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25/08/2014

Gli USA e il dilemma dell’Isis

di Michele Paris

I più recenti massacri settari registrati in varie località dell’Iraq stanno minacciando seriamente la strategia americana nel paese mediorientale per contenere l’avanzata dei militanti dello Stato Islamico (ISIS) e sottrarre il governo di Baghdad all’influenza iraniana. Il complicarsi della situazione ha visto inoltre l’amministrazione Obama minacciare un possibile allargamento delle operazioni militari in corso in Iraq alla Siria, dove l’ISIS continua ad operare, sia pure tra molti dubbi sull’atteggiamento da tenere nei confronti del regime di Bashar al-Assad.

Due esplosioni nel fine settimana a Baghdad e nella città settentrionale di Kirkuk hanno fatto più di 40 morti e sono seguite al gravissimo attentato di venerdì in una moschea sunnita nella provincia di Diyala con una settantina di vittime. Quest’ultima operazione, la cui responsabilità non risulta ancora chiara, è stata da molti attribuita a membri di milizie sciite, provocando ripercussioni politiche nella capitale.

Poche ore dopo l’esplosione, cioè, alcuni leader sunniti hanno annunciato il boicottaggio delle trattative per la formazione del nuovo governo del primo ministro incaricato, Haider al-Abadi. Il nuovo capo del governo sciita in pectore aveva sostituito Nouri Kamal al-Maliki dopo le pressioni soprattutto statunitensi e il suo compito dovrebbe essere quello di raccogliere il consenso della minoranza sunnita, così da sottrarre il supporto popolare alla ribellione anti-governativa che aveva favorito l’avanzata dell’ISIS.

Le nuove violenze rischiano però di gettare ancor più l’Iraq nel baratro dello scontro settario che era esploso in particolare tra il 2006 e il 2007 durante l’occupazione americana.

Il delinearsi del nuovo scenario nel paese che fu di Saddam Hussein si è accompagnato anche ad un innalzamento dei toni negli Stati Uniti che fa intravedere un ulteriore allargamento del conflitto in Medio Oriente.

La campagna retorica orchestrata a Washington per favorire un possibile aumento dell’impegno militare americano era stata inaugurata giovedì scorso dal numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, il quale aveva descritto l’ISIS come una “minaccia imminente” per gli interessi del suo paese.

Le dichiarazioni del segretario alla Difesa sono state seguite il giorno successivo da quelle del vice consigliere per la Sicurezza Nazionale, Ben Rhodes, per il quale atti come la decapitazione del giornalista americano James Foley rappresenterebbero attacchi diretti contro gli Stati Uniti, tali da giustificare ritorsioni che non possono essere limitate dai confini dei singoli paesi.

Lo stesso capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, aveva a sua volta rivelato come il Pentagono stia valutando l’ipotesi di un conflitto più ampio contro i militanti islamisti dell’ISIS, la cui eventuale sconfitta dovrebbe appunto passare attraverso un’operazione militare americana diretta contro “la parte della loro organizzazione in territorio siriano”.

Le modalità di un simile nuovo impegno degli Stati Uniti sono però oggetto di un acceso dibattito a Washington. L’amministrazione Obama continua infatti ad essere molto cauta nei confronti di un intervento diretto in Siria contro un’organizzazione fondamentalista che appare a tutti gli effetti una creatura stessa della propria strategia mediorientale.

Se fonti governative hanno parlato apertamente di un possibile utilizzo di droni o addirittura dell’invio di squadre delle Forze Speciali in Siria, altri ritengono che ciò debba essere evitato e che si debba piuttosto puntare sulla creazione di una sorta di coalizione di paesi mediorientali alleati degli USA - alcuni dei quali sono stati peraltro finanziatori dell’ISIS - o sull’ennesima operazione di rilancio delle cosiddette forze “moderate” di dubbia esistenza all’interno dell’opposizione siriana, se non sulla fornitura di armi ai curdi siriani.

Dal momento che l’ISIS rappresenta la principale forza anti-regime in Siria, incursioni americane in quest’ultimo paese potrebbero risolversi in un favore per Assad. Ciò ha inevitabilmente prodotto un acceso dibattito a Washington sull’opportunità di un intervento di questo genere e sui suoi obiettivi finali, soprattutto alla luce dell’inconsistenza dell’opposizione “secolare”, ancora più impopolare del regime, che in questi anni media e governi occidentali hanno cercato di promuovere senza successo.

Per molti all’interno dell’establishment statunitense la battaglia contro l’ISIS dovrebbe procedere in parallelo con lo sforzo in corso per la deposizione di Assad, mentre altri ritengono che Washington debba mettere finalmente da parte l’avversione per Damasco e coordinare in maniera più o meno aperta con il regime alauita la lotta ai terroristi sunniti.

Questa seconda ipotesi è sembrata essere supportata nei giorni scorsi almeno da due media arabi, i quali hanno riportato una qualche collaborazione - peraltro non confermata - tra gli USA e il governo siriano, con l’intelligence americana che avrebbe fornito informazioni alle forze di Assad per colpire con bombardamenti aerei le postazioni dell’ISIS in Siria.

Una simile evoluzione della vicenda siriana segnerebbe l’ennesima contorsione di una politica estera statunitense completamente destituita da ogni logica. Infatti, dopo avere fomentato una rivolta settaria per abbattere il regime di Damasco con la creazione di formazioni integraliste violente come l’ISIS, l’amministrazione Obama potrebbe ora rivolgere la propria potenza di fuoco e quella dei suoi alleati contro quest’ultima in Siria, finendo per garantire la sopravvivenza dell’odiato regime di Bashar al-Assad.

Fonte

Gli Stati Uniti sono diventati bravissimi a dividere, ma hanno perso smalto nell'imperare.

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