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31/12/2014

Class Enemy: il suicidio come specchio dell’incomprensione


“La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive”

Thomas Mann

Vedere Class Enemy, del regista Rok Bicek, è sicuramente un’esperienza da provare, perchè ci parla in modo profondo di cosa vuol dire vivere la scuola oggi, tanto per gli studenti, quanto per chi a scuola ci lavora, così come per le famiglie. Vediamo generazioni che non posseggono gli strumenti per parlarsi, per capirsi (i programmi ministeriali, ovunque, non servono a ciò) per avere il tempo e la pazienza di avviare un percorso di crescita interpersonale.

Il film, partendo dal suicidio di una studentessa in una classe che ha appena visto arrivare un serio e rigido supplente, evolve continuamente nelle scene fino ad approdare a quella che pensiamo sia la questione centrale che si pone oggi sul tema: questo modo di “educare”, a queste condizioni e con questi tempi, è funzionale solo a replicare l’esistente. Lo vediamo bene nei colloqui tra genitori e professori in seguito ad uno dei tanti momenti di tensione mostrati, quando gli studenti prendono il supplente come caprio espiatorio della morte della giovane: i genitori non solo mostrano come la propria provenienza di classe conduca a questo o quel comportamento, ma che la cosa si riflette sui figli in maniera identica. La scuola, dunque, anche se letteralmente si divide in “classi”, non livella e non livellava nemmeno ieri le differenze di classe; gli studenti, provenendo da contesti sociali diversi, non rappresentano una classe con gli stessi interessi nel lungo periodo. Quel che il film di Bicek ricorda è che il ribellismo giovanile è ovunque insito nei ragazzi, che l’organizzazione massificata e lineare dell’apprendimento, specie con l’evoluzione tecnologica, rende apatici, non incuriosisce, non dà un motivo valido per seguire una lezione. Per lo più, come uno spacciatore, somministra pillole ideologiche e astratte di vario tipo, aspettando che le pecore tornino al gregge. I ragazzi sono oggi bombardati di informazioni propagandistiche, ma non hanno gli strumenti (e come loro gli adulti) per filtrarle, non posseggono cioè una chiave di lettura della realtà, quindi si incazzano e agiscono d’istinto. Non riescono a comprendere l’importanza delle contraddizioni, devono necessariamente aggrapparsi a punti di riferimento come le mode, non decise da loro e in continuo mutamento; si sentono quindi spaesati, in perenne competizione, anche se a volte scoprono che possono cooperare per raggiungere risultati migliori, pur nel misero contesto sociale nel quale sono immersi. E con questo hanno a che fare inevitabilmente i professori, i quali provano ad assecondare in modo bonario gli studenti fallendo platealmente: pur in una situazione “ottimale”, direbbero molti sociologi, dal momento che nel video vediamo un istituto ben attrezzato ed organizzato, il bubbone è pronto ad esplodere e l’istituzione non può far niente contro il penetrare degli effetti sociali della realtà.

“Mi sembra importante poter parlare, attraverso l’arte cinematografica, di temi che riflettano sia la società nazionale che quella mondiale”, ha commentato il regista: una frase non da poco, perchè consente di togliere un velo sulle stucchevoli retoriche nazionali (ci basta e avanza quella nel Belpaese) de “più fondi alla scuola e all’università”. Spesso infatti questi appelli prescindono dal contesto e, oltre a mostrare un certo cinismo economicista, aggirano la questione. Non si tratta infatti, e il film ce lo ricorda, di buttare più benzina in un serbatoio di una macchina altrimenti “sana”: è proprio tutta la struttura, a livello globale che non regge più! Se guardiamo i dati sui suicirdi nel mondo, in particolare nella fascia tra i 15 e i 29 anni, vediamo che il suicidio è la seconda causa di morte, uno ogni 40 secondi; se a questo sommiamo il livello del consumo di sostanze tra adolescenti e non, i cui primi approcci comiciano ad essere sempre più “precoci”, se, inoltre, provassimo ad essere un po’ più onesti con noi stessi ci renderemmo conto che non è possibile, razionalmente, pensare che l’educazione dei ragazzi possa avvenire scaricandoli da qualche parte (come la scuola) in un contesto dove (dagli Usa all’Italia) gli insegnanti sono pagati una miseria e dove, pur con tutti i mezzi per “risparmiare tempo”, siamo sempre di fretta e non abbiamo mai abbastanza tempo per ciò che dovrebbe essere indispensabile, appagante.

I risultati sono sotto i nostri occhi: il disagio esistenziale, in Italia come altrove, si esprime in forme diverse, ma lo sostanza è identica. La risposta non si trova, sempre per sfatare un altro mito, nella “cultura” genericamente intesa, così come in un tipo particolare di questa. Un tempo la retorica de “un popolo ignorante è manipolabile” poteva anche reggere ma, oggi, di fronte alla conferma del fatto che le classi dominanti si impongono tanto con “l’ignoranza” quanto con la loro di “cultura”, è necessario iniziare a chiarirsi le idee sul tipo di società che vogliamo domani. Perchè in questi “popoli” il nemico è sempre appartenente ad una classe ben precisa, responsabile del disastro dei nostri giorni. Ha una responsabilità enorme sulla formazione delle giovani menti, che non riesce e non può, per assenza di tempo speso in modo sociale, portare avanti seguendo i bisogni umani. Il nemico, come recita il titolo del film, è sì in classe, dove ogni giorno avviene la somministrazione dell’ideologia dominante, ma è anche fuori: in casa, al lavoro, per strada. Non possiamo personificare e ogni personalizzazione servirebbe solo come capro espiatorio: è questa l’essenza del nostro rapporto sociale. E, come scriveva qualcuno, non si tratta tanto di interpretarlo, ma di cambiarlo!

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