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27/11/2014

Piano Juncker. Promesse, fiducia, speranze, niente soldi


Chiacchiere e distintivo. La funzione “positiva” del governo europeo – la Commissione, affidata alla guida di Jen-Claude Juncker, lussemburghese sotto tiro per aver favorito l'evasione fiscale di ben 550 multinazionali globali – è ridotta a ben poca cosa.

Promesse, speranze, fiducia, futuro, giovani... Parole che avevano un senso e che vengono svuotate giorno dopo giorno da un uso compulsivo, distraente, truffaldino. Non solo dal guitto di Pontassieve o dal suo indiscusso maestro arcoriano, ma persino da questo grigio fiscalista la cui unica capacità riconosciuta si esprime nell'arte del galleggiamento tra navi ben più potenti (Germania e Francia, da sempre).

La promessa con cui si era presentato era a suo modo forte: 300 miliardi per investimenti da effettuare in tutta l'Unione Europea, per rilanciare la crescita economica e assorbire almeno in parte la devastante disoccupazione. Un programma semi-keynesiano, avevano detto molti; una “cosa di sinistra”, aveva twitteggiato Renzi, dicendo di vole prenotare 40 di quei miliardi.

Col passare dei giorni la bolla delle aspettative salvifiche si è andata sgonfiando. Molte indiscrezioni riducevano a molto meno la cifra disponibile pronta cassa (30 miliardi appena, giuravano le fonti di Bruxelles), il resto da trovare attivando la “leva finanziaria” e incrociando le dita.

Ieri, infine, la presentazione ufficiale del piano di investimenti davanti al Parlamento di Strasburgo. Chiacchiere e distintivo, panna montata e speranze. Persino il confindustriale Sole24Ore ha avuto un moto d'orrore, o comunque di stizza, davanti alla solare presa per i fondelli (al contrario dei media “progressisti”, a partire dal Tg3, gli industriali sanno distinguere tra soldi e parole).

Neanche 30 miliardi, ma appena 21. Anzi. Neanche quelli, solo 5. Ce li mette la Banca Europea degli Investimenti (la Bei, che proprio questo dovrebbe fare, ma non fa, comportandosi come una banca qualsiasi), per “non perdere la tripla A” assegnata fin qui dalle agenzie di rating (tutte statunitensi). Se ne mettesse di più i suoi bilanci andrebbero sotto gli standard.

Gli altri 16 non sono soldi veri, ma “garanzie” fornite dagli stati membri dell'Unione. Questa briciola messa sul piatto davanti a quasi mezzo miliardo di cittadini continentali, alle prese con la crisi più lunga della storia moderna, dovrebbe magicamente mobilitare risorse private e pubbliche levitando così fino a 315 miliardi. E in base a quale meccanismo economico dovrebbe mettersi in moto una leva finanziaria nella proporzione di 15 a 1? La “fiducia”.

È quasi divertente vedere come l'armamentario teorico che supporta le decisioni di politica economica e finanziaria, che viene presentato al pubblico come una “verità scientifica senza alternative”, si riduca alla fin fine in una paroletta da sciamani o da Scientology. Chi dovrebbe emanare questo clima di “fiducia”? Non la Commissione, che non ha soldi da investire e chiede siano altri a farlo; non la Bei, non gli imprenditori privati (l'avrebbero già fatto), non gli stati nazionali obbligati al pareggio di bilancio e alla riduzione del debito pubblico.

Anche questi ultimi, infatti, restano ammanettati alla logica dell'”austerità”. Da un lato la Commissione promette che gli eventuali investimenti produttivi inseriti nel “piano Juncker” non verranno computati ai fini delle manovre correttive; dall'altro la Merkel, ancora ieri, a pochi minuti di distanza e nella stessa aula, pur dicendosi “d'accordo in linea di principio”, fissava paletti invalicabili: «la Commissione e Jean Claude Juncker [devono proseguire] nella verifica severa dei piani di bilancio degli Stati membri». Perché «L'affidabilità delle regole comuni del patto di crescita è di grande significato per la fiducia nell'eurozona». La traduzione è semplice: non chiedete soldi a noi, che ne abbiamo, ma tagliate le vostre spese pubbliche e sperate che il mercato vi premi. Punto.

Non è difficile prevedere un futuro gramo per questo piano. Che oltretutto parte mettendo al centro delle “priorità” due settori come energia e trasporti. Certamente strategici, specie il primo, visto che l'Europa dipende per oltre il 60% del suo fabbisogno energetico dalle importazioni. Ma si tratta anche di due settori in cui il fattore occupazionale è quasi marginale.

Anche qui “si spera” in una sorta di effetto leva? E in quanti anni si potrebbe realizzare la magia di trasformare 5 miliardi in 315, sviluppando settori a bassa intensità di lavoro che a loro volta mettono in moto settori meno strategici e competitivi ma ad alta intensità di manodopera? Silenzio, ovviamente. O meglio: chiacchiere. Il distintivo potrebbe venir sostituito dal manganello.


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Il passo corto dell'Europa, più speranze che soldi

di Guido Gentili - da IlSole24Ore

L'Europa non tradirà «i figli e i nipoti firmando assegni che finiranno per pagare loro». Il Presidente della Commissione Jean Claude Juncker, presentando il suo piano per la crescita da 315 miliardi di investimenti, si preoccupa del futuro dei più giovani. E dedica un pensiero politicamente corretto anche al «bambino greco di Salonicco che deve poter entrare in una scuola moderna con il computer».

Dunque, niente denari freschi. Ma tante speranze sì. Quella per cui 21 miliardi di capitale iniziale si moltiplicano al pari della fiducia degli investitori privati e ne mobilitano 315, in particolare a favore dei Paesi più sofferenti. O quella per la quale «piacerebbe» a Juncker che siano i Paesi con «più ampi margini di manovra di bilancio» (leggasi Germania) a contribuire di più al costruendo fondo per gli investimenti capace di strappare l'Europa alla stagnazione.
La Banca Europea per gli Investimenti (Bei) deve mantenere il suo rating da "tripla A" e non può assumersi rischi, ha precisato il vicepresidente della Commissione Jyrki Katainen. D'altra parte, la Cancelliera tedesca Angela Merkel approva «in linea di principio» il piano ma si riserva già una verifica appuntita dei progetti. E non è ancora certo che l'eventuale contributo dei singoli stati nazionali sia escluso dal calcolo del deficit e del debito ai fine del rispetto del Patto di stabilità.

Insomma la vecchia «nonna Europa», per stare alla tagliente definizione di Papa Francesco, fa il passo che può. Quello corto, e ancora tutto da scrivere prima nei regolamenti e poi nell'economia reale, ma che consente di dire è «il primo» della svolta dopo l'austerity. Alle sue spalle, in tema di azioni pro-crescita, il fallimento dei piani del 2008 e del 2012.
Ci si augura che non finisca così. Cosa può fare l'Italia? Primo: battersi a Bruxelles per riempire quanto più possibile i buchi del progetto le cui incognite sono pari alle sue ambizioni. Secondo: far scattare i piani relativi ai 40 miliardi subito "bancabili" co-finanziabili con la Bei di cui ha parlato il ministro Pier Carlo Padoan. Sarebbe già questo un gran risultato.

Fonte

La classe dirigente dell'UE è peggio di quella americana, stiamo messi bene.

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