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13/10/2014

Jugband Blues

Una descrizione di un viaggio Interstellare
Vi è mai capitato di conoscere a perfezione un brano senza averlo mai intenzionalmente selezionato dalla tracklist di un cd, o dal lettore mp3 di turno?

Mi spiego un po’ meglio, si sceglie un brano, lo si ascolta a ripetizione per motivi vari, ma c’è sempre il brano che viene dopo, che inizia automaticamente, e spesso siete troppo svogliati o non ci pensate a tornare puntualmente al brano iniziale. Così anche il brano a cui inizialmente non avevate pensato di ascoltare, viene ascoltato a ripetizione.

Mi è capitato così, con un sacco di brani, tra cui in particolare questo: Jugband Blues, dei Pink Floyd, dal loro album a Saucerful of Secrets del 1968.

Perché dovete capire che, quando a 13 anni cominciavo ad ascoltare i gruppi degli anni '70, Pink Floyd inclusi, avevo una sorta di repulsione verso gli stili e le registrazioni degli anni '60. Imperfette, caotiche, abbozzate e apparentemente suonate male. Meglio opere ben prodotte, tecnicamente rifinite, ripulite da tutto ciò che su un cd odierno non sentiremmo mai. Jugband Blues non era dunque un brano che, scorrendo velocemente la tracklist di Echoes, Il best of dei Pink Floyd uscito nel 2001 che mio padre aveva masterizzato da suo fratello, avrebbe dovuto attrarre la mia attenzione.

(S)Fortuna vuole che nella suddetta tracklist venisse esattamente dopo uno dei brani più conosciuti e famosi dei Pink Floyd, uno che un chitarrista alle prime armi non può ignorare e che deve obbligatoriamente imparare nota per nota: Wish You Were Here (la canzone perfetta per far cantare chiunque in spiaggia, come ben saprete se mi conoscete).

Di conseguenza, ogni volta, dopo Wish you Were Here, partiva questo brano, Jugband Blues; diverso, realmente psichedelico, strano, dissonante, ostico. Un brano che probabilmente avrei ignorato all’epoca si fosse trovato in un’altra posizione dato il sonoro chiaramente antico, lo-fi, che poco può andare incontro ai gusti di un ragazzino abituato a scintillanti produzioni degli anni novanta.

Eppure mi sarei perso una lucida descrizione della follia, in musica e parole.

Perchè Jugband Blues, in realtà, non è un brano dei Pink Floyd. Certo, ci suonano sopra tutti i membri originari, Mason alla batteria, Waters al basso, Wright alle tastiere. Ma il pezzo non è loro, nemmeno li senti in realtà, non ci badi. Jugband Blues è una testimonianza, direttamente da dove le testimonianze non le aspetteremmo più. Jugband Blues è solo di Syd.

Un Look molto Dark Wave, con quindici anni d’anticipo
Syd Barrett, la mente, la lunga mano psichedelica dietro i Pink Floyd, gruppo che si è fregiato di questa etichetta per tutti gli anni '70 quando in realtà si erano ormai avviati sul binario del progressive rock senza virtuosismi. Perché la vera psichedelia, quella dei club londinesi sul finire anni '60, delle jam esoteriche e rumoristiche, lontane dai sapori blues e jazz che altri gruppi a loro coevi e anch’essi britannici come Cream e Yardbirds, era il marchio di Syd Barrett. Delle sue composizioni allucinatorie e allucinanti, del caos primordiale e totale, dell’avanguardia dietro alle stranezze o peculiarità di composizioni che di “composto” nel senso classico del termine avevano giusto questa etichetta vuota.

Syd Barrett, l’anima più influente ed inquieta dei primi Pink Floyd (e sì che aveva un altro come Waters come comprimario), che è durata solo un album e una canzone, prima di sprofondare nella psicosi e nell’isolamento, nella schizofrenia che avrebbe lasciato la sua musica muta. Due anni di permanenza nel gruppo, prima che il suo ruolo fosse ridotto a poco meno che un peso ed un intralcio, fino a che i suoi compagni di gruppo evitarono un giorno, mentre andavano a Southampton di passarlo a prendere per un concerto “Let’s just not bother” disse qualcuno nella macchina guidata da Waters.

L’alienazione e separazione dalla realtà che lo circondava, dai concerti che era portato a condurre, dove le sue stranezze nella dimensione live non venivano neanche capite dagli spettatori, abituati a considerare le sue idiosincrasie sul palco, il suo vagare tra gli strumenti, suonare fuori tempo, non suonare del tutto, come parte integrante delle performance dei Pink Floyd

Una spirale di psicosi e autodistruzione, che era tratto del suo genio. Un album intero, dominato da lui, The Piper at the Gates of Dawn, dove gli altri Floyd sembrano poco più che accessori.

E poi, ancora una sola canzone, Jugband Blues. E poi il nulla.

Jugband Blues è l’ultimo brano di A Saucerful of Secrets, l’unico album dove compaiono tutti e 5 i membri dei Pink Floyd insieme. David Gilmour, amico d’infanzia di Barrett, era stato arruolato inizialmente per coprire i buchi live di Barrett, e nelle registrazioni del secondo album dei Pink Floyd comincia a contribuire alle composizioni del gruppo. Forse, non casualmente, il contributo di Gilmour è nella suite che porta il titolo dell’album, 12 minuti di psichedelia e avantgarde in netto contrasto con le composizioni più brevi e improvvisate di Piper, 12 minuti di un tipo di musica che avrebbe dominato la produzione dei Floyd dal capolavoro Atom Heart Mother in poi.

Jugband Blues è l’ultimo brano. L’unico composto da Barrett. Unicamente da lui. Perché è un testamento musicale. Il suo commiato.

Il brano è diviso nettamente in tre parti, segnate da bruschi cambi di mood, melodia, se tale si può definire, e tempo, dapprima un 3 quarti, per poi utilizzare un due quarti e un quattro quarti nella fase finale. Ma quello che vi è di importante in questo brano non è la semplice struttura musicale, ne le sole note o la melodia, assente.

Jugband Blues è il lucido racconto di Barrett dal pozzo della sua follia. In Jugband Blues Barrett riesce a rappresentare la sua psicosi, la perdita di contatto con la realtà, con gli altri membri del gruppo, con se stesso e con la sua stessa musica.

L’inizio, la prima sezione, musicalmente potrebbe sembrare in principio come un tipico brano Barrettiano dei tempi di Piper; la sua voce, malinconicamente un po’ stonata e una chitarra acustica secca e dal suono quasi corrotto. La linea vocale che segue il basso di Waters, che pulsa sulla divisione delle sillabe. Sembra una marcetta, ma la cosa importante qui, più che come le parole vengono cantate, sono quello che dicono.

Barrett si scusa, è quasi in imbarazzo che gli altri pensino che lui sia qui presente, a cantare questo brano. E si sente obbligato in realtà a chiarire come lui non sia affatto qui.

La sua è una mente nel delirio, un paradosso cantato, una ammissione di colpa e di scusa verso il mondo che non lo comprende più, e che non è più da lui compreso.

La marcetta continua, in un mood quasi ansiogeno, cresce, cresce di velocità, cresce di intensità; Barrett si meraviglia della Luna, che sia così grande, così blu, una luna che avrebbe influenzato i Floyd in futuro, anche senza di lui. Corpi astronomici e astrali che Barrett aveva già cantato in uno dei brani più rappresentativi dei primi Floyd, Astronomy Domine (e nello strumentale Interstellar Overdrive). In un momento ironico, ferocemente sarcastico, ringrazia i suoi ormai quasi ex-compagni di gruppo per aver gettato via le sue vecchie scarpe e averlo portato qui. Le crescenti psicosi di Barrett sarebbero in maniera considerevole anche state istigate dalla crescente fama del complesso britannico, una dimensione entro la quale Syd non avrebbe più potuto trovare modo di recuperare se stesso. E gli altri membri, amici di infanzia, cresciuti suonando gli stessi blues, non erano riusciti a salvarlo, abbandonandolo al suo stesso delirio.

Delirio che crea il preludio per la seconda parte del brano; Barrett si chiede chi possa essere nello stato mentale per poter cantare questa sua stessa canzone. Una ironia atroce, specchio della sua assenza di controllo su se stesso, una resa di se stessi. Il brano prende l’andamento di un jingle infantile, un coro altalenante, che attesta nelle sue parole che in fondo niente importi al riguardo, che il suo destino psichico è, in ultima istanza, solo privato, incomunicabile. Tanti anni dopo, il tema dell’alienazione, dell’incomunicabilità, delle barriere che separano i soggetti, sarebbe stato dietro alla narrazione di The Wall e The Division Bell, un turno per uno, prima Waters, poi Gilmour.

Non importa se Barrett non si fa capire, arriverà l’inverno, e con esso, forse un po’ di pace.

Ma sono ora le note a prendere il testimone della narrazione. Inizia a suonare una banda, che elabora la marcetta che aveva introdotto la seconda sezione. Questa è la Salvation Army, portata da Barrett ai De Lane Lea Studios, e da lui istruita a suonare senza un tema definito, senza uno spartito. Il caos, il vortice che scappa in direzioni opposte e contraddittorie; non è nemmeno più psichedelia, è narrare ciò che non può essere narrato, qualcosa di completamente separato, slegato da una coesione o un senso interno.

Nel caos della marching band, la voce di Barrett canta un motivetto mononota, monocorde, lalalalala, che come un incubo sonoro, viene e va dal canale sinistro a quello destro del mixaggio, la rapsodia dei momenti senza filo conduttore, il mondo privato del signor Barrett. Un eco ossessionante, che prosegue anche dopo che la banda smette di suonare qualcosa di vagamente coerente. Arriva l’incubo vero; i rumori degli strumenti, colonna sonora di un film dell’orrore stile anni '20, un rumorismo quasi comico, da barzelletta, mentre la marching band riprende possesso di qualche motivetto, abbozzato, qua e là, senza che vi sia più un senso da ricercare.

E infine, qualcuno toglie il disco dal piatto, come un incubo che finisce, il risveglio dal coma, il primo respiro dopo una infinita serie di delusioni e paranoie.

E fragile, abbozzata, tenue, una chitarra acustica. Suonata quasi a-ritmicamente, solo pennate giù, un solo accordo. Il contrasto con il caos e il nonsenso appena sopito. E la voce di Barrett, che ricomincia a cantare, nel suo ultimo momento di lucidità, di autodiagnosi, di commiato. Cosa gli resta se non chiedersi cosa sia esattamente un sogno, perché il limite, il confine tra ciò che è realmente esperito e ciò che è solo un sogno malato di un sistema nervoso senza più coerenza e coesione è labile, scompare veloce come prima era presente. La follia lascia solo qualche improvviso, immediate, fugace momento di comprensione. E alla fine, Barrett si chiede, in fondo, in cosa esattamente differisca tutto ciò da uno scherzo, uno scherzo giocato dalla sua stessa mente, il soggetto che inganna il soggetto stesso. Il soggetto che non è più soggetto.

Il finale appena descritto è una delle cose più spiazzanti registrate su disco nella musica rock, nel suo sarcasmo, nella sua espressività paranoide, lunatica. Nient’altro che un addio, conquistato tra le onde dell’incomunicabilità e della distanza. Di solito si cantano gli addii dopo che sono compiuti, o sono altri protagonisti a cantarli per altre storie; nella forza di questa composizione troviamo invece un testamento, le ultime parole, un lascito. Quasi come leggere una suicide note, negli ultimi momenti di lucidità concessi; non morirà nessuno, eppure qualcuno ci ha lasciati.

I manager dei Pink Floyd dell’epoca, all’uscita definitiva di Barrett dal gruppo, considerandolo, a ragione, la vera forza creativa dei Floyd sciolsero il contratto che li legava al complesso; ma non ci sarebbe stata una carriera a cui volgersi ancora. Dopo un paio di album prodotti dagli altri membri dei Floyd, “Madcap Laughs” e “Barrett”, collezioni di registrazioni abbozzate, outtakes e niente di più che canzoni forzosamente tenute insieme, Barrett si sarebbe ritirato, tra Londra e la casa della Madre nel Norfolk, una vita da eremita, lontano da quel mondo che lo aveva abbracciato e rifiutato, attratto e condannato.

Presenza inquietante, ingombrante, nella storia dei Floyd, così ingombrante che su ogni album dagli anni '70 in poi troverà in qualche modo luogo un confronto impersonale, tra i Pink Floyd e il loro creatore e primo timoniere. Nonostante nessuno ne sapesse più nulla, nonostante non fosse più possibile dopo un po’ tenere anche solo contatti di circostanza. Fino a quando un giorno del 1974, alle sessioni ad Abbey Road di Wish You Were Here, si presentò un uomo calvo e sovrappeso, che nessuno riconobbe.

Echi Ossessionanti
I Floyd stavano ultimando le registrazioni della magnificente suite Shine on You Crazy Diamond, e il Crazy Diamond era proprio lui. Syd. Il cui commento sul brano fu semplicemente “suona un po’ di vecchio”.
Ma non era solo quel brano a essergli dedicato, tutto l’album Wish you Were Here è composto come dedica più esplicita a quell’ingombrante passato di follia e paranoia che aveva fondato i Pink Floyd. Dedica che Waters non si dimentico di reiterare, nel concerto di reunion del 2005 al Live Aid. Decenni dopo la sua discesa nell’eremo e nella dimenticanza. Un solo anno prima che Syd morisse.

E ovviamente non è un caso che nella raccolta Echoes, Jugband Blues venisse dopo Wish You Were Here. Il collegamento tra gli anni e la musica, che fortuitamente mi fece scoprire un brano che altrimenti temo avrei ignorato ancora a lungo.

Arriverà il tempo di parlare più approfonditamente di un brano dei Pink Floyd, proprio ora che sta per uscire un ultimo loro album, una ultima loro testimonianza. Questo era Syd Barrett


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