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28/05/2015

Mar Cinese, Washington sfida Pechino

di Michele Paris

Le attività della Cina in un’area contesa del Mar Cinese Meridionale continuano a incoraggiare aperte provocazioni da parte degli Stati Uniti, con il risultato di far salire pericolosamente le tensioni tra le prime due potenze economiche del pianeta. A Washington è in corso infatti un’incessante campagna di denunce nei confronti del regime di Pechino, accusato di voler mettere a rischio la stabilità dell’Asia sud-orientale a fronte dei presunti sforzi americani per mantenere intatta la libertà di navigazione e favorire una risoluzione pacifica dei conflitti territoriali.

Tutte le azioni intraprese dall’amministrazione Obama rispondono in realtà a una logica provocatoria nei confronti della Cina, le cui iniziative in un’area strategicamente cruciale per i propri interessi vengono sfruttate per accelerare i piani di militarizzazione e accerchiamento del gigante asiatico nell’ambito del confronto in atto per l’egemonia sull’intero continente.

Da qualche settimana, la Cina sta costruendo una serie di isole artificiali nei pressi dell’arcipelago delle Spratly che il suo governo controlla pur essendo rivendicato da vari paesi, tra cui le Filippine e il Vietnam. Sui nuovi terreni strappati alle acque, Pechino sta realizzando opere civili e militari che hanno provocato non solo la condanna degli USA e dei loro alleati ma anche azioni eclatanti che rischiano di creare episodi in grado di innescare un conflitto di ampia portata.

Settimana scorsa, ad esempio, il Pentagono aveva inviato un aereo militare da ricognizione non lontano da un atollo delle Spratly, dove erano in corso lavori da parte cinese. Anche se il velivolo non era entrato nelle acque territoriali della Cina, l’azione aveva un chiaro intento provocatorio e così è stato interpretato da Pechino.

Le forze armate cinesi avevano ripetutamente ordinato all’aereo americano di lasciare l’area e, successivamente, un portavoce del ministero degli Esteri ha avuto parole molto dure nei confronti del governo USA, bollando l’iniziativa come “pericolosa e irresponsabile”.

L’amministrazione Obama, tuttavia, tramite il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva fatto sapere di essere sul punto di andare oltre, annunciando come sia già allo studio il possibile stazionamento di navi da guerra nelle vicinanze delle Spratly, con un aumento sensibile delle possibilità di una risposta concreta da parte cinese.

Lunedì, in ogni caso, Pechino ha presentato una protesta formale nei confronti degli USA per avere inviato un aereo da ricognizione nel Mar Cinese Meridionale, ma il malcontento espresso dal regime non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco del dibattito negli ambienti di potere e sui giornali ufficiali negli Stati Uniti.

A ciò ha contribuito poi anche la notizia, diffusa martedì, che la Cina starebbe costruendo sulle Spratly altri edifici a uso civile, come ad esempio due fari, ufficialmente per favorire future operazioni di salvataggio in mare.

Ogni annuncio o rivelazione di una nuova iniziativa cinese nelle isole contese serve in definitiva agli Stati Uniti per alimentare la propria campagna di propaganda, finalizzata a dipingere Pechino come una minaccia senza precedenti alla stabilità dei paesi dell’Asia sud-orientale e delle importanti rotte commerciali che vi transitano.

La Cina, da parte sua, continua a rispondere in maniera ferma alle denunce americane. Un portavoce delle forze armate di Pechino ha ad esempio puntato il dito contro “potenze straniere” che cercano di “infangare la reputazione dei militari cinesi e di creare un’atmosfera fatta di tensioni spropositate”.

Altri esponenti del governo hanno inoltre ricordato come le provocazioni USA possano “causare equivoci e incidenti problematici in mare e nello spazio aereo”. Ancora più esplicito è stato infine un recente editoriale della testata governativa Global Times, secondo la quale “se l’obiettivo degli Stati Uniti è convincere la Cina a fermare le proprie attività” nelle isole Spratly, “allora una guerra tra USA e Cina nel Mar Cinese Meridionale appare inevitabile”.

In risposta al clima creatosi alle proprie frontiere, il governo cinese questa settimana ha presentato un nuovo “Libro Bianco” relativo alle strategie di difesa nazionale. Significativamente, con un chiaro riferimento agli Stati Uniti, il documento mette in guardia dalle minacce rappresentate dalle politiche egemoniche e “neo-interventiste”, in parallelo con l’intensificarsi della “competizione internazionale per la redistribuzione del potere, dei diritti e degli interessi”.

I pericoli principali per Pechino sono identificati nell’escalation militare e diplomatica americana nel continente asiatico e nel nuovo impulso al militarismo giapponese registrato con l’ascesa al potere a Tokyo del primo ministro ultra-conservatore, Shinzo Abe.

La sezione del “Libro Bianco” più discussa dai media e commentatori americani è stata quella riguardante le strategie di difesa navale, soprattutto alla luce dell’impegno cinese di aumentare le “protezioni in mare aperto” e di passare dalle predisposizioni per la sola “difesa” aerea a quelle per “difesa e attacco”.

Questi nuovi obiettivi, come evidenzia lo stesso documento diffuso dal governo - o Consiglio di Stato - cinese, sono in gran parte la conseguenza delle tensioni crescenti nel Mar Cinese Meridionale, provocate dalle iniziative di paesi vicini - a cominciare dalle Filippine - su istigazione americana. Per fronteggiare efficacemente le sfide attuali, dunque, sarebbe “necessario per la Cina sviluppare una moderna forza militare marittima commisurata ai propri interessi di sicurezza nazionale e di sviluppo”.

In Occidente e nei paesi alleati di Washington, il documento strategico cinese ha sollevato un coro di commenti allarmati, poiché esso indicherebbe la chiara volontà da parte di Pechino di ricorrere a politiche egemoniche a discapito dell’indipendenza e della sicurezza dei propri vicini e, soprattutto, degli interessi degli Stati Uniti.

A ben vedere, però, l’atteggiamento cinese non è che un riflesso di quello tenuto in questi anni dagli USA, nel tentativo di impedire un accerchiamento che, in caso di conflitto, comporterebbe un blocco rovinoso delle rotte commerciali marittime vitali per Pechino. La Cina, d’altra parte, dipende ancora in larga misura da queste vie d’acqua contese ed esposte alla minaccia statunitense per gli approvvigionamenti di energia e materie prime, nonché per le proprie esportazioni.

La strategia americana è invece precisamente quella di esercitare pressioni crescenti sulla Cina, così da provocare risposte sempre più aggressive e disporre della giustificazione per proseguire con i propri piani militari e diplomatici in Asia sud-orientale, anche a rischio di far precipitare la situazione in uno scenario di guerra aperta tra potenze nucleari.

Per il momento, il conflitto tra Washington e Pechino dovrebbe continuare a svolgersi sul piano retorico. Il prossimo teatro dei rimproveri americani alla Cina sarà con ogni probabilità l’appuntamento di venerdì a Singapore, dove andrà in scena l’annuale conferenza sulla sicurezza in Asia (“Dialogo Shangri-La”), a cui parteciperanno, tra gli altri, il numero uno del Pentagono e una delegazione di alti ufficiali delle forze armate di Pechino.

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