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30/03/2015

La piazza statica

Che la manifestazione cittadina del 28 febbraio sia riuscita a portare in piazza più gente dell’apparato nazionale Fiom guidato dal lìder maximo Landini la dice lunga sulle potenzialità che avrebbe potuto generare quel metodo sommato a quelle istanze politiche, ennesima occasione sprecata da un movimento incapace di uscire da un certo minoritarismo autocompiacente. Eppure un confronto oggi tra le due piazze appare necessario, per comprenderne i limiti vicendevoli. Nonostante l’evidente sovraesposizione mediatica, la piazza di Landini non è riuscita ad aggregare altro che i “soliti noti”: pensionati, lavoratori a tempo indeterminato, operai Fiom presenti nelle grandi fabbriche, pubblico impiego, ceto medio riflessivo; una piazza al tempo stesso necessaria e statica, “passata” ma ancora decisiva. Una piazza socialmente diversa da un 28 febbraio in cui è stato evidente il protagonismo di una “trasversalità” di classe capace di organizzare tutte le varie forme sociali subalterne al capitalismo neoliberista. La dinamica che però va evitata è la contrapposizione tra la piazza “operaia” e quella “precaria”, non solo perché sarebbe fuorviante e sostanzialmente falsa, ma perché oggi c’è l’assoluta necessità della sintesi tra le due piazze, non della contrapposizione. E’ fuor di dubbio che la piazza di Landini rappresenta un’insieme di soggettività sociali tendenzialmente declinanti e legate ad una forma produttiva-lavorativa precedente all’attuale sistema di rapporti economici ma, è questo il punto, quell’insieme sociale è ancora quantitativamente determinante per ogni sinistra che punti a un discorso sul potere. Non è solo una questione numerica, ma di rilevanza politica. Se l’obiettivo di una sinistra conflittuale vuole essere quello della ricomposizione politica di un pezzo di mondo del lavoro, se dunque l’obiettivo è l’esercizio di un’egemonia politica capace di trainare in avanti le ragioni del mondo dipendente salariato (sia esso precario o presuntamente garantito), questa non è possibile attuarla senza un rapporto politico e sociale con i soggetti presenti nella piazza di Landini.

Allo stesso tempo è evidente la diversa “qualità” sociale della piazza del 28 febbraio romano. Le ragioni di quella piazza erano espressione di un insieme di soggetti sociali oggi completamente relegati alla marginalità politica ma affatto centrali nella riproduzione del capitale: quella era la piazza del precariato senza diritti sociali e politici su cui oggi il capitale fonda la propria competitività economica, l’insieme di soggetti capaci di reggere (sempre meno) la produttività internazionale, un magma sociale accomunato dall’essere il soggetto produttivo chiave dello sviluppo neoliberista europeista. La piazza di Landini descrive una fotografia sociale, quella del 28 una tendenza economica. Il fatto è che queste due piazze non possono marciare divise. L’una è capace di orientare una certa opinione pubblica di classe, l’altra è relegata all’irrappresentabilità politica. La prima risulta ancora necessaria a porre un problema di e per il potere politico, mentre la seconda ha come controparte solo l’amministrazione repressiva dell’ordine pubblico. La prima esprime ancora una questione politica, la seconda ancora non è in grado di rappresentare una novità credibile. Per tali ragioni, e per molte altre, la piazza di Landini non va banalizzata.

Detto questo, è bene chiarire che il progetto politico attorno a cui è stata chiamata quella piazza è irricevibile, e difficilmente può instaurarsi un dialogo proficuo tra le ragioni di Landini e quelle delle nuove forme di precariato escluso e politicamente marginale. Due sono gli ordini di problemi per cui il riformismo socialdemocratico di Landini non può trovare oggi ascolto. Un problema di merito e uno di metodo. Nel merito, come abbiamo espresso varie volte, in fase di recessione economica non è possibile immaginare alcuna redistribuzione del reddito che non sia conquistata attraverso cruente lotte di classe. Pensare che il ceto politico acconsenti elargizioni pubbliche in tempi di pareggio di bilancio, solo per qualche saltuaria prova di forza numerica, significa fraintendere completamente la fase politico-economica in cui siamo immersi, una fase in cui è venuto meno qualsiasi rapporto di forza. Nel metodo, non può avvenire alcun passo in avanti riciclando dirigenze politiche espressione di tempi passati. Se c’è una costante storica della lotta politica delle classi subalterne, questa è che il nuovo subentra sempre attraverso il ricambio dei ceti politici precedenti, che una nuova classe politica dovrà formarsi nelle contraddizioni attuali, non reiterare gli schemi di precedenti stagioni delle lotte di classe. Non saranno dirigenti formati in un mondo che non c’è più a organizzare le lotte del mondo attuale, per tutta una serie di ragioni che sarebbe lungo elencare. Se questo è vero per ceti politici vincenti, lo è ancor di più per una serie di dirigenze provenienti da una sequela di sconfitte politiche inenarrabili, incapaci di suscitare qualsiasi possibile simpatia.

Landini può essere un leader importante in un altro contesto, inserito in un altro paradigma, non se rappresenta solo l’espressione mediatica migliore di un ceto pluri-trombato, da Sel a Rifondazione, dalla sinistra Cgil alla “sinistra” PD. Solo attraverso la morte del padre potranno nascere figli legittimi di un nuovo ciclo di lotte di classe. Una certa sinistra ufficiale persiste nel suo errore, mentre un’eterna “nuova sinistra” persevera nel suo avanguardismo. E come la sinistra riconosciuta deve fare i conti con la sua storia riformista, anche la sinistra di movimento dovrebbe fare i conti con il suo paradigma politico, quegli anni Settanta di cui non si comprendono appieno talune miserie che ancora ne contraddistinguono certi tratti peculiari.

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