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22/06/2015

L'Unione Europea medita di riformarsi. In peggio

L'Unione Europea è irriformabile, abbiamo capito. Siccome lo hanno capito tutti, e tutti hanno anche capito che le regole che si è data realizzano il contrario di quel che promettono ("più benessere e sviluppo per tutti"), ecco che prendono corpo le prime idee di autoriforma.

Il problema è che la logica seguita - o meglio: gli interessi difesi - sono sempre gli stessi. Quindi riformare si può, ma peggiorando la situazione istituzionale.

La prima bozza di ridisegno ha preso forma per mano dei presidenti delle cinque principali istituzioni comunitarie (Jean-Claude Juncker per la Commissione, Mario Draghi per la Bce, Jeroen Dijsselbloem dell'Eurogruppo, Donald Tusk per il Consiglio europeo e Martin Schulz, presidente del Parlamento). 

I tempi del nuovo percorso sono intanto abbastanza lunghi, o lenti, spezzettati in tre fasi al termine delle quali ci dovrebbe essere una "maggiore integrazione" ma non una struttura federale (con relativa condivisione totale dei rischi e dei buchi di bilancio, per capirci). E già questo spiega bene le difficoltà di compensare interessi economici molto diversificati, visto che il "rapporto dei cinque" ha preso le mosse dalla necessità di adeguare la struttura istituzionale e i trattati europei in modo da prevenire/risolvere gli "shock esterni" o crisi come quella greca.

Il concetto centrale del rapporto è infatti la "competitività" dell'Unione Europea sui mercati globali; lo sforzo è quella di "aumentarla", naturalmente mettendo sotto controllo le poche variabili che la "politica" può controllare in una situazione di mercati (e prezzi) internazionalizzati.

E infatti, nella "prima fase", da qui a metà 2017, l'accento viene posto - oltre che sul rafforzamento della competitività" - sul "completamento dell'unione finanziaria" (mettendo sotto controllo le finanze pubbliche di tutti gli stati membri) e il "risanamento dei conti pubblici nazionali". La traduzione in diktat è facilmente immaginabile: tagli alla spesa pubblica, concentrati su welfare, sanità, pensioni, istruzione. Non sulle spese militari, che anzi andranno aumentate per accrescere la "competitività" della Ue sullo scenario globale (primo obiettivo, evocato in modo obliquo, intervenire nei focolai di crisi del Nord Africa e del Medio Oriente).

«Un meccanismo comune di assorbimento degli shock» dovrebbe veder luce solo nella "seconda fase", mediante il rafforzamento degli "strumenti di convergenza". La base su cui agire verrà definita però nel prossimo "libro bianco" della Commissione, che avrà tempo fino a metà 2017 per stenderlo.

Una «genuina unione monetaria» è invece l'obiettivo dichiarato della terza fase, con strumenti ancora tutti da definire.

Sappiamo che nei documenti della Ue, oltre alla tempistica, si va per "obiettivi". E quello relativo alla "competitività" è chiarissimo: si propone la nascita di apposite "autorità nazionali" con il compito di "indirizzare le parti sociali quando si tratta di negoziare accordi salariali". Provate ad immaginare la situazione. Sindacati e Confindustria (o lo Stato davanti all'Aran per il pubblico impiego) si incontrano per discutere di rinnovi contrattuali, comprensivi di aumenti salariali. Magari c'è stata una mobilitazione, qualche sciopero ben riuscito, sono sperabilmente emersi o si sono rafforzati sindacati più conflittuali di quelli "complici". Bene, in una situazione in cui alcuni aumenti salariali potrebbe venir strappati, ecco intervenire l'Authority per la competitività" con il suo ditino alzato a segnalare: "eh no, signori, questi aumenti non s'hanno da dare, semmai bisognerebbe diminuire i salari per accrescere il potenziale competitivo...".

Una sorta di Fiscal Compact, o di "pareggio di bilancio", interamente dedicato alla compressione dei salari futuri, per sempre, sorvegliata da una istituzione apposita, di diritto sovranazionale e quindi prevalente rispetto ad ogni "accordo solo nazionale".

Non male neanche la modifica della gestione rispetto agli obiettivi di bilancio. Viene proposta, infatti, la creazione di un "Consiglio europeo di consulenza" che prende il controllo delle diverse authority nazionali (naturalmente per "migliorarne la collaborazione" nel raggiungimento degli obiettivi). La cornice è quella di «una comune funzione di stabilizzazione macroeconomica», in vista della creazione di un'altra autorità sovranzionale: un Fondo europeo per gli investimenti strategici (EFSI), che dovrebbe perciò coprire uno dei più evidenti buchi della costruzione europea,ovvero l'assenza di strumenti di politica economica "continentale". Chiaramente, ci sarò battaglia su quali siano gli "investimenti strategici" da effettuare, con ovvia prevalenza dei più forti sui più deboli...

L'altro punto debole dell'attuale sistema istituzionale europeo riguarda l'evidente "difetto di legittimità" delle istituzioni che decidono sulla vita di alcune centinaia di milioni di cittadini europei. Nessuno di questi organismo è infatti eletto; sono tutti "nominati", quando non direttamente cooptati. Ma su questo non ci sono indicazioni precise.

Resta la "dimensione sociale" della Ue, fin qui altrettanto negativa e percepita come tale. La soluzione proposta dovrebbe passare attraverso una sorto di «Tesoro della zona euro». Formula poco chiara, secondi cui «I paesi membri della zona euro continueranno a decidere a livello nazionale scelte relative alla tassazione e alla spesa pubblica. Ciò detto, alcune decisioni dovranno essere prese sempre più spesso in modo collettivo, pur assicurando una loro legittimità democratica». Chi la possa "assicurare", e in quale modo, non è detto perché è difficile persino immaginarselo. Quale "legittimità democratica" è pensabile in organismi che non possono essere sottoposti al giudizio dei cittadini?

Inutile dire che questo programma lento e singhiozzante ha un solo vero nemico: il lavoro, i salari, il welfare. Come sempre. Ma è anche molto debole dal punto di vista degli "integrazionisti" più duri. Insomma: un mezzo pasticcio che non può risolvere alcun problema in modo serio.

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