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30/10/2014

Brasile: perché il Dilma-bis è una vittoria agrodolce

I primi sconfitti di questa tornata elettorale in Brasile sono i sondaggi. Dopo essere stata indicata come una solida contender per la rielezione di Dilma, addirittura in vantaggio al secondo turno, la candidata del Partito Socialista Marina Silva al momento della verità ha visto “sgonfiarsi” le sue percentuali fino ad un modesto 21%, pressappoco lo stesso risultato ottenuto 4 anni fa con il Partito Verde. Il peso politico personale della leader “ambientalista” è stato notevolmente ridimensionato. Non solo nei voti (degli unici due stati conquistati al primo turno solo il “natio” Acre ha votato per Neves, mentre il Pernambuco è “scivolato” verso il Partito dei Lavoratori, PT) ma soprattutto nell’appiattimento sul programma del PSB, il partito che l’aveva “adottata” come candidata vice-presidente prima della morte del suo leader, Eduardo Campos. I mezzi di comunicazione europei e nord-americani ne hanno diffuso l’immagine “ufficiale” imbastita dai media locali: la Silva sarebbe stata indipendente dal programma del Partito Socialista, sensibile ai temi ambientali e per la “nuova politica”. Ha finito invece per rimanere schiacciata proprio da questo nuovo profilo che le è stato ricamato addosso: nonostante una parte del suo elettorato fosse di estrazione povera e/o ambientalista, una sinistra delusa dalle politiche del PT, la Silva ha rapidamente espresso il suo appoggio a Neves in vista del secondo turno. Dopo aver condotto una campagna tutta incentrata sul malgoverno di Dilma infatti, la Silva, inaspettatamente esclusa dal ballottaggio, ha visto lo spazio politico della “terza via” azzerarsi, e nella più classica delle confrontazioni PT-PSDB ha scelto il centro-destra.

Il secondo sconfitto è il potente apparato mediatico, che si è agevolmente riadattato allo schema classico delle elezioni brasiliane schierandosi compattamente con Aecio Neves e il Partito Social Democratico (PSDB), suo naturale rappresentante. Inseritosi a sorpresa fra le due iconiche leader femminili con il 33% al primo turno, approfittando di un Partito dei Lavoratori “distratto” a contenere l’avanzata di Marina Silva, Neves aveva goduto dell’endorsement implicito ed esplicito di tutti i maggiori mezzi di comunicazione già dalle ultime settimane precedenti al primo turno. L’opposizione- i grandi gruppi economici, le banche, il centro finanziario di San Paolo- si era infatti resa conto della lenta ma inesorabile discesa della Silva, e aveva ripreso a scommettere su Neves. Dopo il sorprendente recupero manifestatosi nelle urne il 5 ottobre scorso l’aperto sostegno alla sua candidatura si è poi rafforzato: si prospettava la prima reale occasione di spodestare il PT da dodici anni a questa parte. Che ce l’abbiano messa tutta, arrivando ad un soffio dal riuscirci, è testimoniato anche dalla particolare forma di “colpi di cannone” con cui la comunità finanziaria ha salutato la rielezione di Dilma: la borsa di San Paolo ha aperto in perdita del 6%, il Real perdeva il 3,9% sul dollaro, Petrobras il 12% e Elettrobras l’11,5%.

Non è quindi un caso se la più combattuta campagna elettorale degli ultimi anni in Brasile ha visto l’ultima settimana dominata dalle minacce di querele incrociate tra la presidenta Dilma e il quotidiano “Veja”, di centrodestra. Il nodo del contendere era la pubblicazione di un reportage incentrato sui casi di corruzione della Petrobras, la petrolifera nazionale, che hanno costituito il tema centrale della propaganda oppositrice, nonché’ volano per la proposta della “nuova politica” della Silva, determinata a rompere l’egemonia del PT. La novità è che stavolta “Veja” prometteva di portare alla luce fatti che avrebbero dimostrato la complicità negli illeciti dell’ex presidente Lula e della successora Dilma, finora mai dimostrata, nonché’ di finanziamenti al PT provenienti proprio da Petrobras. Il governo ha ricorso al Tribunale Superiore Elettorale cercando di bloccarne la diffusione, senza successo.

La polemica sul ruolo dei media nell’influenzare l’opinione pubblica ha infuriato per tutto l’ultimo periodo elettorale: da una parte le accuse alla presidenta e al PT di occupare la gran parte degli spazi televisivi gratuiti, in forza dei suoi numeri in parlamento, dall’altra quelle di killeraggio mediatico verso membri del governo. A poche ore dal termine del secondo turno il presidente del tribunale elettorale José Dias Toffol ha richiamato alla calma, augurandosi una “pacificazione” tra le parti. Sullo sfondo rimane la proposta, ventilata ma non formalizzata, di approvare una legge sui mezzi di comunicazione sul modello argentino, che regoli il mercato delle concessioni televisive e radiofoniche, oltre che la carta stampata, limitando lo strapotere dei trust mediatici.

Il terzo maggior sconfitto sarebbe proprio Neves, che fino all’ultimo ha sperato in una possibile vittoria. Nonostante il distacco di 3 milioni di voti (su un elettorato di 142 milioni di votanti, di cui il 21%, 30 milioni, si è astenuto, la percentuale più alta nella storia del Brasile democratico) però, la sua può essere considerata una sconfitta a metà. Solo un mese fa l’opposizione storica brasiliana era considerata fuori dai giochi, esclusa da un duello a due fra la Silva e la Rousseff in cui l’ortodosso neoliberismo del PSDB non trovava spazio. Neves è invece riuscito nell’impresa di un recupero tutt’altro che scontato, costringendo la presidenta ad un ballottaggio le cui sorti erano tanto in bilico che per molti giorni i sondaggi vedevano i due candidati in parità tecnica. I movimenti di flussi elettorali in atto potrebbero, se cavalcati bene, spingere l’opposizione a cementarsi e ad affrontare le prossime elezioni da una posizione di forza che il PT potrebbe non essere più in grado di contrastare.

L’Analisi- Non c’è solo il Presidente

I veri problemi per l’oficialismo iniziano però quando si guarda aldilà della corsa presidenziale, ai deputati e senatori eletti dagli schieramenti. Nel 2010-2014 il PT aveva goduto di una maggioranza parlamentare del 70% sia alla camera che al senato, grazie all’alleanza con il Partito del Movimento Democratico Brasiliano (PMDB) e altri partiti minori, un dominio che gli garantiva la maggioranza qualificata necessaria per le leggi costituzionali ed organiche, ed impediva all’opposizione di creare le Commissioni Parlamentari di Ricerca (CPIs), usate per fare ostruzionismo. Pur subendo perdite in ognuno dei suoi nove componenti (-18.6% per il PT), l’alleanza di governo mantiene la maggioranza sia alla camera (304 deputati su 513) che al senato (53 senatori su 81). Con la differenza però che il Partito Socialista non è più un alleato, e Marina Silva schiererà i suoi 33 deputati (più 16 di partiti alleati) con l’opposizione. Se questi numeri, noti fin dal primo turno, gettano una luce ambigua sulle reali velleità di governo di Neves, il quale avrebbe avuto l’onere di domare un parlamento nettamente spostato dalla parte dei suoi oppositori, indicano comunque un sostanziale indebolimento della coalizione vincitrice e, al suo interno, della posizione del PT. Che risulterà, come molti commentatori hanno sottolineato, più dipendente dalla sua alleanza con il PMDB e altri partiti di centro o centro-destra. Gli stessi che, secondo i sostenitori di Neves, avrebbero potuto in caso di vittoria essere “catturati” nell’orbita del candidato del PSDB, a causa del notevole peso che riveste l’esecutivo nel sistema politico brasiliano.

Nonostante il Partito dei Lavoratori rimanga la prima forza politica del paese, il condizionamento di questi partiti potrebbe “frenare” notevolmente l’attuazione delle parti più progressiste dell’agenda di governo, anche grazie ad una maggioranza parlamentare nel complesso più risicata rispetto a quella conquistata nel 2010.

Questo timore viene confermato anche dalle elezioni per i governatori di Stato, in cui, nonostante la coalizione di governo abbia fatto man bassa (19 su 27, 5 al PSDB, 3 al PSB), il sostegno per Dilma ha scricchiolato.

I sistemi di alleanze, infatti, differiscono a livello locale e nazionale in tal misura da produrre posizionamenti politici imprevedibili.

Mentre il governatore del Paraiba, Ricardo Coutinho del PSB, si è pronunciato per Dilma, sulla base dell’alleanza locale con il PT, i governatori dell’alleato nazionale PMDB Jose Ivo Sartori e Paulo Hartung si sono schierati con Neves. Persino il governatore del Partito Comunista Flavio Dino- assieme a Jose Melo e Suely Campos, sempre di partiti alleati al PT- si sono dichiarati “neutrali” nella corsa alla presidenza. Nonostante fra i 13 governatori eletti al primo turno ce ne fossero solo 3 appartenenti a partiti dell’opposizione a Dilma, il suo avversario Aecio Neves ha raccolto l’appoggio di ben 9 di questi.

Unica nota positiva l’aver “strappato” al PSDB il Minas Gerais, lo Stato dove Neves ha ricoperto il ruolo di governatore per due mandati. Assieme allo Stato di Rio de Janeiro, mantenuto dagli alleati del PMDB, il Minas Gerais è uno dei più popolati e importanti a livello economico, e consente al PT di avere un risultato da contrapporre alla nettissima ri-affermazione del PSDB nello stato di San Paolo, il centro economico del paese.

In ogni caso l’aspetto che forse più dovrebbe preoccupare la presidenta Dilma durante il prossimo mandato è la netta divisione territoriale del paese che il voto presidenziale ha ricreato. Con la sola eccezione dello stato settentrionale di Roraima, dove ha vinto Neves, si potrebbe infatti tracciare una linea obliqua che va dall’amazzonia a Rio de Janeiro e colorarla coi colori del PT a nord e dell’opposizione a sud, e non si sbaglierebbe sui pronostici.

Il contrasto è ancora più evidente se si confrontano le percentuali raggiunte dai due candidati in alcuni stati, come il 64% di Neves nello Stato di San Paolo, il 61% di Parana o il 64% di Santa Catarina con il 78% conquistato da Dilma nel Maranao e nel Piaui, il 76% di Ceara o il 70% di Pernambuco e di Baia. Una fortissima polarizzazione geografica in cui il più povero e isolato nord e la parte centro-orientale del paese hanno votato Dilma, mentre il centro-ovest e il sud, più sviluppati, Neves. Il Partito dei Lavoratori si è garantito altri 4 anni alla guida del paese, in quello che sarà il quarto mandato dalla prima vittoria di Lula nel 2002, ma questo progressivo scollamento delle parti più ricche del paese, “autonomizzatesi” di fatto dall’egemonia oficialista, dovrebbe preoccuparne non poco la leadership. Dilma nel frattempo ha ringraziato e promesso “dialogo” e “cambiamento”, mentre il piano A del PT rimane sempre lo stesso: recuperare un po’ dello spirito del “Lulismo” perso per strada, in attesa che l’ex presidente possa ricandidarsi in prima persona nelle presidenziali del 2019.

Il futuro del continente- L’inizio della fine di un ciclo?

La fotografia dello stato di cose in Brasile può dare utili indicazioni per una diagnosi del continente. Con la sola eccezione boliviana, dove Morales è stato riconfermato al primo turno con il 60% dei voti, e che dimostra che il paese andino si trova in una fase politica relativamente distinta, il ciclo progressista sta subendo ovunque un forte rallentamento, forse una brusca frenata.

Oltre al Brasile infatti, in cui il PT ha ottenuto le percentuali più basse del 2002, in Uruguay il Frente Amplio è in affanno, e nonostante la probabile vittoria al secondo turno perderà la maggioranza parlamentare. In Argentina ad un anno dalle elezioni la forte popolarità di Cristina Kirchner non ha al momento un candidato ideale su cui proiettarsi, e quasi tutti gli analisti concordano nel prevedere una svolta a destra, qualunque sia il nuovo presidente. Da aggiungere al quadro anche, coi dovuti distinguo, la risicata vittoria di Maduro nell’Aprile dello scorso anno in Venezuela, con appena il 50.66% delle preferenze.

Da una parte si osserva una tendenza ad una divaricazione tra i processi politici di stampo progressista in corso nei paesi andini (Bolivia, Ecuador) e in Venezuela e quelli meridionali, (Brasile, Uruguay, Argentina, in minor misura il Cile) in termini di tenuta politica dell’oficialismo ma anche di coinvolgimento democratico dei movimenti sociali e della radicalità delle trasformazioni in atto.

Dall’altra si può ipotizzare che stiano venendo a galla i primi risultati politico-elettorali della monumentale opera di modificazione sociale in atto in tutto il continente: l’ingrandimento della classe media latinoamericana. Nonostante la differenza di vedute sulla natura e l’efficacia dei programmi sociali attuati nel blocco di paesi progressisti del continente, infatti, rimane il dato innegabile di un aumento storico della popolazione che può essere considerata ceto medio. In Brasile, come in Argentina, la congiuntura economica e le riforme del governo hanno permesso la dinamizzazione di una struttura sociale ingessata in una divisione in classi fortemente diseguale, con una borghesia piccola (dipendente dall’estero e legata alle materie prime) e una vastissima classe lavoratrice senza diritti.

La “nuova classe media” ha sostenuto in tutti questi anni l’oficialismo progressista ma, secondo molti analisti, questo supporto starebbe cominciando a venir meno. E, complice un rallentamento dell’economia (tenue in Brasile, più accentuato in Argentina) si starebbe orientando verso i partiti di centrodestra, che promettono di mettere fine ai programmi sociali, di proseguire l’integrazione economica del continente rispolverando il neoliberismo più ortodosso e la vecchia via maestra indicata da Washington.

Le proteste di massa cominciate nel giugno 2013 in Brasile sono il segno di una rottura evidente di quella che era l’egemonia assoluta del PT e del sindacato sulla classe media. Ma sono anche, se viste in un contesto più ampio e non prese da sole, parte di quel malcontento generale che ha risvegliato non solo la protesta dei sindacati, degli insegnanti e dei movimenti sociali, ma anche della popolazione delle favelas militarizzate dalla polizia, portandola in strada e perfino nelle nuove cattedrali del consumo figlie del “boom” economico brasiliano, con i “rolezinhos”.

Una situazione complessa in cui un settore dell’elettorato preme per ridimensionare la parte “sociale” del modello PT mantenendo i piani di sviluppo economico, mentre un altro, le decine di milioni di poveri che rimangono nel paese, ma anche la classe media più “progressista”, perché sia invece l’economia ad essere messo in discussione in maniera più radicale, e perché il partito non perda l’afflato socialistico che lo ha portato al potere nel 2002 dopo decenni di opposizione.

Sullo sfondo rimane infatti la questione del modello economico, che da Caracas a Buenos Aires fatica ad uscire da una logica “sviluppista” e di “riprimarizzazione” dell’economia, utile per i programmi di redistribuzione ma insostenibile a lungo termine, anche se con importanti eccezioni. I settori sociali più svantaggiati e le “sinistre deluse” temono di rimanere con in mano il classico “pugno di mosche” alla prossima crisi economica o in caso di crollo verticale dei prezzi delle esportazioni, senza che il ciclo di relativa prosperità trascorso abbia prodotto le profonde modificazioni sociali ed economiche necessarie.

A fomentare lo scontento verso il Partito dei Lavoratori ci sono poi i grandi gruppi economici che dopo essere stati tutelati in tutti i modi dall’oficialismo ora vogliono di più e sentono di poterselo prendere. Non importa che, come ha dichiarato Lula qualche anno fa “Le banche non hanno mai fatto tanti soldi quanto durante il mio governo”.

O forse si, a breve il PT si troverà a decidere da quale parte stare.

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