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24/09/2014

ISIS: come se ne esce?

Appurato che il piano Obama non si mantiene né in piedi, né seduto, né sdraiato e che, seppure avrà un inizio, è destinato al fallimento, ne deriva che qui corriamo rischi anche peggiori se la situazione si incancrenisce. Dobbiamo realisticamente prendere atto che con l’Isis non esistono possibilità di trattativa, perché semplicemente non c’è un interlocutore disposto a trattare. D’altro canto, la persistenza del cosiddetto “Califfato” rischia di destabilizzare l’intera area e non per dar vita a regimi più democratici e tolleranti, come poteva esser tre anni fa per la primavera araba, ma, al contrario per alimentare tutte le spinte fondamentaliste verso la guerra santa. Il che può portare ad esiti molto più gravi di quello che potrebbe essere un intervento militare oggi.

Per cui, l’Isis va semplicemente tolto di mezzo: il problema è come. Dato per scontato che l’intervento militare è inevitabile, c’è da stabilire chi e come deve farlo, ma, soprattutto, se puntare la totalità (o la maggior parte) delle speranze sull’aspetto militare o scegliere una strada diversa, che riduca al minimo il ricorso alle armi.

Il piano Obama è sulla prima strada e si propone una guerra “per procura” alla “coalizione di prima linea”, armata e supportata dalla coalizione arabo-sunnita ed occidentale con la copertura aerea americana. Di tutte le soluzioni, la peggiore: sanguinosa, lenta e di incertissimo esito. Se va fatto il frontale militare, va fatto di urto e con tutta l’energia che la situazione richiede. Salvo poi ritrovarsi lo stesso con il problema di un Medio Oriente totalmente destabilizzato e con tutti i problemi aperti (d’accordo!) ma, almeno, avremmo tolto di mezzo il cancro dell’Isis prima che cresca troppo.

L’altra strada è quella di una complessa ed articolata manovra politica che, pur non escludendo affatto il piano militare, lo circoscrive all’indispensabile. Occorre partite dalla constatazione che una alleanza reale si fa cominciando dal “dopo”, la semplice avversione all’Isis non basta: se vogliamo mettere insieme curdi, sciiti e sunniti di Iraq, bisogna decidere prima che si fa dell’Iraq: mantenere lo stato unitario? Con che garanzie per tutti? Scinderlo in tre stati indipendenti o, magari, federati con vincoli molto deboli? In questo caso il nodo maggiore è quello del petrolio: i pozzi sono tutti o in zona curda, intorno a Kirkuk o sciita intorno a Bassora. I sunniti hanno ben poco, per cui occorrerebbe garantire una parte della rendita petrolifera anche ai sunniti per ottenerne l’assenso (o cedendo parte dei territori petroliferi o costituendo una società ad hoc suddivisa in quote percentuali concordate, garantendo la partecipazione sunnita).

Questo si collega strettamente ad un’altra questione, quella del recupero della componente baatista che venne liquidata dagli americani con la decisione di sciogliere il Baat e quella ancor peggiore di sciogliere l’esercito iraqueno nel novembre 2003, con il risultato di fornire alla resistenza i quadri militari di cui aveva bisogno. Il successo dell’Isis è stato fortemente favorito dall'alleanza con i baatisi che si sentivano (non del tutto a torto) discriminati nel nuovo assetto istituzionale iraqueno a vantaggio soprattutto degli sciiti. Per di più, questa è stata una delle componenti militari di maggior peso nella resistenza contro l’occupazione americana ed oggi è quella che regge l’apparato amministrativo del Califfato.

Per la verità, la convivenza fra Isis e baatisti non è esattamente idilliaca e uno diffida dell’altro, per cui la fessura che separa gli uni dagli altri è lo spazio in cui infilare la lama: separare i sunniti dagli jhiadisti sarebbe la prima grave sconfitta politica di questi ultimi, compromettendone decisamente sia la capacità fiscale che quella militare. E questo già ridimensionerebbe l’entità dello sforzo militare.

Ma per ottenere questo risultato, occorre reintegrare la componente baatista nel sistema, senza di che non sarà mai possibile normalizzare l’Iraq o quel che ne residuerà. Nel frattempo, naturalmente, occorre fermare l’espansione del Califfato e qui va bene l’azione della “coalizione di prima linea” con il supporto aereo americano. Ma per andare avanti occorre altro.

In primo luogo, è necessario, se non risolvere, almeno attenuare l’acerrima rivalità fra Iran da un lato ed Arabia Saudita e Quatar dall’altro, raggiungendo uno status che riporti entro limiti accettabili il contrasto fra i due maggiori paesi dell’area del Golfo.

C’è poi da sciogliere il nodo curdo, mediando fra le aspirazioni curde all’indipendenza ed i timori turchi. Così come c’è da decidere che si fa in Siria: se si vuole l’appoggio dei siriani alawiti, e, pertanto, dell’Iran e della Russia, occorre “digerire” Assad, al massimo cercando di ottenere garanzie per l’opposizione “moderata”.

E, magari, in tutto questo, avviare seriamente a conclusione il conflitto israelo-palestinese che è una ferita sempre aperta: e si illude Israele se pensa di avere un tempo infinito per chiudere la partita. Di tempo ne ha molto meno di quel che suppone, dopo di che la situazione diverrà sempre meno favorevole.

Ma, soprattutto, l’operazione ha possibilità di riuscita se a cooperare c’è l’altra grande potenza interessata all’area: la Russia. Senza Mosca o, peggio, contro Mosca, il quadro non si compone. E questo significa chiudere al più presto lo sciagurato contenzioso ucraino, accettando la costituzione della Novorossiya e garantendo l’indipendenza di Kiev, chiudendo così la questione. D’altro canto, la Crimea è andata e non si sente l’esigenza di nuovi corridoi di Danzica, l’Europa in crisi non è in grado di reggere l’urto dei rincari petroliferi dovuto all’effetto congiunto della guerra in Iraq e delle sanzioni contro Mosca. E gli Usa non sono in grado di reggere un doppio impegno militare in Iraq ed in Ucraina. Quindi, tanto vale prendere realisticamente atto della situazione e mettere mano ad un vasto piano di riordino, almeno momentaneo, dell’area giovandosi dell’appoggio russo.

Beninteso: non si tratterebbe di una pace di Westfalia in chiave mediorientale, ma più semplicemente di una prima intesa di emergenza per limare i principali contrasti e rendere possibili le operazioni militari congiunte necessarie.

Questo isolerebbe l’Isis e, di conseguenza, richiederebbe uno sforzo militare più contenuto e magari affidato ad una forza multinazionale delle Nazioni Unite che, se non altro, avrebbe il merito di annacquare i troppi motivi d’attrito fra sunniti, sciiti, curdi, iraniani, siriani, turchi ecc. rendendo più praticabili le operazioni di guerra. E, magari, questo potrebbe richiedere un prezzo di sangue minore, molto minore di quello di un brutale intervento militare esterno, senza alcuna mediazione politica precedente. O di quello che, peggio ancora, richiederebbe lo stillicidio del Piano Obama che, dopo una lunga scia di sangue, ci lascerebbe al punto di prima, con la conseguenza di uno scontro ancora più feroce.

Fonte

Un'analisi molto pragmatica, ma al momento (e non solo) difficilmente praticabile.
A margine, credo vada comunque ammesso che nessuno si sarebbe mai atteso una linea di politica esterna tanto deleteria da parte di Obama, soprattutto dopo 8 anni di Bush jr.

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