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29/09/2015

La morte di Ingrao: tra stucchevole iconografia e problemi irrisolti

Sta suscitando commozione, ricordi ed una marea di commenti – specie nel mare magnum dei social network – la morte di Pietro Ingrao.

E’ fuori dubbio che la vita politica di Ingrao ha corrisposto, seppur con accentuazioni specifiche, alla vicenda del “comunismo italiano” almeno dalla fase del “partito nuovo” di Togliatti fino agli esiti post Bolognina dove, il compagno Pietro, scelse di “restare nel gorgo” ossia nel PDS di Achille Occhetto.

Già su Contropiano il compagno Sergio Cararo, a poche ore dalla morte, ha tracciato alcune considerazioni circa il percorso ideale e politico di Ingrao, dove ha messo in evidenza alcuni elementi di incoerenza teorico/politica e di non consequenzialità politico/pratica che hanno rappresentato il tratto vero oggettivo delle caratteristiche di questa importante figura politica (link).

Incoerenze e non consequenzialità le quali – bisogna ammetterlo se non vogliamo produrre pura ed inutile agiografia come quella che registriamo in queste ore – hanno avuto un peso nei movimenti di lotta ed in alcune possibili processi di generale avanzamento politico che si potevano determinare nella società e nel paese specie a ridosso degli anni ’70.

Del resto e qui veniamo, almeno secondo noi, al nocciolo duro delle divergenze con Ingrao e con tutti quei compagni e compagini che, a vario titolo, si sono richiamate al pensiero ed alle intuizioni di Ingrao: tutti gli atti politici a cui il compagno Pietro ha legato il suo nome sono incardinabili ad una interpretazione della lotta per la trasformazione sociale la quale non ha mai posto il tema della “rottura qui ed ora” come obiettivo immanente del conflitto, rinviandolo ad un futuro indefinito ed evanescente.

Per Ingrao, come per molti suoi allievi, il comunismo – la lotta per il comunismo – è sempre stata non “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti” (con tutto il complesso delle complicate transizioni vissute ad Est dopo l’Ottobre, nella Cina maoista o nei paesi che si liberavano in armi dal colonialismo) ma una sorta di “orizzonte e di allusione” a cui bisognava occhieggiare, o magari simboleggiare, nelle dinamiche del conflitto.

La stessa esperienza di Presidente della Camera ed i suoi studi sulla “riforma dello Stato” – la quale, si badi bene, rappresenta il punto più alto della funzione politica dell’operato di Pietro Ingrao negli anni della massima espansione elettorale del PCI – sono coerenti con una idea della – a suo dire – possibile “felice integrazione tra movimenti, masse e poteri”.

Una simbiosi da ricercare ossessivamente la quale, nel suo palesarsi, avrebbe generato una sintesi avanzata tra istanze sociali che si agitavano nella società e processi di rinnovamento istituzionali da compiersi in un paese a capitalismo maturo come l’Italia.

Una vera e propria nefasta utopia la quale, oltre a produrre distorsioni analitiche e, di conseguenza, sbandamenti politici/programmatici non ha tenuto conto che – al di là della vivacità delle istanze di lotta che si esprimevano in quegli anni – la forma stato e l’intera impalcatura della società, dentro i processi di crisi strutturale che segnano il modo di produzione capitalistico, andavano e vanno ancora oggi, a passo di carica, verso una feroce verticalizzazione autoritaria che svuota e depotenzia ogni impossibile “processo di riforma dello stato in senso progressista”.

Certo Pietro Ingrao contribuì all’approfondimento di alcuni strumenti analitici con sollecitazioni, studi e ricerche sul “pensiero di genere”, sul rapporto con l’emergere della nuova questione ambientale e sui processi di trasformazione economica che iniziavano ad investire la “vecchia” composizione di classe fordista.

Ma anche questi spunti di riflessione venivano concepiti, presentati e messi in pratica come atti di “pura discontinuità” e non come necessario contributo innovativo alla critica comunista al complesso della società capitalistica ed alle sue variegate forme della sovrastruttura specie nella fase della “maturità imperialistica”.

Non è ridondante ricordare che su questo versante il buon Vladimiro Lenin – nel suo Che Fare? - sia sul piano dei contenuti ma, soprattutto, su quello del metodo da adottare, traccia alcuni discrimini ed indicazioni di lavoro che sono attuali anche in relazione alla naturale ed indispensabile evoluzione temporale della moderna critica marxista.

Insomma, volendo essere franchi, ci sembra che la figura di Ingrao sia da collocarsi, di fatto, in quel cosiddetto “album di famiglia del comunismo italico” il quale ha vissuto un, insano, tormento tra la spinta alla radicale trasformazione e l’integrazione – seppur con tratti “sociali” – nelle compatibilità statuali e sistemiche.

E’ evidente che le “terribili sfide del nuovo secolo” (per usare una frase di Pietro Ingrao) avranno bisogno, sempre più, non di “padri nobili” da affidare, dopo la morte, alla infinita serie delle icone inoffensive, ma del diffuso protagonismo di donne ed uomini affasciati ad una prospettiva di rottura e di superamento concreto di questi odiosi ed insopportabili rapporti sociali vigenti.

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