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28/07/2015

Usa-Cuba, aver ragione da cinquant’anni

Il 20 luglio riaperte le ambasciate di Cuba e Stati Uniti, sventola la bandiera cubana a Washington. La gioia dell’ambasciatore che gettò la spugna per ultimo. E che dal ’61 ripete: l’embargo è una sciocchezza.

Roberto Zanini, tratto da Il Manifesto del 23 lug 15

Nel 1961, Wayne S. Smith aveva 29 anni, era terzo segre­ta­rio dell’ambasciata ame­ri­cana a Cuba e sotto le fine­stre del suo uffi­cio all’Avana sfi­la­vano i bar­bu­dos scesi dalla Sierra Mae­stra. Poi tutto finì: amba­sciata chiusa, per­so­nale infi­lato in un ferry e rim­pa­triato, l’inizio di una guerra nella guerra che sarebbe durata più di mezzo secolo. Fatta di feroci san­zioni eco­no­mi­che, atti di ter­ro­ri­smo, vio­lenti con­flitti poli­tici e ancor più vio­lente ope­ra­zioni coperte, per recu­pe­rare quello che la dot­trina Mon­roe defi­niva “il cor­tile di casa”.

E per oltre mezzo secolo, Wayne Smith si è occu­pato dell’Avana: da diplo­ma­tico, da acca­de­mico, da intel­let­tuale, in ogni caso da voce osti­nata e con­tra­ria. Lo hanno snob­bato per anni, iso­lato a pre­di­care con­tro l’embargo, costretto a lasciare il dipar­ti­mento di stato, “tanto Cuba cede”, “tanto Fidel Castro non dura”. Il 20 luglio 2015 è stato il giorno della sua rivin­cita: ria­perte le amba­sciate negli Stati Uniti e a Cuba, sven­tola la ban­diera cubana a Washing­ton e i media all’improvviso lo cer­cano e lo citano, da Time alla Cnn, dal Miami Herald ai talk show radio­fo­nici. Fino al mani­fe­sto.

Nel 1961, quando l’ambasciata ame­ri­cana venne chiusa, ave­vate idea che sarebbe durata più di mezzo secolo?

No, asso­lu­ta­mente no, pen­sa­vamo un paio d’anni, mas­simo tre.

Era l’opinione comune o la sua?
Beh, due o tre anni, anch’io la pen­savo così. Credo che nes­suno, ma pro­prio nes­suno, si sarebbe aspet­tato che que­sta cosa durasse più di cinquant’anni.

Le rela­zioni Usa-Cuba sono par­tite dal punto più basso. Ma nel 1977 Jimmy Car­ter fece un ten­ta­tivo, spe­dendo all’Avana pro­prio lei. Che cosa suc­cesse allora?

Car­ter voleva dav­vero miglio­rare le rela­zioni con Cuba, ini­ziare un dia­logo, e aprì una sezione di inte­ressi all’Avana. All’inizio io ero il secondo, nel 1979 diven­tai il capo. Car­ter era cer­ta­mente inte­res­sato al dia­logo, voleva aprire una rela­zione, ma altri nella sua ammi­ni­stra­zione non lo erano per niente.

Chi?

Zbi­gniew Brze­zin­ski, il con­si­gliere della Casa Bianca per la sicu­rezza nazio­nale. Sem­pli­ce­mente non era inte­res­sato al dia­logo con Cuba, e i cubani non ave­vano alcuna inten­zione di sgan­ciarsi dall’Africa, che era una delle con­di­zioni poste (erano in Angola, in Nami­bia, com­bat­te­vano con­tro il Suda­frica raz­zi­sta, ndr). Quel dia­logo non è andato dav­vero da nes­suna parte, poi venne eletto pre­si­dente Ronald Rea­gan, che non aveva la minima inten­zione di miglio­rare le rela­zioni con Cuba, anzi. Da quel momento, per anni e anni, la poli­tica ame­ri­cana fu di cer­care di iso­lare Cuba, non di cer­care il dialogo.

Non ha avuto molto suc­cesso, que­sta poli­tica: a finire iso­lati sono stati gli Usa.

Pro­prio a causa del rifiuto di impe­gnarsi con Cuba io ho lasciato il dipar­ti­mento di stato. Con l’Avana ave­vamo serie dif­fe­renze, natu­ral­mente, ma pen­savo che il dia­logo fosse meglio dell’embargo con­ti­nuato. Così lasciai il ser­vi­zio estero, diven­tai pro­fes­sore, mi unii al Cen­tre for inter­na­tio­nal policy e dal 1982, per anni e anni - quanti! - ho cer­cato di pro­muo­vere una poli­tica più sen­si­bile nei con­fronti di Cuba. Fino al 2014, sotto la pre­si­denza Obama. Obama ha visto i van­taggi nell’impegno con Cuba, nel cer­care il dia­logo, e alla fine abbiamo mosso un passo, gra­zie agli dei.

Molto alla fine, è il caso di dire.

Adesso abbiamo legami diplo­ma­tici, l’inizio di un rap­porto. Mi lasci dire che c’è ancora tan­tis­simo da fare: l’embargo è ancora in piedi e può essere rimosso solo dal con­gresso, cosa che pren­derà molto tempo, e non solo, abbiamo ancora la base navale di Guan­ta­namo, abbiamo il con­flitto per le compensazioni…

Le com­pen­sa­zioni, cioè le riven­di­ca­zioni di chi venne espro­priato dalla rivo­lu­zione, e i danni pro­vo­cati dall’embargo: sulla carta sono decine di miliardi di dol­lari, sono un osta­colo serio?

Le riven­di­ca­zioni sono lì da anni e sono un tema com­pli­ca­tis­simo, voglio dire che abbiamo ogni sorta di pro­blemi ma almeno abbiamo comin­ciato a par­larne, ad affron­tare gli argo­menti. Ed è un un grande passo avanti.

In que­sti giorni lei è citato da Time, Cnn, Miami Herald e un’altra sfilza di media: com’è la rivin­cita dopo cinquant’anni?

Lo devo pro­prio dire: fa molto, molto pia­cere. Dopo tutti que­sti anni e que­sti pre­si­denti, alla fine stiamo facendo ciò che pre­di­cavo di fare da mezzo secolo.

Per i pre­si­denti repub­bli­cani si capi­sce, ma Bill Clin­ton? Per­ché un lea­der demo­cra­tico non ha fatto nulla su que­sto argomento?

Per­ché Cuba era un’isoletta e noi una grande potenza, alla fine si sarebbe arresa e avrebbe fatto quel che vole­vamo noi. E hanno atteso, atteso e atteso... ma Cuba non cedeva, e tutti sta­bi­li­vano rela­zioni tranne noi. La ragione prin­ci­pale dell’impegno al dia­logo di Obama è che Cuba era diven­tata un’enorme fonte di imba­razzo. Quelli iso­lati era­vamo noi: nel 2014 ogni paese in Ame­rica ormai aveva rela­zioni com­mer­ciali con Cuba, noi era­vamo il solo paese a non averne. Qual­siasi sum­mit sarebbe stato tal­mente imba­raz­zante che Obama ha detto ok, via al dia­logo. Gra­zie agli dei.

All’inizio, dopo l’anatema ame­ri­cano, solo il Mes­sico aveva man­te­nuto legami con L’Avana.

Il Mes­sico l’abbiamo indi­cato noi. Ave­vamo biso­gno di un paese che avesse una linea di comu­ni­ca­zione con Cuba e ci siamo appog­giati al Mes­sico, per anni e anni.

Cosa pensa di Raul Castro? Obama è Obama, ma Raul? Gri­gio buro­cra­te, “fra­tello di” o vero uomo di stato?

Raul Castro è più prag­ma­tico del fra­tello, un pre­si­dente più pra­tico. Ma nel 2018 i Castro dovrebbero lasciare il potere, almeno è quel che hanno detto.

Qual­che spe­ranza di vedere l’embargo rimosso entro quella data?

Non credo, serve tempo. E il con­gresso è con­trol­lato dai repubblicani.

Cuba diventa una que­stione di poli­tica interna?

E’ così.

La comu­nità cubana di Miami? Un tempo era poten­tis­sima, e molto disin­volta nell’uso del potere, del denaro, per­sino del ter­rore. Quanto conta oggi?

I son­daggi indi­cano che oggi la mag­gio­ranza dei cubano-americani di Miami è a favore dell’impegno con Cuba. Qual­che anno fa era il con­tra­rio, ma oggi è così. E molti cubani ame­ri­cani hanno comin­ciato a viag­giare a Cuba, che è un’ottima cosa.

Gli Stati Uniti gio­cano dav­vero pulito, o c’è il rischio di qual­che colpo di coda sul sen­tiero della nor­ma­liz­za­zione dei rap­porti? I pro­blemi di poli­tica interna pos­sono supe­rare il tema dell’equilibrio internazionale?

Cer­ta­mente c’è un dato: è dif­fi­cile per il pre­si­dente muo­versi in avanti e miglio­rare le rela­zioni con Cuba, il con­gresso è da con­si­de­rare e molti depu­tati sono tutt’altro che entu­sia­sti dell’argomento. Ma il primo grande passo è stato fatto.

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