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22/10/2015

Un femminismo dove “Lean in (Facciamoci Avanti)” significa appoggiarsi ad altri


Questa intervista, l’ultima di una serie riguardo argomenti di politica, discute questioni filosofiche concernenti il femminismo. La mia intervistata è Nancy Fraser, professoressa di filosofia e politica presso la New School. E’ l’autrice di “Sorti del Femminismo: dal capitalismo di stato alla crisi Neoliberale” - Gary Gutting.

Gary Gutting: Di recente hai scritto: “Come femminista, ho sempre ritenuto che lottando per emancipare le donne stavo costruendo un mondo migliore, più egalitario, giusto e libero. Recentemente, invece, ho iniziato a preoccuparmi del fatto che la nostra critica al sessismo sta ora fornendo la giustificazione per nuove forme di ineguaglianza e sfruttamento.” Potresti spiegare il tuo pensiero?

Nancy Fraser: Il mio femminismo è emerso dalla New Left (Nuova Sinistra) ed è ancora tinto dal pensiero di quel tempo. Per me, il femminismo non è semplicemente una questione di porre un pizzico di individui donne in posizioni di potere e privilegio dentro le gerarchie esistenti. E’ piuttosto riguardo il sorpasso di quelle gerarchie. Questo richiede di sfidare le fonti strutturali di dominazioni di genere nella società capitalistica, in primis la separazione istituzionalizzata di due tipi di attività presunti differenti: da un lato il lavoro cosiddetto “produttivo”, associato storicamente agli uomini e remunerato con stipendi/salari; dall’altro lato, le attività di “cura”, spesso storicamente non pagate e ancora oggi svolte in prevalenza da donne. Dal mio punto di vista, questa divisione gerarchica basata sul genere tra “produzione” e “riproduzione” è una delle strutture che definiscono la società capitalistica e una fonte profonda di asimmetrie di genere innate in essa. Non ci potrà essere nessuna “emancipazione delle donne” finché la struttura rimarrà intatta.

G.G. Perché il rispondere alle preoccupazioni femministe non può essere visto come un primo passo per la correzione dei difetti sociali ed economici della nostra società capitalistica, e non una trasformazione fondamentale del sistema?

N.F. Può sicuramente essere visto in questo modo. Ma io sto chiedendo se il femminismo odierno sta davvero portando avanti questo processo. Per come lo vedo io, il femminismo dominante del nostro tempo ha adottato un approccio che non può ottenere giustizia neanche per le donne, figurarsi per chiunque altro. Il problema è, che questo femminismo è concentrato nell’incoraggiare donne della classe media, istruite, a “farsi avanti”, a “rompere il tetto di vetro”, in altre parole ad arrampicarsi sulla scala sociale. Per definizione, quindi, i beneficiari di questo femminismo possono essere soltanto donne della classe dirigente-professionale. E, mancando i cambiamenti strutturali nella società capitalistica, queste donne ne possono beneficiare solo appoggiandosi ad altri, scaricando il proprio lavoro casalingo e di cura (di bambini e anziani) su lavoratori precari, sottopagati, tipicamente donne immigrate e/o discriminate per razza. Quindi questo non è, e non può essere, un femminismo per tutte le donne!

Ma questo non è tutto. Il femminismo dominante ha adottato una visione di eguaglianza sottile, centrata sul mercato, che combacia con la visione prevalente di azienda liberale. Quindi, tende a mettersi in riga con un capitalismo particolarmente predatorio, che sta ingrassando gli investitori cannibalizzando gli standard di vita di chiunque altro, dove il vincitore prende tutto. Ancora peggio, questo femminismo sta fornendo un alibi per queste razzie. E’ il pensiero liberale femminista che sempre più fornisce il carisma e l’aura di emancipazione cui il neoliberalismo ricorre per legittimare la sua vasta redistribuzione verso l’alto della ricchezza.

G.G. Potresti fornire qualche esempio specifico di quello che tu vedi come femminismo dominante che aiuta lo sfruttamento capitalistico?

N.F. Certo. Negli anni Settanta, le femministe hanno sviluppato una potente critica dell’ideale culturale del dopoguerra noto come “reddito di famiglia”. Quell’ideale sosteneva che le donne dovessero essere casalinghe a tempo pieno e i loro mariti dovessero essere gli unici (o almeno i principali) a mantenere la famiglia, guadagnando abbastanza per sostenere un intero nucleo famigliare. Certamente, solo una minoranza delle famiglie Americane riuscì ad ottenere questo ideale. Comunque ebbe una grande importanza in una fase del capitalismo basata sull’industria manifatturiera di massa e lavoro relativamente ben pagato per uomini (specialmente bianchi) sindacalizzati. Tutto questo, tuttavia, cambiò con lo scoppio della seconda ondata di femminismo, che rifiutò il reddito di famiglia come sessista, pilastro della dominazione maschile e della dipendenza delle donne. A questo punto, il movimento ancora condivideva l’ethos anticapitalista della New Left (Nuova Sinistra). La sua critica non era indirizzata a valorizzare il lavoro salariato, e ancora meno a denigrare il lavoro non pagato di cura (di anziani, bambini e domestico). Al contrario, le femministe di questo periodo stavano sfidando l’androcentrismo di una società che dava la priorità ai profitti sopra le persone, alla produzione economica sopra la riproduzione umana e sociale. Loro cercavano di trasformare le profonde strutture del sistema e i valori che le animavano, in parte decentrando il lavoro salariato e valorizzando le attività di lavoro non pagato, specialmente quelle attività di cura svolte dalle donne e socialmente necessarie.

G.G. Quindi come è cambiata la critica del reddito di famiglia?

N.F. Oggi, la critica femminista del reddito di famiglia ha assunto un tiro totalmente differente. La sua spinta principale è quella di convalidare la nuova, più “moderna” idea di nucleo famigliare, quella di una famiglia con due fonti di reddito, che esige l’ occupazione della donna e strizza il tempo per il lavoro di cura non pagato. Nell’avvallare questo ideale, l’attuale femminismo dominante si allinea con le necessità ed i valori del capitalismo neoliberale contemporaneo. Questo capitalismo ha reclutato una massa di donne nella forza lavoro pagata, mentre, contemporaneamente esportava la produzione nel sud del mondo, indebolendo i sindacati, e facendo proliferare i McJobs precari e sottopagati. Questo processo ha ovviamente significato il declino dei salari reali, una crescita decisa nel numero di ore di lavoro pagato svolto nel nucleo famigliare necessario a sostenere una famiglia, e una corsa disperata per trasferire il lavoro di cura ad altri per ottenere più tempo da dedicare al lavoro pagato. Com’è ironico, quindi, che questo abbia una parvenza femminista! La critica femminista al reddito di famiglia, originariamente diretta contro la svalutazione capitalista del lavoro di cura, ora serve per intensificare la valorizzazione capitalista del lavoro salariato.

G.G. Ma non tutti gli sforzi femministi si concentrano su donne delle classi alte. Parliamo per esempio dei progetti di offrire piccoli prestiti (micro-credito) a donne poco abbienti di nazioni meno sviluppate per aiutarle a produrre le loro piccole imprese.

N.F. Sono molto felice che tu mi abbia chiesto questo, perché è un altro esempio di come le idee femministe si sono contorte per asservire fini capitalistici neoliberali. Il micro-credito è promosso come un modo di “dare potere” alle donne in regioni povere e rurali del sud del mondo. Ma si suppone anche che rappresenti una nuova maniera, più partecipata, che parte dal basso, per combattere la povertà, liberando energie imprenditoriali della gente comune, evitando la burocrazia dei progetti di sviluppo statali di larga scala del periodo precedente. Il micro-credito, quindi, riguarda molto la glorificazione del mercato e la denigrazione dello stato con merito all’uguaglianza di genere. Di fatto, intreccia queste idee in un amalgama dubbio, invocando al femminismo di vestire l’ideologia del libero mercato.

Tutto questo è un gioco di prestigio. Il micro-credito si è diffuso esattamente quando le istituzioni finanziarie internazionali stavano spingendo per gli “aggiustamenti strutturali” nel sud del mondo, ponendo condizioni sui prestiti che richiedevano agli stati post-coloniali di liberalizzare e privatizzare le loro economie, tagliare la spesa sociale e abbandonare le politiche macroeconomiche contro la povertà e per l’occupazione. E non c’è modo in cui in realtà il micro-credito possa sostituire queste politiche. E’ una truffa crudele sostenere il contrario.

Quindi, ancora una volta le truppe femministe sono chiamate a legittimare politiche che sono profondamente dannose per la schiacciante maggioranza delle donne, dei bambini e degli uomini.

G.G. Collegare il femminismo ad una critica ai fondamenti del capitalismo lo trasforma in una causa persa? La maggioranza degli Americani pare pensare che il capitalismo continuerà ad esistere.

N.F. Beh, io non sono del tutto convinta che trasformare il capitalismo neoliberale sia una causa persa. Mi pare che questo sistema sociale sia in una crisi estremamente profonda e multidimensionale, una crisi contemporaneamente economica, ecologica, sociale e politica, e qualcosa dovrà concedere, come è stato negli anni Trenta. Quindi, direi che la questione non sia se il capitalismo sarà trasformato, ma come, da chi e nell’interesse di chi.

Mi piacerebbe che le femministe si unissero ad altri movimenti sociali progressivi e di emancipazione, nel tentativo, sia intellettuale che pratico, di plasmare la direzione del cambiamento.

G.G. Questo significa limitare gli sforzi per il miglioramento delle condizioni delle donne nell’attuale sistema capitalistico nella speranza di una rivoluzione?

N.F. Assolutamente no! Io suggerirei una strategia di “riforma non riformista” per usare un’ espressione del pensatore francese eco-socialista André Gorz. Questo significa ideare e perseguire riforme che producano risultati reali, attuali mentre si aprono anche sentieri per sfide più radicali per ottenere cambiamenti strutturali e più profondi in futuro. Le femministe possono abbracciare questo approccio con spirito agnostico. Noi non dobbiamo decidere ora se il risultato finale sarà una società postcapitalista.

La mia personale opinione, come ho detto prima, è che la dominazione maschile non può essere superata a meno di abolire la preferenza radicata nel capitalismo per la produzione economica sopra la riproduzione sociale. Per questo penso che un cambiamento radicale sia un’agenda più realistica del “farsi avanti (leaning in)”. D’altra parte non sarei infelice di sbagliarmi; se un nuovo tipo di capitalismo potesse liberare le donne (e intendo tutte le donne) senza mandare in rovina chiunque altro, sarei d’accordo! Per questo, dico, dedichiamoci a riforme non riformiste e vediamo dove portano.

G.G. Molte femministe oggi, sono particolarmente preoccupate delle distorsioni inconsce contro le donne, distorsioni che esistono anche in quelle persone che consciamente supportano i diritti delle donne, incluse le donne stesse. Quanto è importante questa questione per te?

N.F. Le distorsioni inconsce contro le donne, e quindi contro qualunque cosa codificata come “femminile”, sono estremamente diffuse nella nostra società. E tu hai ragione: influenzano il pensiero delle donne stesse, incluso quelle che si identificano come femministe. Potrei fare molti esempi, ma uno dei miei preferiti è un indovinello. Parla di una chirurgo di pronto soccorso messo ad operare un ragazzo che è stato gravemente ferito in un incidente stradale in cui il padre è rimasto ucciso all’istante. Il chirurgo guarda la faccia del ragazzo e dice: “Non lo posso operare, è mio figlio”. L’indovinello è, come può essere?

Saresti sorpreso di quanto tempo impiega la maggioranza delle persone, donne e femministe incluse, a realizzare che il chirurgo è una donna, molti sono più propensi a pensare che sia un uomo gay. E certamente ci sono molti esempi consequenziali, come il modo in cui la distorsione sessista influenzi i giudizi sulle qualificazioni di chi si candida ad un lavoro.

G.G. Ma questo è solo un problema di pregiudizi individuali, che siano consci o inconsci?

N.F. Per niente. Le norme che classificano le qualità “maschili” al di sopra di quelle “femminili” sono eradicate nelle nostre pratiche sociali e istituzioni, inclusi i criteri di leggi, pratica medica, cultura aziendale e il diritto al welfare sociale. Per questo non sorprende che esse resistano nelle menti delle persone. Il mio punto, però, è proprio che non sono semplicemente nella testa delle persone. Al contrario, i valori culturali che subordinano le donne sono profondamente incorporati nelle strutture sociali che regolano le interazioni sociali quotidiane. Il femminismo, quindi, non si può limitare a cambiare la consapevolezza. Dobbiamo anche eliminare i valori sessisti dalle nostre istituzioni sociali e sostituirle con valori che promuovano una partecipazione eguale tra uomini e donne, ed in realtà, tra tutti.

G.G. Potresti farmi qualche esempio di come questi valori siano radicati dentro le nostre pratiche sociali ed istituzioni?

N.F. Certo. Ecco un esempio: molte corti hanno legiferato che la carenza da parte dei datori di lavoro ad offrire il congedo per gravidanza non costituisce una discriminazione di genere perché non nega ad una donna un beneficio offerto all’uomo. Presupponendo come standard il lavoratore uomo, queste normative effettivamente penalizzano la donna per essere “diversa”. Quindi la corrente regolamentazione del welfare spinge le madri di figli piccoli a “lavorare”. Tacitamente assumendo che il crescere i figli non sia lavoro, queste normative posizionano le riceventi (del welfare) come parassiti che stanno ottenendo qualcosa senza fare niente. Infine, le norme legali che definiscono cosa valga come difesa personale, presuppongono una socializzazione tipicamente maschile, in cui ognuno impara a reagire sul posto. Pertanto, donne che hanno subito abusi, che aspettano un’apertura per inabilitare coloro che di lei hanno abusato incontra difficoltà a reclamare la propria auto-difesa. In tutti questi casi, e ce ne sono tanti, tanti altri, le nostre istituzioni e le nostre pratiche sociali operano su basi androcentriche e norme sessiste, che impediscono alle donne di partecipare completamente alla vita sociale in termini di parità con gli uomini.

G.G. Un altro fra i maggiori punti di interesse femministi è quello che molti vedono come “cultura dello stupro”, particolarmente nei campus universitari. Qual’ è la tua visione a riguardo?

N.F. Beh, questo è sicuramente un tasto caldo oggigiorno, e devo confessare di avere sentimenti contrastanti a riguardo. Questo è dovuto in parte al fatto che mi preoccupo sempre quando un problema diventa così dominante da eclissare il resto dell’agenda femminista, come l’aborto ha sempre fatto negli Stati Uniti. Ma è anche perché ho un certo sentimento di déjà vu, è come se stessimo ripetendo un dibattito precedente tra un filone “protezionista” di femminismo, concentrato sulla violenza contro le donne e che cerca rimedi nel codice penale, e un filone liberazionista, che cerca di convalidare l’agire delle donne e la libertà sessuale.

Personalmente, ho sempre voluto sviluppare un terzo approccio che assicuri non solo autonomia sessuale per le donne, ma anche diritti civili per tutti. E vorrei che questo approccio non si limitasse alle aggressioni sessuali, ma anche ad altre forme di coercizione, più impersonali o sistemiche che limitano l’autonomia delle donne nel sesso e in altre sfere. Per esempio, mi piacerebbe rivendicare le idee del maltrattato movimento delle donne degli anni Settanta, che enfatizzava l’importanza non solo di sanzioni penali, ma anche di “opzioni di uscita” nella forma di abitazioni decenti e abbordabili e lavori che siano abbastanza remunerativi da permettere ad una donna di provvedere a sé stessa e i suoi bambini.

G.G. Come applicheresti questa visione generale al problema degli stupri nei campus?

N.F. Sono preoccupata per gli account che dipingono i college ed i campus universitari come territori di caccia aperta per stupratori. Riconosco che esistono enclavi che davvero meritano l’etichetta di “culture dello stupro”, ma penso che siano alquanto ristrette, e non voglio vedere l’espressione usata in modo così vago da essere svuotata di significato e forza critica. Le situazioni più comuni di sfruttamento sessuale (e questa espressione è spesso più accurata di “stupro”) sono caratterizzate da ambiguità della comunicazione, sentimenti misti, difficoltà nell’identificare i desideri di una persona o la loro mancanza, e la diminuzione del senso di diritto a disporne, tutte circostanze che operano contro l’autonomia sessuale e relazionale delle donne, specialmente (ma non solo!) in contesti eterosessuali. E’ molto importante promuovere una comprensione critica e trasformativa di queste dinamiche. Sospetto, però, che l’odierna campagna, piuttosto iperbolica, contro la “cultura dello stupro” sia troppo mite per questo compito.

dal New York Times - traduzione a cura della Redazione Contropiano di Bologna

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