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28/12/2014

La sostanza del Jobs Act

Il Jobs Act è la risposta politica del capitale alla crisi economica. Come già evidenziato da molti, tramite la nuova legge sul lavoro viene sancita la legalità dei licenziamenti economici. In pratica, vista la perdurante crisi alla quale le istituzioni occidentali non riescono a porre freno, si certifica la possibilità per gli imprenditori di licenziare i propri lavoratori per motivi economici. Sembra un aspetto secondario e invece costituisce il cuore del provvedimento. In sostanza, il governo prende atto dell’inevitabilità della crisi, e della sua durata ancora probabilmente lunga. Se il prossimo futuro è inserito in uno scenario di recessione, il nuovo provvedimento dispone gli strumenti utili al fronte padronale per porvi rimedio. Da una parte si concede al capitale privato di licenziare a piacimento dietro semplice ratifica della difficoltà economica; dall’altra si grava sul bilancio pubblico il frutto di questa scelta, adeguando il mercato del lavoro italiano alle impostazioni welferistiche anglosassoni. Il privato è libero di muoversi senza alcuna assunzione di responsabilità, mentre il pubblico deve per legge sostenere le dinamiche di mercato. La cornice entro cui viene pensata tale legislazione è un tasso di disoccupazione elevato e perdurante. Il tasso di disoccupazione stabilmente elevato consente tre margini di manovra centrali per mondo imprenditoriale: da un lato livellare verso il basso gli stipendi già in essere; dall’altro costringere i nuovi occupati ad assunzioni senza garanzie contrattuali; in terzo luogo, concedere mani libere al datore di lavoro, che in ogni momento può interrompere il rapporto lavorativo senza pericolo di reintegro. E’ utile spendere due parole sul concetto di reintegro, vista la scarsa consapevolezza che si ha su tale strumento anche tra compagni.

In questo quarantennio il reintegro da parte del giudice non è stato solamente importante per ristabilire effettivamente il lavoratore sul suo posto di lavoro se licenziato senza giusta causa. Questa è sola una parte della verità, non la più importante. Infatti un lavoratore che ha deteriorato il rapporto con l’azienda non sempre decide di farsi reintegrare dopo il tentato licenziamento. La “minaccia” del reintegro serve al lavoratore anche per assicurarsi indennizzi adeguati dopo il licenziamento. La decisione del giudice che impone all’azienda la riassunzione del lavoratore licenziato consente al lavoratore di strappare migliori margini di trattativa con l’azienda. La scomparsa del reintegro ha imposto un salto all’indietro secolare alla forza del lavoratore di contrattare la sua buonuscita. Già oggi il massimo possibile a cui sarebbe condannata un’azienda è di 24 mensilità, e stiamo parlando di un rapporto lavorativo di lungo periodo, a tempo indeterminato e dopo vari scatti d’anzianità. Molto più prosaicamente, un licenziamento “normale”, cioè di un lavoratore legato all’azienda relativamente da poco tempo, senza contratto stabile, con pochi o nulli scatti d’anzianità, si vedrà non solo impossibilitato per legge ad essere reinserito nel posto di lavoro, ma anche a perderlo con pochi spicci di buonuscita, poche migliaia di euro se va bene.

Dunque non è solo il reintegro il problema, ma anche l’indennizzo. Col Jobs Act il licenziamento non costerà praticamente nulla all’azienda, che potrà fare fronte a qualsiasi calo di domanda congiunturale con licenziamenti di massa. In realtà c’è anche questo grande problema nel provvedimento renziano: i licenziamenti collettivi. La legge approvata equipara i licenziamenti individuali a quelli collettivi, e come dovremmo sapere questi sono sempre stati vietati dal legislatore, visto che l’azienda non può licenziare in blocco il personale senza una complesso procedimento di contrattazione con le parti sindacali e seguendo precisi limiti di legge. Oltretutto, in caso di “procedura di mobilità” di gruppo, l’azienda prima non poteva indicare chi licenziare, ma seguire le normative di legge. Oggi tutto questo scompare. Oggi anche questa piccola grande conquista di classe viene abrogata senza colpo ferire.

Tutto il provvedimento è in realtà un’indicazione politica. E’ l’adeguamento legislativo ad una condizione di recessione economica giudicata permanente, stabilizzata e dalla quale viene giudicato impossibile uscire nel medio-lungo periodo. Non è una norma “anti-ciclica”, che prova cioè a risponde alla crisi potenziando in qualche modo la domanda interna. E’ paradossalmente una norma “pro-ciclica”, cioè in questo caso pro-recessiva, nel senso che moltiplica quegli aspetti già favoriti dalla crisi. Ad una crisi da sovrapproduzione si risponde incentivando la produzione economica a scapito della redistribuzione salariale; ad una crisi della domanda interna si risponde aggravando la recessione salariale deprimendo la possibilità dei consumatori di assorbire la quantità di merci prodotte; ad una disoccupazione stabilizzata verso l’alto si risponde facilitando le procedure di licenziamento. Questa è la ricetta Renzi per fermare la recessione: scaricarla sul mondo del lavoro.

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