ma da quel momento l’uomo entrava nella lista nera dell’esercito Usa. Invece l’ascesa alla leadership, pur frazionista dei talebani pakistani, era avvenuta dopo l’uccisione, sempre tramite un drone, del precedente capo Hakeemullah Mehsud. Quest’eliminazione è avvenuta in una fase in cui Mehsud s’apprestava a colloqui con l’allora appena eletto premier pakistano Sharif. Probabilmente Washington voleva impedire quest’avvicinamento.

Nelle terre del Waziristan Hakeemullah viene ricordato come un guerrigliero intelligente e coraggioso, l’aneddotica lo menziona alla guida d’un gruppo talebano che nel 2007 catturò addirittura trecento soldati pakistani;  giornalisti che l’hanno avvicinato, come Shoaib Hasan della Bbc, lo presentavano come “un giovane vivace e audace”. Sulla sua fine c’è un velo di mistero perché, dopo l’annuncio della morte a mezzo del cannoneggiamento via drone, una voce maschile registrata che dava le sue generalità sostenne d’essere scampato all’attacco. Forse si trattava d’un messaggio a uso interno fra i miliziani talebani, affinché non ci fossero sbandamenti e defezioni. Il rapporto di questa componente con l’ex fazione qaedista in Pakistan e coi jihadisti locali (Lashkar-e-Taiba, Jaish-e Mohammed) continua a essere stretto. Per contrastare tali forze la scelta statunitense s’è rivolta ormai da quattro anni prevalentemente ai velivoli senza pilota, guidati a distanza da basi che sorgono a centinaia di chilometri (quelle afghane) o a decine di migliaia (quelle del Nevada). Prima di Sajna e Hakeemullah l’antecedente responsabile del gruppo armato, Baitullah, era rimasto vittima di un’eliminazione mirata a mezzo di drone.

Un rapporto del comando statunitense girato alle maggiori agenzie afferma che gli attacchi sferrati negli ultimi giorni hanno registrato l’eliminazione di 45 talebani. Questi dispacci non parlano mai di ‘danni collaterali’ (il termine coniato dall’informazione dello stesso esercito Usa per indicare l’uccisione di civili) che ogni azione si trascina dietro, anche quando parla di colpi mirati perché quest’ultimi non vengono condotti sul singolo bersaglio, ma lo colgono in situazioni in cui è circondato da adepti o semplicemente da gente di passaggio. Così la stampa internazionale s’interroga sull’efficacia del programma e pone la questione se i droni non producano più terroristi (che per reazione abbracciano la jihad) che nemici  colpiti. Inoltre alcuni docenti universitari americani, impegnati sul tema della sicurezza, fanno notare che mancano dati certi sugli effetti delle uccisioni, confermate da chi le esegue, smentite da chi le subisce come nei casi citati, e volutamente carenti riguardo alla popolazione coinvolta. La guerra coi droni evita solo i decessi di piloti (colpiti da altre sindromi, vedi qui) non di vite di civili, come ogni altro attacco aereo. Mentre perdere un drone risulta molto più costoso d’un F16; ma questo finora accade di rado.

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