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28/01/2015

Il fallimento della Troika


Alla fine l'economia reale scoprì che il “diavolo rosso” di Atene può essere una benedizione, o almeno l'occasione per tornare indietro rispetto a una gestione della crisi che ha ottenuto l'esatto opposto di quanto promesso. Più crisi, e irrisolvibile; più debito pubblico, e non ripagabile; tracollo dei governi che obbediscono alla Troika, e non stabilità politica; riemergere di “populismi” socialisteggianti o parafascisti, invece che sviluppo della cultura liberal-liberista.

Ora si può dire che “la troika è morta” (Ricardo Franco Levi, sul Corriere della Sera del 27/01) e che se la Grecia non paga il debito forse è un bene per l'Europa (Martin Wolf, sul Financial Times di oggi). Se non è morta, comunque non se la passa troppo bene.

La sua credibilità è zero. Non solo davanti alle popolazioni dei paesi in difficoltà, sottoposte al waterboarding fiscale, ma anche presso le cancellerie degli stessi paesi. Anche i più fedeli esecutori delle “direttive” – come Renzi e Rajoy – sono sempre più spesso obbligati a mostrarsi insofferenti (almeno in pubblico) per l'evidente eterodirezione disposta da incapaci. I “super-tecnici” che dovevano spiegare a tutti come si costruisce un'economia capitalistica funzionante vengono a malapena tollerati se parlano sui giornali, ma non trovano più un'accoglienza entusiastica. Hanno fatto la figura dei professorini presuntuosi e deficienti, come quei promoter finanziari che hanno portato sul lastrico schiere di clienti disinformati.

La mossa della Bce sul quantitative easing è stata inquadrata come una normale, per quanto straordinaria nelle dimensioni, iniezione di liquidità. Ma a un'analisi più attenta dei dettagli tecnici si rivela anche un passo indietro deciso rispetto alla “condivisione dei rischi”. In capo al bilancio della Bce, infatti, andrà soltanto il 20% degli oltre 1.000 miliardi che saranno spesi da qui a settembre 2016 (60 ogni mese); anzi, addirittura soltanto l'8% (il 12% sarà mirato all'acquisto di titoli di istituti europei, non nazionali). Il restante 80% sarà a carico delle banche centrali nazionali (la Banca d'Italia, per quanto ci riguarda). Quindi si tratta di un passo verso la segmentazione ulteriore del sistema finanziario europeo, anziché in direzione dell'integrazione.

Non solo. Nella misura in cui le banche centrali nazionali acquisteranno titoli di stato dei rispettivi paesi, si farà un deciso passo indietro anche rispetto alla separazione ferrea tra Stati e banche centrali. Ovvero il pilastro “legale” che costringe ogni governo a cercare capitali freschi sui mercati, attraverso l'emissione di bond, anziché stampando moneta. È la norma introdotta, in Italia, da Beniamono Andreatta nel lontano 1981, che “separò il Tesoro dalla Banca d'Italia”.

Già ora il 40% del debito pubblico italiano è in mano a Bankitalia; ovvero il 52% del Pil italiano. Con l'aumento degli acquisti promosso dalla Bce in breve tempo potrebbe arrivare a detenerne oltre il 60%. In una situazione di difficoltà “esplosiva”, nulla impedirebbe alle stesse banche centrali di trasformare questa quota di debito pubblico in “debito irredimibile”, applicandovi un tasso di interesse nominale dello 0%. In pratica un “congelamento” che sottrae la maggior parte del debito dalle tempeste di mercato e... dalla necessità di ripagarlo. Difficile credere che Draghi o Weidmann non lo sappiano.

Se questo discorso ha un senso, la Bce si sfila in silenzio dal ruolo che aveva assunto con la famosa “lettera dell'agosto 2011”, inviata a Berlusconi e Zapatero, con cui indicavano il programma di “riforme strutturali” che i due governi dovevano mettere in cantiere. Il richiamo alle “riforme” resta come raccomandazione, ma vengono abbandonati parecchi degli strumenti sanzionatori adottati da allora in poi.

Un'altra conseguenza della vittoria di una forza politica antiausterità è che dovrà essere il Consiglio Europeo (formato da tutti i presidenti del consiglio dei paesi membri) il luogo di formazione delle decisioni continentali. Non più (o non soltanto) la Commissione Juncker, ovvero il governo. Meno “tecnicismi” suggeriti dalle lobby multinazionali, più compromessi utili ai governi nazionali, insomma. Un altro passo indietro.

Resta il Fondo Monetario Internazionale, dove però ci sono Usa e Cina che hanno affrontato la crisi con strumenti decisamente diversi e – soprattutto – possono per il momento vantare tassi di crescita che l'Europa non riesce neppure a sognare.

Una stagione sciagurata tramonta senza alcuna gloria, quale sia il futuro non si sa (non lo sanno neanche i “grandi boss” del pianeta). Ma molti giochi possono essere riaperti.

L'articolo di Martin Wolf, tradotto e pubblicato da IlSole24Ore. Il nostro consiglio è di mandare a memoria le due "stupidaggini" che vengono ripetute da tutti i media, oltre che da presunti "esperti".

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Perché condonare il debito alla Grecia farebbe bene anche all’Europa

di Martin Wolf  (Traduzione di Fabio Galimberti)

A volte, la cosa giusta da fare è la cosa saggia da fare. È così oggi per la Grecia. Se fatta nel modo giusto, una riduzione del debito andrebbe a beneficio della Grecia e del resto dell'Eurozona. Creerebbe delle difficoltà, ma non tante quante ne creerebbe gettare la Grecia in pasto ai lupi. Tuttavia, raggiungere un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi malauguratamente impossibile: per questo chi pensa che la crisi dell'Eurozona sia finita si sbaglia.

Nessuno può essere sorpreso della vittoria di Syriza in Grecia. La «ripresa» del Paese ellenico è fatta di una disoccupazione al 26 per cento e di una disoccupazione giovanile oltre il 50. Inoltre, il prodotto interno lordo ha perso il 26 per cento rispetto al suo massimo antecrisi. Ma il Pil è un parametro particolarmente inappropriato per dare conto della riduzione del benessere economico, in questo caso. Il saldo delle partite correnti nel terzo trimestre del 2008 era attestato su un -15 per cento del Pil, ma dalla seconda metà del 2013 è in attivo: questo significa che la spesa dei greci per beni e servizi in realtà è calata di almeno il 40 per cento.

Di fronte a una catastrofe del genere, non c'è davvero da stupirsi che gli elettori abbiano rigettato il precedente Governo e le politiche che ha portato avanti (un po' controvoglia) per conto dei creditori. Come ha detto Alexis Tsipras, il nuovo primo ministro, l'Europa è fondata sul principio della democrazia. Il popolo greco ha parlato. Le autorità costituite devono come minimo ascoltare. Eppure tutto quello che si sente in giro lascia intendere che le richieste per un nuovo accordo su debito e austerità saranno respinte senza neanche pensarci su. Dietro a questa reazione c'è una discreta quantità di stupidaggini moralisteggianti. Due in particolare ostacolano le speranze di una risposta ragionevole alle richieste greche.

La prima stupidaggine è che i greci hanno preso in prestito i soldi e perciò sono tenuti a ridarli indietro, a qualunque costo. Era più o meno lo stesso ragionamento alla base del carcere per debiti. La verità però è un'altra: i creditori hanno la responsabilità morale di prestare soldi con accortezza. Se non vagliano in modo accurato la solvibilità dei loro debitori, si meritano quello che gli succederà. Nel caso della Grecia, le dimensioni dei disavanzi con l'estero, in particolare, erano evidenti. Ed era evidente anche il modo in cui era gestito lo Stato greco.

La seconda stupidaggine è sostenere che dal momento in cui è esplosa la crisi il resto dell'Eurozona sarebbe stato straordinariamente generoso con la Grecia. Anche questo è falso. È vero che i prestiti erogati dall'Eurozona e dal Fondo monetario internazionale ammontano alla smisurata somma di 226,7 miliardi di euro (circa il 125 per cento del Pil), più o meno i due terzi del debito pubblico complessivo, pari al 175 per cento del Pil. Ma la quasi totalità di questi soldi non è andata a beneficio dei greci: è stata utilizzata per evitare la svalutazione contabile di prestiti inesigibili a favore del Governo e delle banche del Paese ellenico. Solo l'11 per cento dei prestiti è andato a finanziare direttamente attività del Governo. Un altro 16 per cento è andato a pagare gli interessi sul debito. La parte restante è stata usata per operazioni di capitale di vario genere: i soldi sono entrati e sono usciti fuori di nuovo. Sarebbe stato più onesto soccorrere direttamente i creditori, ma era troppo imbarazzante.

Come i greci fanno notare, l'abbuono del debito è una pratica normale. La Germania, che nel XX secolo è andata più volte in default sia per quanto riguarda il debito interno sia per quanto riguarda quello con l'estero, ne ha beneficiato più volte. Quello che non può essere pagato non sarà pagato. L'idea che i greci debbano accumulare grosse eccedenze di bilancio per una generazione per restituire il denaro che i Governi creditori hanno usato per salvare i creditori privati dalla loro sconsideratezza è un'assurdità.

Che cosa bisogna fare allora? Si può scegliere tra la cosa giusta, la cosa comoda e la cosa pericolosa.

Come sostiene Reza Moghadam, ex direttore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, «l'Europa dovrebbe offrire un sostanzioso alleggerimento del debito, dimezzando il debito della Grecia e dimezzando il saldo di bilancio richiesto, in cambio di riforme». Una cosa del genere, aggiunge, sarebbe coerente con l'obbiettivo di un debito notevolmente al di sotto del 110 per cento del Pil, concordato dai ministri dell'Eurozona nel 2012. Ma queste riduzioni non dovrebbero essere effettuate in modo incondizionato. L'approccio migliore è quello delineato dall'iniziativa sui «Paesi poveri pesantemente indebitati» avviata nel 1996 dal Fmi e dalla Banca mondiale. Secondo i criteri fissati da questo programma, l'alleggerimento del debito viene accordato solo dopo che il Paese debitore ha soddisfatto criteri di riforma ben precisi. Un programma del genere sarebbe di grande beneficio per la Grecia, che ha bisogno di una modernizzazione politica ed economica.

L'approccio politicamente comodo è continuare a «estendere e pretendere». Sicuramente ci sono modi per rimandare ulteriormente il giorno della resa dei conti. Ci sono anche modi per ridurre il valore attualizzato degli interessi e dei rimborsi senza ridurre il valore nominale. Tutto questo consentirebbe all'Eurozona di evitare di confrontarsi con le tesi di chi sosterrebbe l'opportunità morale di un alleggerimento del debito per altri Paesi colpiti dalla crisi, in particolare l'Irlanda. Ma un approccio del genere non è in grado di produrre quel risultato onesto e trasparente di cui c'è drammaticamente bisogno.

L'approccio pericoloso è spingere le Grecia verso il default, perché una cosa del genere probabilmente creerebbe una situazione in cui la Banca centrale europea non si sentirebbe più nelle condizioni di operare come Banca centrale della Grecia, e questo obbligherebbe il Paese ellenico a uscire dall'euro. Il risultato per la Grecia sarebbe senza dubbio catastrofico nel breve termine; secondo me potrebbe addirittura bloccare qualsiasi progresso verso la modernità per una generazione. Ma il danno non lo subirebbe solo la Grecia: l'uscita di Atene dimostrerebbe che l'unione monetaria europea non è irreversibile, ma soltanto una parità monetaria particolarmente rigida. Sarebbe il peggio dei due mondi: la rigidità dei cambi fissi senza la credibilità di un'unione monetaria. In ogni crisi futura, ci si chiederebbe se è arrivato il «momento dell'uscita». Il risultato sarebbe un'instabilità cronica.

Creare l'Eurozona è la seconda peggiore idea che i suoi membri abbiano mai avuto, ma la peggiore in assoluto sarebbe smantellare l'Eurozona. Eppure è questo lo scenario che potrebbe realizzarsi se spingessimo la Grecia verso l'abbandono della moneta unica. La via giusta è riconoscere la validità di un alleggerimento del debito condizionato alla realizzazione di riforme verificabili. Un politico rigetterebbe questa idea, uno statista la farebbe propria. Sapremo presto se abbiamo a che fare con politici o con statisti.

Fonte

Bah secondo me abbiamo a che fare con delle macchiette...

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