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28/08/2015

10 anni di disimpegno da Gaza, per i coloni è il primo e ultimo ritiro

di Michele Giorgio

«Gaza? Ci ritornerei subito. È stato un errore gravissimo quel ritiro. Era terra nostra». Meir aveva una villa e alcune serre nel moshav Ganor, una delle 21 colonie ebraiche costruite da Israele nella Striscia di Gaza, dopo averla occupata militarmente nel 1967, evacuate e demolite 10 anni fa assieme ad altri quattro insediamenti in Cisgiordania. Ricorda con rabbia quando gli ordinarono di partire. «Qualcuno di noi scelse di andare via prima dell’arrivo dei soldati e accettò i risarcimenti statali, altri come me decisero di opporsi ma senza usare la violenza. Alla fine i soldati ci cacciarono via tutti», racconta l’ex colono ricordando quei giorni di agosto del 2005, in cui per la felicità dei palestinesi lasciarono le loro abitazioni gli ultimi dei circa 10 mila coloni ebrei insediati a Gaza, nel quadro del ritiro unilaterale ordinato dallo scomparso premier israeliano Ariel Sharon, passato alla storia come il “Piano di Disimpegno” (Tokhnit HaHitnatkut, in ebraico).

Meir si è rifatto una vita aprendo un minimarket a Nitzan, scialba cittadina sulla costa mediterranea, tra Ashdod e Ashqelon, dove è finita gran parte degli ex coloni. Prova ancora rancore. Per lui, come per tutti i coloni, Gaza, come la Cisgiordania, appartiene solo al popolo ebraico. «Sharon era uno dei nostri, perché prese quella decisione? – domanda Meir – Non siamo tenuti a dare un centimento di terra agli arabi. Con noi (coloni) e l’esercito dentro Gaza (il movimento islamico) Hamas non avrebbe mai preso il potere. I palestinesi non potrebbero lanciare razzi». Di una cosa è certo l’ex colono del moshav Ganor. «Forse non torneremo mai Gaza ma quello di dieci anni fa è stato il primo ed ultimo ritiro da parti di ‘Eretz Israel’, la nostra gente non accetterà che qualcosa di simile avvenga anche in Yehuda e Shomron (Giudea e Samaria, i nomi biblici che i coloni usano per indicare la Cisgiordania, ndr)».

Furono complesse, tra una scommessa diplomatica e necessità militari, le considerazioni che fece Sharon tra il 2002 e il 6 giugno 2004, quando il suo governo approvò il “Disimpegno”. La seconda Intifada contro l’occupazione, cominciata nel 2000, era sempre intensa e Israele, che nel 2002 aveva rioccupato le città autonome della Cisgiordania, si era scoperto vulnerabile agli attacchi palestinesi. Sharon, che nel frattempo aveva dato il via libera al progetto del “Muro di Separazione” in Cisgiordania – ufficialmente per «fermare gli attentati» ma in realtà l’idea era in discussione da anni con evidenti finalità politiche e territoriali – decise il ritiro unilaterale da Gaza per l’impossibilità di proteggere ulteriormente i coloni di fronte alle accresciute capacità di attacco dei palestinesi. Tra i suoi intenti c’era anche quello di dare un segnale “distensivo” al mondo che aveva assistito, in verità quasi senza fiatare o protestare, alla brutale repressione dell’Intifada. Scelse di non andare all’accordo con Abu Mazen che, nel gennaio 2005, era stato eletto presidente dell’Anp al posto dello scomparso Yasser Arafat. Raggiunse invece intese con gli alleati americani e gli egiziani per ottenere il controllo israeliano della costa di Gaza e dello spazio aereo palestinese, riservandosi il “diritto” di intraprendere operazioni militari in caso di “necessità” (tre guerre avvenute tra il 2008 e il 2014). Ai palestinesi, liberi da coloni e soldati, sarebbe andato il controllo, sul lato di Gaza, del valico di Rafah.

Il Piano di Disimpegno entrò nella fase finale prima dell’estate 2005 tra le proteste di una fetta consistente della popolazione israeliana, che appoggiava il “no” dei coloni e di varie forze politiche al ritiro. Raggiunse il culmine a metà agosto quando esercito e polizia cominciarono ad evacuare con la forza chi si opponeva alle decisioni del governo. Nelle sinagoge di Gush Qatif, a Neve Dekalim, a Kfar Darom e in altre colonie i più coloni giovani, tra canti religiosi di dolore e atti di resistenza passiva, si opposero ai soldati inviati dal governo. Le case e tutti gli altri edifici (ad eccezione di una parte delle serre agricole) non furono lasciati ai palestinesi, come risarcimento per l’occupazione, ma vennero distrutti completamente. Furono evacuati, simbolicamente, anche quattro insediamenti ebraici nel nord della Cisgiordania. Gli evacuati in buona parte finirono a Nitzan, gli altri a Neveh Yam, Sorek, Ashdod, Ashkelon, Shomriah, Benkalim, Atzmona, in Galilea, in vari piccoli centri abitati e, naturalmente, in varie colonie della Cisgiordania.

Ogni famiglia di coloni ha ottenuto o avrebbe dovuto ottenere un risarcimento di almeno 600mila shekel (150mila euro). Non ci sono cifre aggiornate disponibili ma lo Stato di Israele, secondo fonti ufficiose, avrebbe investito sui 10mila coloni evacuati da Gaza circa 12 miliardi di shekel (poco meno di tre miliardi di euro). «Quei soldi a molti non sono bastati per comprarsi una casa, tanti non hanno trovato un lavoro» si lamenta Inbar Dabush, 33 anni. Dieci anni fa, Dabush viveva con i genitori ad Alei Sinai, un insediamento a nord di Gaza, oggi ad Ashdod. Ora gestisce insieme ad altre donne il “Gush Katif Heritage Center” di Nitzan, una sorta di “museo della memoria” che raccoglie oggetti appartenuti alle colonie demolite 10 anni fa. «I militari dicevano che eravamo in guerra ma noi avevamo buone relazioni con gli arabi, molti lavoravano nei nostri campi, nelle nostre serre», afferma Dabush ripetendo uno slogan diffuso tra gli ex coloni su presunti ottimi rapporti con i palestinesi che vivevano intorno agli insediamenti.

«Ottimi rapporti? Ma di cosa parlano, erano i classici rapporti tra il padrone e il servo», replica Aziz Kahlout, un giornalista palestinese. «La nostra vita era un inferno – aggiunge –, segnata dalle restrizioni ai movimenti imposte dall’esercito di occupazione per garantire la sicurezza dei coloni. Certo qualcuno di noi aveva un lavoro (negli insediamenti, ndr) ma un milione e mezzo di palestinesi viveva prigioniero di posti di blocco e barriere. Non dimenticherò mai quando i coloni andarono via. Facemmo festa per giorni, era la fine di un incubo». Un giudizio condiviso da tutti i palestinesi di Gaza che nel 2005 recuperarono ampie porzioni di terra destinandole a coltivazioni intensive, all’università al Aqsa, a campi giochi per i bambini, uffici di associazioni locali ma anche a campi di addestramento per i combattenti di Ezzedin al Qassam (Hamas) e di altre formazioni armate. «Purtroppo se da un lato abbiamo realizzato il sogno di riprenderci la terra e di spostarci liberamente dentro la Striscia, dall’altro non abbiamo realizzato quello di viaggiare, di andare in altri paesi, siamo rimasti prigionieri», ci dice con amarezza Kahlout, descrivendoci la terribile condizione di Gaza sotto blocco israeliano ed egiziano e teatro dopo il 2008 di tre ampie offensive militari di Israele che hanno fatto migliaia di morti e feriti e ridotto in macerie il territorio orientale della Striscia.

A distanza di 10 anni, con una opinione pubblica israeliana sempre più orientata a destra e con al potere un governo apertamente schierato dalla parte dei coloni, l’idea di un “Piano di Disimpegno 2″, ossia un ritiro unilaterale da tutta o gran parte della Cisgiordania palestinese occupata, appare a dir poco irrealistica. Netanyahu è riuscito a superare a destra Sharon, per decenni l’israeliano più odiato dai palestinesi anche per il suo coinvolgimento nel massacro di tremila profughi nei campi di Sabra e Shatila in Libano nel 1982. «Un altro disimpegno non è impossibile ma assai improbabile», dice Gerald Steinberg  un analista israeliano vicino al governo «su questo ipotetico nuovo piano pesa inoltre come un macigno il fallimento, dal punto di vista israeliano, del ritiro da Gaza. Nella migliore delle ipotesi posso immaginare l’evacuazione di qualche piccolo centro (colonia) isolato ma non di tutti i cittadini israeliani (nelle colonie della Cisgiordania, ndr)».

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