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29/06/2015

Un no per la libertà

Un anno fa, nel giugno del 2014, organizzavamo la prima e ancora unica manifestazione “di sinistra” contro l’Unione europea in Italia. Una manifestazione che non fu un successo numerico, in questo sfavorita sia dalla data (un sabato di fine giugno), sia dal contesto (l’assenza ormai cronica di manifestazioni di massa in questo paese), sia – soprattutto – dall’incomprensione di fondo che suscitava la lotta alla Ue. Il deposito ideologico sedimentato dal sistema mediatico e culturale mainstream sovrappone ancora oggi, sembra incredibile a dirsi vista la degenerazione della questione europeista, il concetto di Europa con quello di Unione europea. Lottare contro una determinata costruzione economico-politico-ideologica, la Ue, equivale, per il sistema politico-mediatico e nella forma mentis dell’approccio alla questione, a lottare contro l’Europa, cioè contro il contesto geografico di riferimento. Una evidente assurdità, che però l’assenza di ragionamento ha portato alla tautologia deformante. Non c’è Europa senza Unione europea. Fuori dalla Ue ci sarebbe solo Isis e “putinismo”, il ritorno allo stato di natura e ovviamente il fallimento economico. Andateglielo a spiegare agli svizzeri, o ai serbi, gli albanesi, i norvegesi, i croati, eccetera. Ovviamente, il primo passo verso l’homo homini lupus sarebbe l’uscita dall’euro, catastrofe geologica paragonabile all’estinzione dei dinosauri. In effetti non possiamo dire che inglesi e polacchi, danesi e norvegesi, cechi, islandesi, ungheresi o romeni, albanesi e svizzeri, se la stiano passando alla grande, ma insomma, non sembrano messi così male, eppure non hanno l’euro. Per riferire di un esempio immediato e forse banale, ma che rende bene l’idea, quando l’Italia entrò nell’euro aveva un Pil nominale più grande di quello della Gran Bretagna. Nel 2006, l’anno prima dello “scoppio della grande crisi”, la divaricazione a favore degli inglesi era già ampia. Dal 2008 il divario ha continuato a crescere. E la Gran Bretagna non ha l’euro.

Oggi anche i più indefessi sostenitori della riformabilità delle politiche economiche neoliberiste europeiste dovrebbero prenderne atto. La vicenda di Syriza e la scelta del referendum del 5 luglio costituisce il più grande sbugiardamento politico da molti anni a questa parte. Uno sbugiardamento che riguarda in primo luogo Syriza, smentita in una volontà riformatrice che si è scontrata con il peso dei rapporti materiali che governano la Ue. Ci ha provato, ha fallito. Il referendum è il simbolo di questo fallimento, l’escamotage con cui Tsipras prova a non prendersi l’onere dell’errore, della tragica perdita di tempo. Un referendum che dice platealmente: abbiamo sbagliato, questa Ue non è riformabile, ci abbiamo provato ma non ci siamo riusciti. Un referendum come arma di deresponsabilizzazione del ruolo politico del partito Syriza. Una dinamica identica a quella promossa da Papandreu nel 2011: di fronte al ricatto delle istituzioni Ue, e preso atto dell’incapacità politica di assumersi il peso di una decisione (accettare o rifiutare il programma neoliberista), chi ha il dovere di dirigere una scelta politica ammette implicitamente la sua incapacità delegando alle urne una scelta che non si vuole compiere, in un senso o nell’altro. L’indizione del referendum non è una scelta rivoluzionaria: l’aveva fatto quattro anni fa il Pasok, e sempre di fronte all’ignavia della scelta.

Ma questo referendum è lo sbugiardamento più plateale per tutti i Syriza d’Europa, difensori indefessi della riformabilità della Ue, convinti del progressismo implicito della costruzione europeista, oggi in mano al neoliberismo cattivo ma domani potenzialmente conquistabile tramite democratiche elezioni. Confondendo Europa e Ue, non si sono accorti che la Ue è un governo, non uno Stato. Non si governa la Ue, ma questa è direttamente una forma di governo, è un progetto politico, non è una costruzione neutra da conquistare, da scalare, da orientare. Tsipras se ne è accorto suo malgrado, ma per coerenza tutti i guardiani dell’europeismo ad oltranza dovrebbero attivarsi per votare si al referendum, accettare gli accordi auspicando una permanenza della Grecia nell’Unione. Perché l’invito al no è l’invito alla fuoriuscita, al grexit, e questo, ci spiegavano solerti, è intelligenza col nemico sovranista, è machiavellismo rossobruno, geopoliticismo criptoputiniano, paralepenismo inconsapevole, bismarkismo anti-popolare.

Ecco, nonostante tutto questo, il referendum è potenzialmente un momento decisivo. Potenzialmente per varie ragioni. La prima: dovrà tenersi. Proprio l’esperienza di quattro anni fa ci dice di quali strumenti ricattatori è capace la famigerata Troika. Seconda ragione: non è affatto scontato che vincano i no. Il terrorismo politico-mediatico, le quinte colonne europeiste dentro e fuori il parlamento greco, hanno già avviato la macchina demolitrice. Se l’alternativa alla Ue è la somalizzazione del paese (secondo la narrazione dominante), non c’è materialità delle condizioni economiche che tenga, e lo spettro del “menopeggio” è sempre in agguato. Meglio morire di fame che la guerra civile, potrebbe pensare parte dell’elettorato greco. Staremo a vedere. Certo oggi è il momento di far sentire forte la solidarietà europea al popolo greco, alla sua lotta contro lo stritolamento capitalista europeista. La crisi ha questo di significativo: riduce le narrazioni ideologiche alla durezza dei rapporti materiali, in cui ci si schiera, in cui saltano le posizioni intermedie, i distinguo intellettualistici, i né con questo né con quell’altro, le ambiguità filosofiche gattopardesche: il momento in cui lo scontro tra capitale e lavoro assume la sua forma più diretta e traumatica. Ecco perché oggi bisogna difendere quel referendum. Non scambiando uno strumento per la soluzione del problema. Una ipotetica vittoria dei si non renderà le condizioni dell’Fmi meno pesanti e il ricatto neoliberista meno dannoso. Ma è una partita che va giocata, perché il popolo greco ha dato in questi anni dimostrazione di disponibilità alla lotta e alla sofferenza come pochi altri popoli nel mondo. Questo referendum non è stato concesso da Tsipras: è stato conquistato dal popolo. E’ per tali ragioni, oggi questo popolo merita la nostra fiducia. La fiducia in un popolo che sa dire no.

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