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23/01/2015

Capisaldi 2014

Difficilissimo fare un sunto di quelle che sono state le tendenze sonore (personali ovviamente, del "mercato" m'importa sega...) di un 2014 già lontano, non perché abbia difficoltà a buttar giù un po' di contabilità casalinga, quanto perché la carne al fuoco è stata tantissima e il sottoscritto l'ha gustata in simbiosi costante con la vita e il suo evolvere.

Se il 2013 è stato l'anno di sdoganamento delle mie orecchie e la pietra miliare fu l'album di debutto dei romani Molotoy (impressionante come la Città Eterna abbia monopolizzato gli avvenimenti essenziali della mia vita recente!) il 2014 lo ricorderò senza dubbio per la rivoluzione che ha comportato nei miei ascolti.

In breve: fuori il metal e dentro tutto il resto.

In ossequio a un borghese rispetto nei confronti dei "defunti", parto da chi è divenuto minoritario, ovvero quel che resta del metal.
Resta poco, quasi nulla. Un buon 90% abbondante di quel che ascoltavo fino a 3-4 anni fa non mi trasmette più niente, una condizione di sterilità che a tratti m'imbarazza e spesso rattrista perché ha fatto comunque parte del mio tempo, per molto tempo.
Reso omaggio senza troppi rimpianti a ciò che fu, ad oggi trovo ancora un senso in una manciata ristretta di formazioni: Nuclear Assault (!!!), Sepultura, Coroner, MegadethVoivod, quasi tutti nelle rispettive declinazioni anni '90. Altri nomi ancora li conservo nelle orecchie - molto poco - e nel cuore, ma più per fattore affettivo, a volte folcloristico, che per bruciate piacere d'ascolto; è il caso di Sodom, Benediction e Pantera - a dosi microscopiche.

Chiuso il requiem, vediamo quel che è nato da codeste ceneri.
Anzitutto devo prendere atto che è effettivamente sensato, in merito al metal, associare il termine "fase", perché ammesso di non essere dei lesi con la profondità d'una pozzanghera, che si realizzano con un paio di birre in mano e un po' di brutalità sonora o masturbazione strumentale a buon mercato, il mondo metal, anzi proprio tutto l'hard 'n heavy è limitativo in modo quasi imbarazzante.
Soprattutto se considerato come "movimento" è poverissimo, non essendo ancorato a quasi nulla di quel contingente in cui tutti sbattiamo il muso ogni giorno, e non potrebbe essere diversamente essendo un filone nato e proliferato nella decade dei disimpegno.

In questo senso, avvertita la strutturale ristrettezza del genere, viene quasi naturale guardarsi oltre e finire senza accorgersene a provare simpatia ed interesse per l'hardcore, soprattutto in questi primi lustri di nuovo millennio, che sono l'apice della merda politica-sociale vomitata in faccia ai borghesi da chi animò i palchi underground 30 anni fa, soprattutto nel mondo anglosassone, quando la coppia Tatcher-Reagan destrutturava implacabilmente due decenni di conquiste sociali ed economiche da parte delle classi subalterne. Quindi vai di Black Flag, e di tante serate trascorse a discutere di Dead Kennedys, degli esordi dei Suicidal Tendencies e di mondo limitrofo nostrano coi Negazione in testa.

Da qui a saltare nel calderone del post-punk o new wave che dir si voglia, è un attimo. Complici i consueti scazzi personali figli del sistema, uniti a crisi d'incomunicabilità coi propri simili, sono finito tra le braccia dei Killing Joke prima e dei Joy Division poi, e la percezione della vita non sarebbe più stata la stessa! Qualche mese di questi ascolti ha stravolto la percezione dello spazio-tempo, dilatatasi oltre l'immaginabile. Situazione per altro calzante per i Killing Joke, che in 30 anni di carriera hanno guidato buona parte delle fasi artistiche più pregne restando costantemente sul pezzo e producendo una nutrita quantità d'emuli spesso degni di nota. Come ebbi modo d'affermare lo scorso anno, se vedo i Pink Floyd come il gruppo più avanti degli anni '70, i Killing Joke lo sono certamente stati, a fasi alterne, per i due decenni successivi.

Con cronologica naturalezza giungo agli anni '90, scrivendo del movimento che è diventato il punto di riferimento dei miei ascolti dell'anno passato, candidandosi facilmente a restarlo ben oltre l'anno in corso: mi riferisco a quel brodo di coltura che è stata Seattle tra la fine degli anni '80 e tutta la prima metà dei '90.

Nel mio caso la scintilla nacque da un sempreverde Osso che in periodo di totale panico sentimentale buttò lì Black che innescò una deflagrazione a tutt'oggi non ancora consumatasi. Venne quindi Ten e a seguire lo svisceramento della discografia dei Pearl Jam di cui ho fatto mio tutto quel che pubblicarono dal '90 al '98. I momenti vissuti insieme e grazie all'ascolto di quei 5 album sono qualcosa di strepitoso. Potrei starne a scrivere per una settimana avendo, comunque, la certezza di non produrre mai la forma adatta a trasmettere in modo calzante il trasporto che Vedder e soci hanno portato nella mia anima.

Il modo in cui mi approccio agli ascolti, concentrandomi sull'approfondimento di un artista alla volta, spesso mi porta a considerare il livello emozionale che raggiungo con un determinato album come insuperabile. È capitato con i Pearl Jam di cui non sarei in grado di scegliere con convinzione il disco più rappresentativo - forse Vitalogy, ma con diverse riserve - e parimenti è successo confrontandomi coi loro colleghi di genere.
Passare dai Pearl Jam ai Nirvana, agli Alice in Chains, ai Soundgarden trovando la quadratura d'ogni cerchio nei Temple of The Dog è stata un'escalation costante e inaspettata, un excursus di "botte" praticamente senza fine perché, anche quando tutto questo è diventato parte essenziale del mio "bagaglio", ascoltarli mi segna con la medesima intensità, spesso violenza, della prima volta.
Nemmeno sforzandomi potrei restare indifferente all'urlo sofferente e rabbioso condensato in Nevermind, alla disperazione distruttiva che forgia Facelift, alla violenza figlia del vuoto esistenziale urlata in Badmotorfinger.

Per questi e tanti altri motivi considero il grunge l'ultimo grande movimento che il rock ha conosciuto. Dal basso della mia esperienza in merito, ad oggi non si è palesato null'altro di simile, ed anche volgendo lo sguardo all'orizzonte futuro non si scorge alcuna sagoma...

In ogni caso, i '90, qualcosa di buono l'hanno prodotto anche al di fuori dello stato di Washington. E' il caso del brit pop in cui sono tornato fortuitamente ad imbattermi per merito dei The La's, autori di una chicca in cui s'esaurisce praticamente tutto il genere, ben prima che gli Oasis diventassero un nome di grido.

Tra la botta grunge e il revival del Beatles sound le mie orecchie hanno incontrato anche altre folgorazioni: prima con i Rage Against The Machine che non sono un gruppo ma un manifesto e poi con gli Helmet.
Acquistati entrambi praticamente a scatola chiusa su consiglio del già citato suggeritore, mi fecero scappare di testa per più di un mese rispettivamente con l'omonimo Rage Against The Machine e con Betty. Due album assolutamente ciclopici per feeling, tiro, impatto, esecuzione, nonostante una distanza compositiva e di genere molto marcata, in senso meramente artistico a vantaggio dei RATM per questioni che non credo necessitino di spiegazioni. Sulla scia degli Helmet s'inserirono successivamente i Prong, cui mi sono dedicato in leggero ritardo, ma con soddisfazione esponenziale, complice anche il fatto che affiancano a un groove che offusca i Pantera più blasonati, soluzioni sintetizzate ai limiti del pop che rendono le composizioni più agili e fresche, ascoltare Rude Awakening per credere, un disco prossimo al ventennale che pare uscito l'altro ieri, sarà che clown ci cova...

Tra tanti ascolti nuovi di pacca c'è stato spazio anche per alcuni approfondimenti, come nel caso dei Negrita, tornati tumultuosamente nelle mie orecchie con un Dannato Vivere che legandosi a momenti specifici è divenuto una pietra miliare alla stregua di Ten.
Il botto con cui mi ha accompagnato, ha oltretutto sortito l'effetto di riavvicinarmi a quella porzione di carriera della band - mi riferisco a XXX e soprattutto Reset - che in passato apprezzavo solo parzialmente.

Nel filone dei "proseguo" la parte del leone l'hanno comunque fatta i Pink Floyd, di cui ho esteso la conoscenza dopo l'ubriacatura con la coppia Dark Side of The Moon - Wish You Where Here che monopolizzò la seconda parte del 2013.
Per continuità con i precedenti ascolti, ho ripreso cronologicamente tutta la produzione anni '70 trovando pane per i miei denti praticamente ovunque, in particolare in Animals, che relativamente a quella fase creativa degli inglesi, è la mia uscita preferita, mentre The Wall è quella che complessivamente meno mi entusiasma, colpa di un impianto retorico tra una composizione e l'altra a mio giudizio troppo "ridondante", pur essendo ancora lontano dalle forzature di Final Cut, che ho trovato essere un'uscita davvero trascurabile.
Mi sarei fermato qui se la pubblicazione di The Endless River non mi avesse forzato a dedicarmi all'epoca Gilmour, fino a quel momento scarsamente considerata, salvo stupirmi perché non particolarmente lontana al periodo artisticamente più blasonato del gruppo.
Il 2015 potrebbe essere l'anno in cui chiuderò il cerchio anche con loro, le premesse positive, per ora ci sono...

Ad una rapida occhiata di quanto fin qui scritto mi pare d'aver snocciolato tutto l'essenziale, manca giusto il convitato di pietra, almeno per il metallaro medio come poteva essere il sottoscritto qualche anno fa, l'elettronica, declinata in molte delle sfaccettature che le appartengono: dal pop sintetico all'industrial passando per l'EBM.
Senza menare il can per l'aia, i pezzi da 90 sono presto detti: Godflesh, Fear Factory, Nailbomb, Killing Joke, Nine Inch Nails, Depeche Mode, Die Krupps, Ministry.

Ora, potrei stare qui a dipanare la solita questione di lana caprina per stabilire quale tra i succitati gruppi sia "migliore", ma sarebbe una cazzata perché non si tratta d'identificare chi è più bravo a fare cosa, ma capire che i sintetizzatori e tutto quel che ne è derivato sono stati la quintessenza della musica di massa, il passaggio ineludibile per rappresentare al meglio e senza astrattismi quel che socialmente, e dentro ognuno di noi, hanno prodotto 30 anni di cultura liberista: alienazione, incapacità di rapportarsi coi nostri simili, schifo per la vita - nostra e degli altri - disperazione per la fine di una civiltà che in molti sono stati capaci di prevedere con largo anticipo, ma nessuno si è premurato - o ha avuto i coglioni - di prevenire.

Se il grunge ha ricondotto alle masse queste tematiche rimescolando stilemi espressivi conosciuti (rock e punk), la musica elettronica ha chiuso il cerchio su questa denuncia attraverso sintetizzatori, campionatori e filtri digitali.
Il risultato è un suono che meglio di qualsiasi altro rappresenta e offre sfogo al paradosso d'un vuoto tanto opprimente nella sua inconsistenza come quello che pervade l'uomo moderno, e senza nemmeno il bisogno d'attendere che i postumi della bancarotta di Lehman Brothers si portassero via il futuro di qualche miliardo di persone.
Si tratta di frequenze che battono il gong ad un'umanità che si credeva arrivata e invece scopre con la peggiore violenza d'aver trascorso gli ultimi decenni a pisciare controvento nella cieca convinzione di non bagnarsi i piedi.

Ce ne sarebbe stato a sufficienza per chiuderla qui, ma un overdose chiama l'altra prima che la precedente sia stata smaltita, quindi sullo spegnersi dell'anno torna De André a farsi cantore delle miserie e dei tesori della mia esistenza, forse - il condizionale è d'obbligo con tutto quello che ho passato insieme alle mie orecchie - come nessun altro è stato in grado di fare.
L'album è quello che immortala il tour di Faber accompagnato dalla PFM nel 1979, un disco con cui mi confronto a fasi alterne da quasi un decennio, ma che sono arrivato a comprendere solo al termine di quest'anno, dopo un improvvisata escursione nella Città Eterna, dove l'anima s'è smarrita tra la magnificenza della monumentalità per rinascere nello sguardo di chi, per qualche ora, ha condiviso quello smarrimento insieme a me.

Sono convinto sarà difficile bissare l'intensità di quei mesi ormai distanti, ma al contempo è chiaro che l'infinito, per me, non sarà mai tutto qui, in quanto si paventa superficialmente agli occhi.

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