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29/04/2015

Crisi: le origini del disastro

La crisi, come si sa, ha avuto origini finanziarie, ma questo non spiega tutto. Ci sono ragioni molto più profonde che si riferiscono all’evoluzione dell’economia reale. Dalla fine degli anni settanta, si è manifestata a livello mondiale una tendenza al calo dell’occupazione manifatturiera, nonostante un forte incremento assoluto di produzione industriale; e questo è in larga parte spiegabile con il “salto” tecnologico prodotto dalla combinazione fra robot ed informatica, che ha ridotto la domanda di forza lavoro.

Ma questo calo non è avvenuto omogeneamente: mentre nei paesi in via di sviluppo (prima Corea del Sud, Thailandia, Singapore, Taiwan, poi Cina, India e, via via, Vietnam, Messico, Egitto, Turchia, Indonesia, Argentina) la componente di occupazione industriale è fortemente aumentata, nei paesi avanzati (Usa, Europa, Giappone) essa è crollata, ed è quasi scomparsa nei paesi dell’ex blocco sovietico (salvo Polonia, Germania Orientale e Boemia, nei quali si è registrata una recente ripresa).

Questo andamento è stato determinato in larga parte da un sostenuto processo di deindustrializzazione dei paesi avanzati, nei quali sono stati fortemente ridimensionati settori quali la siderurgia, i materiali da costruzione, la chimica base, il tessile e, parzialmente, l’alimentare.

Un altro fenomeno che ha agito in questo senso è stato della cd “fabbrica globale”, per cui in alcuni settori (soprattutto trasporti e meccanica in generale, ma anche informatica e prodotti per telecomunicazione) i singoli componenti sono prodotti in diversi paesi emergenti, per essere poi assemblati negli stabilimenti della ditta che firma il prodotto. Di fatto, in Occidente hanno resistito solo pochi settori (come la chimica fine, l’ottica o la farmaceutica) ed hanno conosciuto un incremento (sia in termini di occupati che di fatturato) le sole industrie delle armi, del settore satellitare e del lusso.

Questo processo è stato determinato dal massiccio trasferimento di capitali ed impianti in paesi dell’Asia e dell’America Latina e dal parallelo processo di smobilitazione industriale nei paesi avanzati.

Tutto ciò è stato il frutto di diversi fattori come il rigetto delle popolazioni locali nei confronti delle lavorazioni altamente inquinanti, ma soprattutto dall’esigenza da parte imprenditoriale di abbattere i salari. Le delocalizzazioni sono state la principale arma imprenditoriale nella rivincita contro i lavoratori. Un’operazione brillantemente riuscita – grazie alla collaborazione dei governi di Usa, Europa e Giappone, indifferentemente dal loro colore politico nel tempo e da paese a paese – e, mentre i tassi di disoccupazione sono saliti mediamente del 4-5%, i salari reali sono calati, è cresciuta una massiccia fascia di precariato e dovunque è peggiorata la parte normativa del rapporto di lavoro.

Questo trasferimento della produzione verso i paesi del sud del Mondo è stato permesso dal costo inferiore della forza lavoro, spesso priva dei più elementari diritti sindacali, ma anche da un concorso di altri fattori quali la disponibilità di terreni a costo zero per gli stabilimenti, la debole  pressione fiscale dovuta all’assenza di un sistema previdenziale e sanitario, l’assenza di qualsivoglia normativa di tutela ambientale ma, soprattutto, dai prezzi bassissimi dei trasporti e dal particolare sistema dei cambi monetari. Il periodo che va dal 1982 al 2006 è stato quello di un autentico “bengodi petrolifero” durante il quale il prezzo del barile (inferiore ai 40 dollari) ha consentito uno sviluppo senza precedenti dei trasporti, soprattutto marittimi, quel che ha permesso ai prodotti di arrivare sui mercati a prezzi ancora largamente concorrenziali, dopo aver percorso migliaia di miglia marine. E infatti sono stati gli anni in cui il prezzo dei noli marittimi (registrato dall’indice Baltic Dry) hanno conosciuto una stagione di fortuna irripetibile.

In secondo luogo i cambi: l’introduzione della fiat money e la conseguente demetallizzazione del sistema monetario, ha avuto riflessi imprevisti in particolare nei confronti della Cina, la cui moneta non è convertibile (in realtà lo è ma solo attraverso la Boc che, ovviamente, applica i criteri che ritiene più opportuni per sostenere le esportazioni). Il risultato è il “grande disordine monetario” di valute sganciate da qualsiasi parametro oggettivo, alcune in reciproco apprezzamento che fluttua di giorno in giorno, altre governate politicamente, altre ancora rette artificialmente dal gioco dei regimi fiscali, ecc.

Di fatto, questo ha reso molto più facili le esportazioni dei paesi emergenti, che operano proprio sui margini offerti dal cambio. Facciamo un esempio molto semplice: l’aglio che consumiamo è in gran parte prodotto in Cina. Si consideri il costo del trasferimento del prodotto da uno dei porti cinesi a un qualsiasi porto italiano e si consideri quanto sia limitato l’utile commerciale del prodotto in sé, dato il suo costo al dettaglio. E’ evidente che a renderlo competitivo rispetto al prodotto locale (che costa immensamente meno per il trasporto) non può essere solo la differenza del costo del lavoro ma che la componente decisiva è proprio quella del regime alterato dei cambi monetari.

Le delocalizzazioni  si sono rivelate il suicidio dell’Occidente. Come si è detto, la scelta di deindustrializzare i paesi sviluppati fu orientata in primo luogo a colpire i livelli salariali raggiunti ed a smantellare l’organizzazione operaia che aveva il suo punto di concentrazione nelle grandi industrie. Le nostre economie da industriali sono diventate economie basate sui servizi e sull’intermediazione finanziaria.

Questa ipotesi – che in un primo tempo ha funzionato – si è rivelata fallimentare sul medio periodo e non solo per il disastro finanziario, ma anche per quello della bilancia dei pagamenti, intaccata sia dal deflusso di capitali che dal costante passivo della bilancia commerciale. Come dice Emiliano Brancaccio:
La bilancia commerciale rappresenta il principale indicatore della forza competitiva del sistema produttivo nazionale. Il surplus commerciale segnala che il Paese non avrà bisogno di deprezzare la propria moneta per reggere la concorrenza, il che rassicura i creditori circa il valore futuro atteso dei titoli emessi...
(per cui), anziché imporre un controproducente pareggio di bilancio pubblico, bisognerebbe orientare le politiche economiche di tutti i Paesi dell’eurozona al perseguimento tendenziale di un altro pareggio: quello delle bilance commerciali. L’Italia, ad esempio, con un disavanzo verso l’estero superiore al quattro per cento del Pil, dovrebbe realizzare interventi strutturali realmente in grado di rilanciare una produttività del lavoro da tempo stagnante...
Da oltre venti anni la bilancia commerciale dei paesi sviluppati (con l’eccezione, peraltro non costante, di Germania e Giappone) è sostanzialmente in rosso e questo per due ottime ragioni: perché lo sviluppo dei servizi non compensa da solo la flessione occupazionale dell’industria e perché la concorrenza dei paesi emergenti (la cui crescita fu troppo sottovalutata all’inizio del processo di globalizzazione) si è fatta sentire anche in quel campo. Due parole di spiegazione: in primo luogo, mentre quasi tutte le merci sono esportabili, non tutti i servizi lo sono, per cui, se posso “esportare” i viaggi aerei con rotte internazionali, non posso esportare il servizio tramviario, allo stesso modo in cui, se posso fornire all’estero servizi di consulenza di vario genere, non posso esportare il servizio dell’anagrafe o quello di chirurgia d'urgenza. Una parte significativa dei servizi è destinata per sua natura al consumo interno e non può essere diversamente.

Per cui è evidente che la bilancia commerciale, attraverso l’esportazione dei servizi, recupera solo una parte di quello che ha perso sul piano della manifattura.

In secondo luogo, le previsioni sulla capacità di sviluppo dei paesi emergenti sono state molto al di sotto della realtà: la Cia, nel 2002 elaborò una ipotesi di scenario per il 2020 nel quale ipotizzava che la Cina avrebbe raggiunto certi traguardi non prima del 2025, ma essi risultarono poi raggiunti già nel 2008. Nel caso dei servizi la grande sorpresa è venuta dall’India: già da tempo New Dheli è definita il “call center del mondo” per i servizi di consulenza più diversi, oggi inizia ad affacciarsi l’ipotesi di trasferire la diagnostica a medici indiani on line sulla base dei risultati delle analisi cliniche, inoltre le università indiane stanno scalando i primi posti per quanto riguarda le facoltà di matematica, le società indiane offrono servizi di calcolo sempre più sofisticati, le compagnie aeree (Air India, Air Deccan) iniziano a far sentire la loro concorrenza anche sulle rotte internazionali.

Dunque chi pensava che gli “arretrati asiatici” ci avrebbero messo decenni per rivaleggiare anche sui servizi, oggi deve prendere atto che anche qui le cose sono andate molto diversamente.

Per dirla in due parole: le economie avanzate sono state svuotate, perché la manifattura è emigrata in Asia e i profitti finanziari sono emigrati a Riccolandia. E questa è la base della nostra crisi irrisolta.

Fonte

Capitalismo...

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