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31/12/2014

Guerre valutarie e Quirinale


Per orientarsi nella battaglia che sta per iniziare intorno al Quirinale, dobbiamo capire che c’è una novità rispetto al passato: questa volta il Presidente, molto più che da Montecitorio in congiunta con Palazzo Madama, scaturirà da telefonate in congiunta fra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.

Intendiamoci: anche in passato ci sono stati tentativi stranieri di influenzare l’elezione del Presidente e non solo – come è facile immaginare – da parte degli americani, ma anche di altri. Ad esempio, nel 1972, sovietici e rumeni tentarono di convincere il Pci a votare Fanfani (il De Gaulle italiano, si diceva) per ottenere un corso della nostra politica estera meno sdraiato sulla Nato. Ma si trattò di poca roba e non sempre andata a segno (come il caso appena citato dimostra). Soprattutto, si trattava di tentativi scoordinati fra loro e senza troppo crederci. Nel complesso, in materia di Quirinale, le dinamiche della politica interna hanno sempre prevalso sulle pressioni internazionali, anche perché la casella più importante e tenuta d’occhio non era il Quirinale ma Palazzo Chigi.

Questa volta è diverso, perché la globalizzazione impone dinamiche diverse che mescolano molto più del passato il dentro ed il fuori ed, in secondo luogo, perché il Quirinale è diventato più interessante di Palazzo Chigi anche in ragione della stabilità settennale del primo e della precarietà del secondo.

Partiamo in particolare da un dato: la guerra valutaria in atto.

Re dollaro non è più il re incontrastato di un tempo, quando le incaute sfide di marco e yen venivano rapidamente ridimensionate e ridotte ai margini. Oggi il dollaro deve fare i conti con lo yuan renminbi cui è legato da un perverso intreccio: il secondo si tiene volutamente sotto apprezzato per favorire le esportazioni, ma inizia ad essere accettato come moneta di scambio internazionale (come è accaduto da ultimo nel contratto sino-russo per il gas e da altre intese con paesi asiatici e latino-americani). Cercare di destabilizzarlo sarebbe non solo difficile e poco utile, ma anche pericoloso, visto che, nella pancia della banca centrale cinese, riposano tre mila miliardi di dollari fra banconote e T bond pronti ad essere riversati sul Mercato, con gli effetti che è facile immaginare. D’altro canto, anche ai cinesi non conviene tirare la corda più di tanto, perché, se il dollaro va a fondo, quei tre milioni di miliardi vanno in fumo e, poi, si brucia il principale mercato di sbocco delle sue merci. Ai cinesi dà fastidio che gli americani emettano liquidità a tutto sprint, con  l’effetto di svalutare i loro stessi crediti, ma, poi, alla fine, conviene acconciarsi in un equilibri precario, che non esclude i colpi bassi, ma non può mai saltare del tutto.

Come terzo incomodo fra i due colossi, c’è l’Euro, una moneta sbagliata che non dovrebbe esistere ed, invece, esiste. Anche l’Euro qui e lì inizia ad essere accettato come moneta di scambio e di riserva e, anche se non ha mai insidiato davvero re dollaro, resta una sorta di minaccia permanente. Soprattutto, corre il rischio di agire costantemente in controtendenza, finendo con il rendere molto più precario l’equilibrio fra i primi due.

Non è un mistero che una parte degli americani vedrebbe volentieri sparire questa moneta. Non sono dello stesso parere altri americani che, pur auspicando un ridimensionamento “politico” di questa moneta,  non ne vogliono il crollo, temendo un effetto domino. Ma, sia che si voglia far fuori l’Euro, sia che lo si voglia solo ridimensionare (come si fece con lo yen nel 1985), occorre metterci le mani su ed il modo migliore è controllarne il punto debole. E, se la Germania ne è il punto forte, l’Italia ne è il punto debole. Grecia, Portogallo, forse Spagna, possono rappresentare malanni seri, ma curabili, mentre l’Italia, con i suoi 2.000 e passa miliardi di debito, rappresenta il vero rischio mortale. Ad un default italiano, l’euro non sopravvivrebbe. Forse nascerebbe l’Euro del Nord, comunque non ci sarebbe più l’Euro come lo conosciamo.

Ad essere sinceri, l’Italia è già un paese tecnicamente fallito, perché il debito non è ripagabile neanche in prospettiva assai lontana, perché la pressione fiscale indotta dal peso degli interessi condanna la nostra economia a lenta morte per asfissia, perché il Pil è condannato a scendere, per cui il debito è destinato a crescere in rapporto al Pil, anche restando fermo. E c’è anche chi pretende che troviamo altri 100 miliardi all’anno per rispettare il patto di stabilità che prevede il dimezzamento del debito entro un certo numero di anni: follie.

Dunque, l’Italia è un cadavere tenuto a galla con interventi tampone di volta in volta e non si sa bene per quanto. Ma prima o poi, è di qui che occorrerà partire per rifare l’ordine monetario del continente.

In questo quadro, il Presidente Napolitano ha agito come sorta di garante-commissario, diventando il vero interlocutore a livello internazionale mentre Berlusconi, Monti, Letta, Renzi si succedevano l’uno all’altro, quattro presidenti in tre anni (se contiamo dall’inizio del governo Berlusconi).

Si capisce che, per il sistema internazionale, un interlocutore stabile sia una esigenza di primaria importanza. Ed è importante che il presidente sia “la persona giusta”, capace di usare i “poteri silenti” previsti dalla Carta Costituzionale. Di qui le crescenti interferenze su una questione che, in altri tempi, sarebbe stata assai meno notata nell’agenda internazionale.

Chi lo ha capito per primo, fra i candidati, è stato Prodi che ha iniziato una complessa manovra avvolgente proprio sul piano internazionale, capendo che i voti necessari si possono raccogliere più facilmente fuori che in Italia. Sarà un caso (certamente) ma dopo la visita di Prodi a Mosca, il Cavaliere ha esplicitamente lasciato cadere il veto su di lui dicendosi pronto a discuterne, mentre Minzolini e Rossella hanno esplicitamente invitato Berlusconi a far sua questa candidatura; persino la Santanchè (ho detto la Santanchè! Avete sentito?) abbandona toni pregiudizialmente ostili e si dice pronta a pensarci.

Sicuramente Prodi non ha problemi a farsi appoggiare da Berlino, di cui è stato sempre tanto amico. Ed anche da Francoforte non dovrebbe mancare la simpatia. In fondo, poi Prodi potrà sdebitarsi con Draghi assicurandogli l’appoggio italiano per la candidatura al Fmi. Il problema più serio è il nulla osta a stelle e strisce. Per quanto russi, tedeschi e Bce possano essere autorevoli, sarebbe dura spuntarla contro un veto americano. Anche perché sicuramente lui non è il candidato naturale di Renzi, che lo vede come il fumo negli occhi. Il fiorentino, lo abbiamo detto molte volte, non è un genio, però capisce perfettamente che, con Prodi al Quirinale, la sua permanenza a Palazzo Chigi potrebbe durare meno di un mese. E, per quanto i rapporti fra Renzi e l’attuale amministrazione americana non siano affatto splendidi, però potrebbe tornargli utilissimo attaccarsi a quel veto ed ostentare la più schietta ortodossia atlantica, pur di evitare che la “mortadella dal volto umano” si insedi sul Colle. Vice versa, se ci fosse una pressione congiunta di russi, tedeschi e Bce, con un appoggio americano anche solo tiepido, sarebbe costretto ad accettarlo ed, anzi, a proporlo, almeno per evitare di subirlo apertamente.

Ma gli americani che pensano di Prodi? E’ sempre stato amico della Germania, da sette-otto anni lo è pure della Cina, tresca con i russi, è stato ostile alla guerra del Golfo. Con questi precedenti non dovrebbe avere speranza alcuna. Ma, in politica, mai dire mai. Proprio in questi giorni, è uscita su “Italia Oggi” una interessante intervista a Edward Luttwak – e il signore si che se ne intende! – il quale, ha spiegato il perché ed il percome l’euro sia stato un clamoroso fallimento dal quale, in qualche modo, bisogna uscire prima che sia troppo tardi, all’intervistatore che gli ricorda come fra i primissimi fautori dell’Euro ci sia stato tal Romano Prodi, che oggi aspira al Colle, risponde letteralmente “Prodi è un economista provato e una persona onesta. E di onestà, nella politica italiana, non c’è un’offerta illimitata, però lui dovrebbe dire: <>>”.

Che, traducendo liberamente dall’inglese-americano all’italiano, a noi suona così: “Prodi è stato un nostro nemico ed un fautore di quella porcheria di moneta, però è uno dei pochi in Italia che capisca qualcosa di economia, per cui, se non si intestardisce a fare il filo tedesco e a difendere l’Euro, se ne può discutere”. O no!?

Insomma, non è detto che dal Potomac debba necessariamente arrivare un “niet” e si capisce che, in ogni caso, gli americani di una Pinotti, di un Veltroni, di un Franceschini non sanno che farsene e non prendono neppure in considerazione nomi che non abbiano una qualche caratura internazionale (non a caso nell’intervista Luttwak non cita nessun altro aspirante al Colle). Il che non vuol dire che i giochi siano fatti: bisogna vedere sino a che punto questa dichiarazione corrisponda agli umori ufficiali della Casa Bianca e poi se Prodi saprà convincere i suoi vecchi antipatizzanti. Ma ci dice che la partita è molto più aperta di quel che si pensi e che, per ora, l’unica candidatura in pista a livello internazionale è quella di Prodi. Potrebbero subentrare quelle di Amato, D’Alema, Cassese o, al massimo, Gentiloni, ma per ora il nome che si fa è solo quello del Professore.

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