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30/08/2014

Perché gli americani non intervengono in Iraq?

Ovvero: quale è la strategia di Obama per il Medio Oriente? Questo potrebbe essere l’articolo più breve della storia di questo blog e concludersi in tre parole: “non c’è” (lo dice anche la BBC!). So che la cosa susciterà un coro di disapprovazione da parte di quanti (e non sono pochi) sono convinti che dietro ogni evento piccolo o grande sulla scena internazionale ci sia un malefico e diabolico piano del “grande Satana americano”. Non amo affatto gli Usa ed ho un giudizio abbastanza preciso del ruolo che giocano in questo momento storico, ma, il fatto è che anche il peggiore e più grande avversario può trovarsi a corto di idee e non sapere bene cosa fare.

Partiamo da una idea: il sogno del “Nuovo grande secolo americano” che ipotizzava un durevole ordine mondiale monopolare, è entrato definitivamente in crisi a cavallo fra il 2008 ed il 2010. In primo luogo, la violenta crisi finanziaria del 2007-8 ha azzoppato l’Impero (a proposito: checché ne dica Negri, l’Impero non è un’astrazione iperuranica, sono gli Usa, punto e basta) rivelandone la grande fragilità economica. E questo si è sommato alla non confessata ma evidentissima sconfitta subita in Iraq ed Afghanistan. E’ evidente a tutti il bilancio fallimentare delle campagne di Bush e gli Usa si ritirano con le pive nel sacco dopo aver speso un fracasso di dollari.

Anche sul piano dell’immagine il risultato è catastrofico: la sconfinata potenza americana, con la sua sofisticatissima tecnologia, con i suoi droni ed i suoi satelliti, con i suoi apparati di intercettazione e le sue armi di ultimissima generazione è stato piegato dalla guerriglia della solita banda di straccioni, come era successo ai francesi a Dien Bien phu ed in Algeria, ai Russi in Afghanistan ed agli stessi americani in Vietnam. E non pare che la lezione avuta dai vietcong sia stata molto capita: le guerriglie sono una brutta rogna da grattare e prima di impelagarvicisi è bene pensarci venti volte.

Pertanto, il bilancio è un disastro sotto ogni profilo. Per di più la Russia, nonostante tutti i suoi problemi, si è ripresa prima del previsto e Cina ed India sono cresciute molto più in fretta di quanto pensse la Cia in un suo ormai dimenticati rapporti dei primi anni duemila.

Dunque, l’ordine monopolare ormai è un obiettivo impraticabile. Però questo non significa che gli Usa rinuncino ai propri piani di egemonia mondiale: non più Impero assoluto, ma unica superpotenza con raggio di azione mondiale, in un contesto di grandi potenze regionali con le quali convivere ma sulle quali prevalere. Per così dire: da maggioranza assoluta a maggioranza relativa.

Tutto questo impone in primo luogo di non fare altri passi falsi. Un’altra guerra sbagliata avrebbe conseguenze definitive: dissesto economico, caduta irrimediabile d’immagine, demoralizzazione dei militari e dell’opinione pubblica interna, moltiplicazione ingovernabile delle sfide alle altre grandi potenze ed anche di altri soggetti minori… Altro che unica super potenza: potrebbe essere l’imbocco di un declino inarrestabile.

C’è chi (come “Il Foglio”) è convinto che questo dipenda da un eccesso di irresolutezza, se non di viltà, di Obama, mentre un più virile repubblicano come Reagan avrebbe già fatto sfracelli. E’ solo un modo di consolarsi: prima di far mettere piede a terra ad un solo soldato, l’amministrazione americana ci penserà a lungo e questo anche se ci fossero i repubblicani. D’altra parte, come scrive lo stesso “Foglio” (24 giugno 2014) “gli americani non vogliono sentir parlare di Medio Oriente” e c’è persino qualcuno che inizia a chiedersi “E se avessimo lasciato Saddam al suo posto?”. Obama è al punto più basso della sua popolarità, ma non per questo, i problemi sono altri: l’occupazione, i consumi, l’impoverimento della classe media.

A queste considerazioni di ordine generale, se ne sommano altre più legate al momento contingente: la Casa Bianca è più interessata a quel che accade in Ucraina ed alla partita strategica con Russia e Cina che teme si alleino, ma che sta inesorabilmente spingendo una nelle braccia dell’altra. E nella partita occorre tenere saldamente l’Europa dalla propria parte, compresi i poco affidabili tedeschi, che di mollare Mosca non sembrano entusiasti. Dunque, le urgenze strategiche sono altre e non appare salubre andarsi ad impeciare uno scacchiere che non è più centrale come dieci anni fa.

Infine ci sono le considerazioni legate alla questione in particolare: scendere a terra, abbiamo detto, è l’ipotesi più respinta di tutte e una guerra con i soli i droni non si vince. Dunque, la soluzione migliore sarebbe quella di una “guerra per procura” lasciando scannarsi i Curdi, i Siriani, gli Iraqueni e magari gli Iraniani con gli uomini dell’Isis. Ma, se questo comportasse una intesa, anche solo tacita con gli iraniani, questo significherebbe andare a sbattere contro Sauditi ed Israeliani, se invece si puntasse troppo decisamente su Curdi e Siriani ad infuriarsi sarebbero i Turchi. La soluzione potrebbe essere, allora, quella di aizzare la guerra per procura, ma senza impegnarsi con nessuno, restando alla finestra: ma anche questo è più facile a dirsi che a farsi.

Un completo disimpegno costerebbe agli Usa la perdita di ogni influenza nella regione: quando Kerry è andato in Arabia ed ha chiesto esplicitamente al principe saudita Bandar bin Sultan di bloccare i finanziamenti da Arabia e Qatar, Bin Sultan ha risposto che Washington non è più credibile, dopo aver minacciato una guerra in caso di uso dei gas chimici in Siria e aver poi fatto marcia indietro.

Il riferimento è alla crisi di un anno fa, quando i bombardieri sembravano lì lì per partire, ma quando poi Putin disse che, forse, la Siria avrebbe consegnato spontaneamente le armi chimiche, gli americani presero un fugone che li stanno ancora inseguendo.

Beninteso, se Obama avesse dato seguito alla sua minaccia, avrebbe fatto una madornale sciocchezza, ma avrebbe dovuto pensarci prima di lanciare l’annuncio che stava per far partire i suoi aerei. Fare annunci del genere e tornare indietro è sempre un disastro. E infatti oggi Obama, fattosi molto più prudente, dice che sradicare lo stato califfale “sarà molto difficile”. A buon intenditor…

Poi, fra gli americani, ci sono anche quelli che fanno valutazioni diverse sull’opportunità di far nascere il Califfato per schiacciare meglio i fondamentalisti, come leggiamo sempre sul “Foglio” (18 giugno 2014 p. 1. A proposito: visto quante belle notizie si beccano sul “Foglio”? Lasciando da parte le tirate ideologiche e le valutazioni politiche su cui, quasi sempre, mi capita di non essere d’accordo, vi garantisco che di notizie utili che non si leggono altrove ve ne sono una bella quantità) la dichiarazione di Franz Gayle, consulente del dipartimento politica dei Marines Usa: “Accettiamo il desiderio dei jihadisti di creare uno stato islamico. E’ proprio per questo tipo di aggressori irriducibili e concentrati che abbiamo sviluppato il concetto di air power. Terribile? Si. Necessario? Assolutamente. Lo stesso calcolo spietato fu applicato anche durante la seconda guerra mondiale”.

Non si può dire che, a questo allievo di Giulio Dohuet manchi il senso pratico! Dunque: “facciamogli fare il loro stato e poi schiacciamoli tutti insieme come scarabei imbottendoli di bombe”.

Un calcolo però rischioso, perché se il Califfato mette radici poi cambia tutta la geografia della zona e non è detto che la si risolva con l’“air power”. Ma, una cosa, per ora, pare sicura: che l’intervento americano è possibile ma decisamente improbabile e che, quindi, la partita con l’Isis sarà lunga e complicata.

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