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25/09/2014

USA, i censori della Casa bianca

di Michele Paris

Secondo un interessante articolo pubblicato questa settimana dal Washington Post, i membri dell’ufficio stampa della Casa Bianca starebbero da qualche tempo filtrando in maniera più severa del solito le notizie prodotte quotidianamente dai corrispondenti dei media americani che seguono l’attività giornaliera del presidente Obama. Agli eventi pubblici o semi-pubblici a cui partecipa quest’ultimo assiste solitamente solo un gruppo ristretto di giornalisti (“press-pool”), scelti tra quelli che si occupano regolarmente dell’inquilino della Casa Bianca. Ciò accade per evitare che una folla di reporter si presenti puntualmente alle apparizioni del presidente, creando una serie di problemi logistici.

Il gruppo, i cui componenti sono scelti periodicamente e a rotazione, gode di un accesso relativamente privilegiato al presidente e i resoconti degli eventi che ne scaturiscono vengono poi diffusi al resto dello stampa americana che ne può usufruire a piacimento.

Prima di raggiungere tutti i giornalisti interessati, tuttavia, gli articoli realizzati dai membri di turno del “press-pool” vengono inviati all’ufficio stampa della Casa Bianca, da dove sono inoltrati - dopo attenta lettura - ai destinatari che fanno parte di un database di migliaia di indirizzi e-mail.

Se già questa pratica può essere considerata normale solo per gli standard dei media “mainstream”, essa solleva anche un ulteriore interrogativo, visto che la Casa Bianca in varie occasioni ha chiesto, e quasi sempre ottenuto, modifiche agli articoli ricevuti riguardanti il presidente, ovviamente per ottenere una copertura più favorevole.

Il pezzo del Washington Post si basa sulle testimonianze preoccupate di alcuni giornalisti che lavorano alla Casa Bianca, anche se viene sottolineato come le richieste di cambiare il contenuto di determinati passaggi degli articoli abbiano quasi sempre a che fare, almeno finora, con questioni apparentemente di secondaria importanza.

Un certo allarme tra la stampa, anche solo per il fatto che questi interventi abbiano luogo, è comunque già diffuso, come conferma la richiesta fatta all’amministrazione dall’Associazione dei Corrispondenti dalla Casa Bianca per rivedere l’approccio verso i resoconti dei giornalisti.

Gli episodi citati dal Post sono molteplici. Ad esempio, la corrispondente dalla Casa Bianca per l’agenzia di stampa McClatchy, Anita Kumar, lo scorso anno aveva realizzato un articolo sulla registrazione dell’apparizione di Obama nel programma televisivo della NBC, “The Tonight Show”. Come di consueto, la giornalista lo aveva recapitato all’ufficio stampa della Casa Bianca, da dove però le era stato comunicato che il pezzo doveva essere ridotto, poiché nella forma originale risultava troppo lungo e violava quindi gli accordi presi con la produzione del programma per limitare la diffusione del contenuto dell’intervista del presidente prima della messa in onda.

Un altro caso è quello accaduto a Todd Gillman del Dallas Morning News, il quale aveva riportato in un suo articolo una scena accaduta a bordo dell’aereo presidenziale nel 2012. A un certo punto durante il volo, Obama aveva raggiunto la sezione del velivolo riservata alla stampa per consegnare un dolce con una candelina a un giornalista che sarebbe andato in pensione di lì a poco. Obama, nel pieno della campagna elettorale per la rielezione, aveva poi invitato il festeggiato a spegnere la candelina e a esprimere un desiderio, aggiungendo che esso avrebbe dovuto “preferibilmente avere a che fare con il numero 270”, in riferimento al numero minimo di collegi elettorali necessari per vincere le elezioni presidenziali americane.

Il particolare, ritenuto del tutto innocuo dal giornalista del quotidiano del Texas, secondo la Casa Bianca avrebbe dovuto essere rimosso. Gillman si era impuntato, rivolgendosi direttamente all’allora primo portavoce di Obama, Jay Carney, il quale aveva alla fine dato il via libera alla distribuzione del pezzo, avvenuta però solo quando la scadenza fissata dal resto dei giornalisti era passata da tempo.

Decisamente di maggior peso è stato invece l’intervento che ha riguardato David Nakamura del Washington Post nel 2011. Il vice di Carney, Josh Earnest, aveva in questo caso ripreso il giornalista per avere accostato la decisione di Obama di limitare l’accesso dei fotografi agli eventi a cui avrebbe partecipato durante il viaggio allora in corso in Asia a un discorso di appena due giorni prima nel quale aveva celebrato pubblicamente la libertà di stampa.

La doppia ironia dell’intervento censoreo del futuro primo portavoce di Obama aveva probabilmente scosso il reporter del Post, spingendolo a protestare in maniera accesa, sia pure senza successo.

I rapporti tra il centro del potere negli Stati Uniti e la stampa “mainstream” raccontati dal Washington Post invitano a considerazioni di un certo rilievo. Ancor prima della vera e propria censura operata dalla Casa Bianca, è estremamente significativo e tutt’altro che rassicurante che le notizie relative al presidente vengano inviate all’ufficio stampa di Obama e solo successivamente diffuse al resto dei giornalisti per la pubblicazione.

Questo sistema a dir poco discutibile risulta al contrario perfettamente plausibile per tutti i media ufficiali, in primo luogo perché questi ultimi operano in larga misura come organi di propaganda del governo americano, le cui posizioni vengono accettate e diffuse quasi sempre senza critiche sostanziali.

In un simile scenario appare tutto sommato poco sorprendente che la Casa Bianca filtri i pezzi ricevuti dai corrispondenti che coprono l’attvità del presidente e, quando lo ritenga necessario, chieda di rettificare determinati passaggi sgraditi.

Il fatto che le testimonianze riportate questa settimana dal Washington Post si riferiscano spesso a dettagli considerati trascurabili non cambia la sostanza della questione. Se l’ufficio stampa di Obama non ha bisogno di intervenire in maniera pesante sugli articoli dei reporter del “press-pool” è dovuto infatti all’autocensura di fatto praticata dalla stampa ufficiale americana, incapace di svolgere un ruolo autenticamente critico nei confronti del potere, proprio quando ce ne sarebbe più bisogno, perché espressione in larghissima parte degli stessi grandi interessi economico-finanziari che rappresentano il punto di riferimento unico della classe politica d’oltreoceano.

Nella routine dell’attività giornalistica che ruota attorno al presidente degli Stati Uniti, i censori della Casa Bianca non hanno dunque da preoccuparsi troppo, anche se il loro occhio vigile non manca di posarsi su particolari che possono apparire di secondaria importanza.
In tal caso, il giornalista di turno viene richiamato all’ordine, sia per evitare che qualsiasi dettaglio anche lontanamente lesivo dell’immagine di un presidente già impopolare possa filtrare all’esterno, sia soprattutto per lanciare un messaggio benevolmente intimidatorio a coloro che potrebbero manifestare qualche inclinazione vagamente critica sulle questioni sostanziali del sistema di potere negli USA.

Il rapporto tra stampa e potere in questo paese era stato d’altra parte già messo clamorosamente in evidenza poche settimane fa, quando una rivelazione della testata on-line The Intercept, co-diretta da Glenn Greenwald, aveva descritto come svariati giornalisti americani si consultino in maniera regolare con la CIA prima di pubblicare i loro pezzi rigurdanti le questioni della sicurezza nazionale.

Fonte

Lo chiamano il paese delle libertà poi mettono il veto anche su cazzate come un dolcetto con la candelina sopra. Madonna che nazione farlocca.

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