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31/08/2014

Organigramma segreto del califfato jihadista che sfida il mondo


Una forza militare che sembra incontenibile, dall’Iraq alla Siria. Ovest, Rutba e Trebli, confine con Giordania e Siria. Centro Ovest, regione di Al Anbar per proseguire in Siria. Est, un ramo verso Tikrit, nel Nord a Mosul, e l’altro fino a Kirkuk. E tutta la zona del confine turco verso Aleppo.

Il Califfato segreto, le sue forze e le sue debolezze

Potenza militare. Le aree conquistate in meno di un anno dall’Islamic State, dall’Iraq alla Siria, almeno per ora.
Nell’Ovest, con epicentro a Rutba e diramazioni a Trebli, al confine con la Giordania, e a Waleed, al confine con la Siria.
Centro Ovest, con l’intera regione di Al Anbar e il controllo delle città di Dora, 120 km da Baghdad, Fallujia, Ramadi, Ana, Qaim, per proseguire in Siria verso le città di Al Omar, Tanak, Deir al-Zour e Raqqa e tutta la zona del confine turco fino a 70 km da Aleppo.
Est, la terza direttrice di attacco che parte da Dora, circonda a distanza di 150 km la capitale e si divide in due rami: uno verso Tikrit e Bajil, procedendo nel Nord a Mosul, Mount Siniar e De Kark sul confine siriano, l’altro verso il Nord Est iracheno fino a Kirkuk.

Nascita e gerarchia del Califfato. Al momento solo per la cronaca lasciando da parte la storia. La formazione jiadista Isis si elegge a Califfato a giugno 2014. Califfo autoproclamato, Ibrahim Awad Ibrahim al-Badri, alias Abu Bakr al Baghdadi e si proclama Islamic State, IS.
C’è il Califfo, e sotto di lui una strutturata a piramide.
Dal Califfo dipendono il Consiglio della Sharia, che vigila sull’applicazione del Corano ed è guidato da Abu Baker, Osman al Nazeh al-Asiri e Turki al- Ben Alì.
La Shura, simile a un Governo, gestisce l’amministrazione attraverso Ministri fra i quali Abu Suleiman al-Naser, per la guerra, Hazem Abudul Razzaq al-Zawi, per l’Interno, e Abu Safwan Rifai, per la sicurezza.
Il Consiglio Militare, guidato da Abu Ayman al-Iraqi e Abu Ahman al-Alwani.
Il Capo militare, Omar al-Shishani, responsabile del Nord della Siria, e il Comandante Regionale, Abu Wahib, per la regione di Al-Anbar.
Un apparato mediatico composto da: portavoce, Abu Mohamed al-Adani; predicatore, Abdullah al-Janabi; settore per media e internet, con squadre di specialisti.

Perché le vittorie militari. Elementi combinati a favorire le vittorie sul terreno.
Primo elemento, i generosi aiuti in armamento, logistica e finanziamenti dai Paesi del Golfo, ostili agli sciiti che hanno conquistato il potere in Iraq rafforzando Iran, Siria ed Hezb’ Allah.
Secondo, la debolezza dai Paesi avversari, Siria e Iraq, il primo stremato da oltre 3 anni di guerra civile con quasi 200 mila morti e 9 milioni tra rifugiati all’estero e sfollati, e il secondo distrutto dalle tre guerre contro Iran, Kuwait e USA.
Terzo elemento, le forze dei circa 15 mila combattenti, con armamento pesante, sottratto durante le battaglie contro gli Eserciti governativi di Siria e Iraq.
Anche se alcuni segnali in direzione opposta sembrano indicare una caduta di favore e sostegno popolare inizialmente conquistato da IS.

Primi segni di dissenso. All’autorevolezza, sembrerebbe essere subentrato l’autoritarismo con il corollario di emarginazioni, punizioni pubbliche e pratiche difficilmente riconducibili alla religione anche nei confronti della popolazione non combattente.
L’appello per l’unità della “umma”- l’insieme dei musulmani - e l’invito all’obbedienza al Califfo per ricostruire quanto aveva realizzato il Profeta sono contraddetti dall’emarginazione inflitta da IS ai gruppi confluiti nel movimento.
Che succede?

I fedelissimi di Saddam. IS deve molte sue vittorie - soprattutto quella di Mosul - all’appoggio militare e logistico ricevuto dall’Ordine Naqshabandi guidato da Ibrahim al-Douri, già vice Presidente con Saddam Hussein e suo fedele amico dall’infanzia, baathista nazionalista, eccellente stratega e combattente, attivo dal 2003 a Diyala, Salah ed-Din e Ninawa, e da sempre acerrimo nemico di curdi e sciiti.
Al-Douri è tuttora con Baghdadi ma non ne riceve ordini anche perché gode di grande carisma in seno a sunniti, baathisti e Naqshabandia, questa religione sincretica che coniuga sufismo e Corano con grande pragmatismo finalizzando ogni scelta a un ritorno positivo.

L’anatema saudita? Verso la fine agosto, il Muftì del regno saudita, Abd al-Aziz al-Sheikh, definisce l’estremismo e il terrorismo di IS e Al Qaeda “il nemico numero uno dell’Islam” per cui quelle formazioni non possono essere considerate interne all’Islam.
Poco prima il Consiglio dei Ministri sauditi aveva auspicato l’imposizione di sanzioni internazionali a IS e al Fronte al-Nusra, che opera come braccio amato di Al Qaeda in Siria.
Nel documento si ricorda che diversi cittadini dei Paesi del Golfo sono stati inseriti nella lista nera dei finanziatori del terrorismo da parte del Consiglio di Sicurezza ONU e che un ‘regio decreto’ prevede condanne fino a 20 anni di carcere per chiunque prenda parte ad azioni violente anche fuori dal territorio nazionale o appartenga a movimenti estremisti.
Rientra in questa nuova posizione saudita la donazione di 100 milioni di dollari al Centro Antiterrorismo delle Nazioni Unite.
Segni dell’evidente preoccupazione che IS e formazioni analoghe possano sconfinare nel Regno.

Al Quaeda e frammenti. Per le altre organizzazioni combattenti, è nota la distanza di Al-Nusra da IS e gli scontri seguiti all’intervento del leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri che espulse Baghdadi alla fine del 2013.
La posizione dei principali altri gruppi.
Ansar al-Islam, di matrice salafita, attivo dal 2001 nel Kurdistan Iracheno, ha avuto rapporti con i qaedisti dell’Islamic State of Iraq, poi con ISIS. Ma dall’arrivo di Baghdadi nel 2010 si limita ad azioni di supporto al Nord.
Il Consiglio Generale Militare dei Rivoluzionari formato all’inizio del 2014 da milizie tribali sunnite e militari a tutela della popolazione sunnita ad Al Anbar, Diyala, salah ed-Din, Mosul, Baghdad e Abu Ghraib, non avrebbe rapporti con IS.
L’Esercito dei Mujahideen, formato da sunniti, ha operato con analoghe formazioni armate ma mai con Al Qaeda e non avrebbe contatti con IS.
L’Esercito Islamico, formato all’inizio della guerra del 2003 da ufficiali baathisti, presente nella capitale e ad Al Anbar, privilegia la lotta agli sciiti e ha l’obiettivo di formare uno Stato confederale. Non ha contatti con IS.
Fra le organizzazioni di matrice qaedista che hanno aderito a IS, nel 2012 Boko Haram nigeriano, e nel luglio di quest’anno AQAP, yemenita.

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L'Italia alla guida della politica estera europea.... nel momento peggiore


La nuova responsabile della politica estera dell'Unione Europea è l'attuale ministro degli esteri italiana Federica Mogherini, 41 anni, formatasi nei giovani dei DS e poi nel Pd, che va a sostituire l'algidissima baronessa britannica Ashton: la conferma ufficiale è arrivata dal vertice dei capi di Stato e di governo in corso a Bruxelles.

Il presidente del ConsiglioEuropeo uscente, Van Rompuy che sarà sostituito dal polacco Donald Tusk, ha presentato la Mogherini come “nuovo volto dell'Europa”.

La Mogherini, che ancora ricordiamo quando voleva imporre la presenza di Fassino alle manifestazioni contro la guerra in Iraq, ha risposto alle critiche di inesperienza che le sono piovute da alcune testate come Financial Times e Le Monde. “Ho 41 anni, non sono giovanissima, ma l'età non si può cambiare. Quello che mi dà conforto è che il premier Renzi è più giovane di me, altri ministri europei lo sono, c'è una nuova generazione di leader europei e questo è molto positivo”.

Forse è bene ricordare che cosa significhi oggi fare l’Alto rappresentate per la Politica Estera e di Sicurezza dell'Unione Europea. Con il Trattato di Lisbona, l’Alto rappresentante ha la responsabilità quasi esclusiva per la gestione delle politiche e azioni nel campo delle relazioni internazionali, della sicurezza e anche della difesa dell’Ue. Presiede in modo continuativo, per cinque anni, il Consiglio affari esteri: il che significa che ne gestisce l’agenda, propone iniziative, individua le priorità.

Ha poi a disposizione l'intero apparato del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae) composto oggi da oltre 3mila unità (ma in crescita fino al limite di 6/7 mila) provenienti dai ministeri nazionali, dalla Commissione e dal Consiglio.

L'Alto rappresentante si occupa direttamente anche dell’Eda, l’Agenzia per la Difesa Europea, nucleo cruciale per il coordinamento fra le diverse difese nazionali nel campo strategico e industriale. Ha infine il comando delle missioni civili e militari dell’Ue nelle varie aree di crisi. E infine, per completare il quadro, è anche vicepresidente della Commissione con il compito di assicurare la coerenza fra la politica estera in senso stretto e le altre politiche esterne dell’Ue.

La prima verifica che attende la Mogherini è indubbiamente la crisi e il conflitto in Ucraina dentro il quale l'Ue si sta infilando sempre più pericolosamente. E se l'Unione Europea farà le scelte sbagliate in direzione dell'escalation, questa volta non ce la potremo prendere con i tecnocrati di Bruxelles ma con un dirigente che ha frequentato le riunioni del movimento per la pace, le manifestazioni dei Social Forum e quant'altro, fino a diventare parte dell'establishment o di averne cercato di rappresentarne gli interessi già dentro i movimenti pacifisti e il Social Forum Europeo e Mondiale. Tra l'altro lo scambio tra il via libera alla nomina della Mogherini con la nomina del polacco Tusk, oltranzista antirusso, alla presidenza del Consiglio europeo, non lascia affatto ben sperare. Al contrario.

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Giro di polka nell'Unione Europea, Mogherini lady Pesc


Volti nuovi al vertice dell'Unione Europea? Non proprio. Le nomine del polacco Donald Tusk a presidente del Consiglio europeo (in sostituzione di Hermann von Rompuy) e dell'italiana Federica Mogherini a “alto rappresentante per gli affari esteri”, ovvero "lady Pesc" (al posto dell'uscente Catherine Ashton) sono l'ultimo tassello del ridisegno delle istituzioni continentali dopo le elezioni di maggio. E sono il frutto di un equilibrio conflittuale degno del “manuale Cencelli” di democristiana memoria.

Se occupare una di queste poltrone fosse il segno di un potere reale, anziché la "garanzia" di interessi potenzialmente divergenti, le scelte sarebbero state assolutamente diverse. Il neopresidente polacco è infatti il frutto del (necessario) equilibrio tra centralità decisionale tedesca (l'economia di Varsavia è totalmente “contoterzista” di quella di Berlino) e l'esigenza britannica di esser ancora un membro influente pur marcando progressivamente le distanze dall'Unione Europea.

L'italiana Mogherini – dietro i gridolini di facciata per “una giovane donna” a capo della diplomazia continentale – è una altrettanto solida risultante tra interessi tedesco-europei e statunitensi, a quotidiano rischio di lacerazione davanti all'escalation anti-russa imposta dagli Stati Uniti sulla crisi ucraina. La parte centrale del suo curriculum, infatti, non consiste tanto nei sei mesi passati da ministro degli esteri italiano, quanto nell'essere da anni membro dello IAI (Istituto Affari Internazionali) e contemporaneamente del Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti; nonché fellow del German Marshall Fund for the United States.

Nessuno, d'altro canto, può davvero immaginare che la politica estera della Ue possa esser “decisa” al di fuori di questo equilibrio. E non c'è alcuna contraddizione tra il fatto che l'Italia sia un paese governato dalla Troika da tre anni (dall'inizio del governo Monti, seguito da altri due esecutivi mai eletti da nessuno) e che possa “esprimere” candidati a poltrone di prestigio. Il personale che va a occuparle, al di là delle condizioni o della forza relativa del paese da cui proviene, è infatti politicamente “apolide”. O meglio: personale “comunitario” selezionato dall'alto e in altri "centri di formazione", non “proposto” dal singolo paese. Anni di protagonismo del portoghese Barroso, per esempio, dovrebbe aver chiarito a iosa questa realtà.

Renzi, naturalmente, si appunta la medaglietta Mogherini, anche per nascondere le bastonate che cominciano ad arrivargli sul piano economico. Che persino Repubblica – e in particolare Tito Boeri – abbiano spernacchiato il suo decreto “sblocca-Italia” come fuffa senza conseguenze sulla “crescita” segnala infatti la montante insofferenza del potere reale per questo governo tutto annunci e pochi fatti.

Detto più chiaramente: nello scenario che abbiamo davanti queste nomine non cambiano assolutamente nulla.

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Sono già due le opinioni relative all'affare Mogherini che chiudono il discorso alla stessa maniera.

L’esercito di Kiev in difficoltà, le milizie popolari avanzano

Non stupisce che la Gran Bretagna stia per annunciare l’invio di 10 mila soldati della Nato a Kiev e che l’Unione Europea sia in procinto di varare nuove sanzioni nei confronti della Russia.

Nonostante tutti gli sforzi, il dispiegamento di ingenti mezzi militari e la netta superiorità numerica il lancio all’inizio della settimana di una controffensiva delle milizie popolari sul Mar d’Azov ha messo le forze di Kiev in difficoltà e quello che era un assedio dell’esercito ucraino a Donetsk e Lugansk è diventato, in alcuni casi, un accerchiamento delle truppe regolari o della Guardia Nazionale da parte dei combattenti delle Repubbliche Popolari. E secondo quanto affermato dal primo ministro del governo insorto di Donetsk, Aleksandr Zakharcenko – sfuggito ieri ad un attentato - le milizie sono in procinto di lanciare una seconda offensiva nell’arco delle prossime 48 ore.

Negli ultimi giorni le milizie popolari hanno conquistato posizioni quasi ovunque, conquistando numerosi quartieri di Donetsk e Lugansk o cittadine e villaggi abbandonati dall’esercito in ritirata o occupati dopo aspri combattimenti. In molti casi gli insorti sono riusciti a impossessarsi di una gran quantità di armi, carri armati, blindati, lanciamissili, bombe e munizioni abbandonati dai soldati in ritirata o sequestrati a centinaia di militari e miliziani della Guardia Nazionale che si sono arresi dopo giorni di accerchiamento in alcune sacche, in particolare nella zona di Ilovaisk. Il ministro dell'Interno di Kiev Arsen Avakov ha trionfalmente annunciato che un gruppo di alcune decine di paramilitari e soldati regolari è riuscito a rompere l'accerchiamento e a unirsi al resto dell'esercito, ma molti restano circondati dal nemico e Semion Semioncenko, il comandante del battaglione 'Donbass', formato da volontari di estrema destra, ha precisato che è stato trovato un accordo con i ribelli affinché le forze governative circondate a Starobesheve, a poche decine di chilometri da Donetsk possano ritirarsi senza conseguenze, a patto però che abbandonino tutte le armi in loro possesso. L’accordo – era esattamente quanto aveva chiesto Putin due giorni fa rivolgendosi alle autorità della ‘Novorossija’ – sarebbe arrivato dopo che i battaglioni Azov e Donbass, nel tentativo di rompere l’accerchiamento nei pressi della località di Osykovo, hanno subito ingenti perdite di uomini e mezzi. Mentre scriviamo aspri combattimenti sono in corso sia alla periferia di Lugansk sia intorno all’aeroporto di Donetsk che, secondo notizie non ancora confermate, è stato riconquistato dalle milizie popolari.

Alcune ore fa il portavoce del Consiglio di sicurezza ucraino, Andriy Lysenko, ha ammesso di aver dato ai propri uomini l’ordine di ritirarsi da Ilovaisk per evitare altre perdite: "Stiamo lasciando questa città. Ora il nostro compito è di evacuare i nostri soldati con il minimo delle perdite possibili in modo da ricompattarci", ha spiegato Lysenko aggiungendo che anche alle truppe bloccate a Novosvitlisvsk e Khryashchuvate, sulla strada principale tra il confine russo e la seconda roccaforte ribelle, Luhansk, è stato dato ordine di ritirarsi.

Anche le dichiarazioni dell’estremista Dmitro Yarosh, a capo dei nazisti di ‘Praviy Sektor’, lasciano trasparire il capovolgimento di fronte nell’Ucraina Orientale, quando ammettono notevoli perdite subite dalle ‘forze speciali’ inquadrate nei battaglioni punitivi che operano a fianco dell’esercito regolare di Kiev. Yarosh imputa le ingenti perdite subite al "livello morale e psicologico basso, alla mancanza di disciplina tra i convocati" e al "panico nelle alte cariche di Kiev". "Durante l'ultima settimana di pesanti combattimenti vicino a Saur-Moghyla, Amvrosievka, Starobeshevo e nella dannata Ilovaisk abbiamo perso circa 30 camerati di "Pravy Sektor", arruolati nei battaglioni volontari Dnepr e Donbass” ha riferito Yarosh.

Anche l’uso dell’aviazione per bombardare gli insorti dall’alto e martellare le città ribelli non sembra mettere al riparo il regime di Kiev da quella che si profila come una relativa disfatta militare. Le milizie popolari hanno infatti riferito dell’abbattimento nelle ultime ore di ben 4 caccia ucraini centrati dai lanciamissili portatili: "Nella zona di Novokaterinovki, tramite l'uso dei MANPADS sono stati abbattuti due aerei ucraini Su-25. Inoltre, le milizie sono riuscite ad abbattere altri due Su-25 negli insediamenti di Vojkovo e Heirloom" riferiscono i comandi militari della Novorossija che parlano anche di alcuni elicotteri nemici centrati mentre lo stato maggiore ucraino aveva riconosciuto ieri l’abbattimento di un solo Su-25 il cui pilota si sarebbe salvato.

Intanto, all’alba di oggi, al posto di frontiera del valico di Nekhoteyevka, è avvenuto il primo scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina da quando è iniziata la guerra civile nel Donbass. Dieci paracadutisti russi catturati una settimana fa dai militari di Kiev lungo il confine tra i due paesi sono stati consegnati agli emissari di Mosca che in cambio ha rilasciato 63 soldati ucraini. I militari di Kiev erano stati arrestati mercoledì scorso quando avevano sconfinato in territorio russo per sfuggire ai combattimenti. 

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I nazi spagnoli come Alba Dorata e Casa Pound: occupato un edificio a Madrid

Mobilitazione antifascista ieri a Madrid, dove nei giorni scorsi un gruppo di estremisti di destra ha occupato un edificio nel quartiere di Tetuan ribattezzandolo “Hogar Social Madrid-Ramiro Ledesma”, dedicato a uno dei fondatori del movimento fascista spagnolo La Falange fucilato nel 1936 dai repubblicani.

Quasi mille persone sono scese in piazza ieri pomeriggio dietro uno striscione che recitava “Fuori i razzisti dal nostro quartiere”. Una marcia convocata contro il nuovo insediamento fascista di Calle Juan de Olias da dove il movimento di estrema destra intende allargare il suo controllo del territorio e la sua egemonia utilizzando la classica propaganda razzista e nazionalista che fa sempre più breccia in una società dove precarietà e disoccupazione sono ai massimi storici. Il gruppo che ha occupato l’edificio, legato al Movimento Sociale Repubblicano (MSR), ha dichiarato di voler utilizzare lo spazio per distribuire aiuti alimentari e medicinali alla gente povera del quartiere, ma solo a coloro che possono vantare sangue spagnolo e quindi escludendo la popolazione immigrata che però in quella zona di Madrid è molto numerosa. Un tentativo da parte dell’MSR di scimmiottare la propaganda xenofoba alla base della crescita di Alba Dorata in Grecia, paese che al pari della Spagna ha subito le drastiche imposizioni della troika e con le stesse tragiche conseguenze sociali.

La protesta è stata convocata da alcune associazioni degli abitanti del quartiere e vi hanno partecipato collettivi antifascisti e organizzazioni antirazziste di diverse parti della capitale. Anche se non si sono verificati scontri la tensione si è alzata quando il corteo è passato nella strada dove si trova lo ‘spazio sociale’ di destra. Dalle finestre dello stabile i fascisti, con la faccia coperta, hanno esposto una grande bandiera spagnola gridando slogan. Molti i manifestanti che a quel punto hanno gridato ‘torneremo senza la polizia’, in riferimento alla forte presenza di agenti in tenuta antisommossa schierati a protezione dell’occupazione di estrema destra davanti all’ingresso dell’edificio.
Intervistati da alcuni media, molti abitanti stranieri del quartiere hanno affermato di temere che dall’occupazione di estrema destra partano aggressioni contro di loro. Non è la prima volta che dalle sedi dell’estrema destra partono, con il favore della notte, vere e proprie ronde con l’obiettivo di aggredire cittadini stranieri. E’ quanto accade a Zaragoza, capoluogo dell’Aragona, dove un gruppo riconducibile all’MSR ha occupato un edificio ribattezzandolo “Hogar Social Zaragoza” annunciando l’avvio di un “intervento sociale patriottico”. Stesso scenario anche a Castellòn dove il movimento di estrema destra, sull’esempio dei neonazisti greci e prima ancora di CasaPound in Italia ha aperto il primo locale definito come una ‘occupazione patriottica anticonformista’. “I neonazisti stanno cominciando a mascherare la propria identità scimmiottando l’estetica e gli slogan dei movimenti sociali e popolari per guadagnare adepti e consensi” - hanno denunciato alla stampa gli organizzatori del corteo antifascista di Madrid – “nel tentativo di orientare la rabbia sociale generata dalla crisi e dall’austerità contro gli immigrati la cui presenza viene descritta come la causa della disoccupazione e della povertà che ora interessa molti cittadini spagnoli”. Per questo movimenti ‘innovatori’ dell’estrema destra iberica come España 2000 o appunto l’MSR utilizzano slogan contro gli sfratti o l’esclusione sociale piegandoli alla propria propaganda sciovinista e xenofoba.

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Washington rafforza l’accerchiamento militare della Russia


Poco prima che il Financial Times annunciasse ieri l’intenzione da parte del primo ministro britannico David Cameron di inviare 10 mila soldati in Ucraina contro la Russia, era stata l’amministrazione statunitense ad informare su un imminente rafforzamento del dispositivo militare di Washington e della Nato nell’Europa orientale e settentrionale. Stesso obiettivo: accerchiare Mosca.

Gli Stati Uniti invieranno presto un consistente numero di carri armati e di truppe in diversi paesi della cosiddetta “Nuova Europa” ha fatto sapere il Pentagono, secondo il quale l’aumento della presenza militare statunitense ai confini della Russia avrebbe l’obiettivo di rassicurare alcuni alleati della Nato che si sentono minacciati. Come se in ballo ci fosse una possibile invasione russa della Lettonia o della Polonia… quando in realtà è vero esattamente il contrario, cioè che è l’aggressiva ingerenza di Washington e Bruxelles in alcuni paesi confinanti con la Federazione Russa ad aver obbligato Mosca a delle brusche contromisure. E l’annuncio che la Nato invierà truppe a Kiev dopo aver foraggiato e sostenuto il colpo di stato di febbraio non allenterà certo la tensione.

Secondo la Casa Bianca – che ha già inviato migliaia di soldati, caccia e carri armati nei Paesi Baltici e nell’Europa dell’est nei mesi scorsi – il vertice dell’Alleanza Atlantica previsto per la prossima settimana in Galles “è il più importante dai tempi della guerra fredda”. Prima di andare in Galles Obama farà tappa in Estonia, al confine con la Russia. "Non lanceremo una guerra Usa-Russia" dice Obama che poi però parla della necessità del riarmo dell'Occidente "per difendere gli altri membri della Nato" con nuove basi a Est e truppe della Nato da piazzare addirittura sul territorio di Svezia e Finlandia, a lungo paesi neutrali nello scacchiere militare statunitense in Europa. Se ne parlerà al vertice dell’Alleanza Atlantica del 4 e 5 settembre, al quale Mosca non è stata invitata. La Casa Bianca e il segretario generale uscente, il danese Rasmussen, dovranno convincere alcuni partner europei – Italia, Francia e Spagna in primo luogo – ad accettare la realizzazione di nuove basi militari in Polonia e sul Baltico in cui spostare truppe di Washington finora stanziate in Inghilterra e a Berlino. Fin qui la Germania ha avuto una posizione non troppo benevola nei confronti delle pretese dell’asse Usa-Gb-Europa Orientale favorevoli alla militarizzazione del confine con la Federazione Russa. Berlino sa che una simile misura costringerebbe Mosca a fare altrettanto e l’economia tedesca ed europea già soffre le conseguenze della guerra economica e commerciale scatenata dall’occidente contro Putin dopo la dura reazione della Russia al golpe filoccidentale di Kiev. Inoltre, rafforzare la Nato nella sua versione ‘americana’ allontana il progetto del rafforzamento di un esercito europeo e di un complesso militare-industriale indipendente da Washington. Ma finora la Germania di Angela Merkel non si è certo sottratta allo scontro con Mosca e non è detto che questa volta si comporti diversamente. A salvare in parte la forma, è previsto che le nuove basi militari Usa e Nato ad est non siano descritte come ‘permanenti’ mentre il vertice gallese dell’Alleanza dovrebbe accelerare il processo di adesione dell’Ucraina e sancire un vasto piano per armare l’esercito di Kiev. E per quello che si sa il vertice di Newport della prossima settimana dovrebbe decidere l'apertura di cinque nuove basi militari in Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e anche Romania.

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23 agosto 1942: la battaglia di Stalingrado

L'offensiva nazista al Paese comunista più grande del mondo, l'Unione Sovietica, inizia il 22 giugno 1941, quando 5.500.000 soldati, 3.500 carri armati e 2.000 aerei intraprendono l'attacco: i fronti che vengono aperti sono tre, dal nord verso Leningrado, al centro verso Mosca e a sud verso Kiev e, più in là, Stalingrado e il Caucaso.
I primi mesi di guerra costituiscono per l'URSS una vera e propria disfatta: le truppe dell'Armata Rossa sono costrette a retrocedere su ogni fronte, e le perdite sono innumerevoli.
Il governo comunista dell'Unione Sovietica risponde organizzando un'offensiva senza precedenti, che verrà chiamata la "guerra popolare": centinaia di migliaia di civili, tra cui moltissime donne, intraprendono atti di resistenza e di sabotaggio, mettendo sempre più in difficoltà l'invasore tedesco.

Gli abitanti di Leningrado scavano centinaia di chilometri di trincee anticarro, riuscendo eroicamente a difendere la città dall'invasione per più di 900 giorni, mentre a Mosca Stalin organizza una parata militare nell'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, per ricordare al popolo la potenza militare dell'Armata Rossa: l'esercito dalla sfilata marcia direttamente al fronte.

Il fronte del sud è probabilmente il più importante della campagna di Russia tedesca, in quanto è proprio nel Caucaso, superato il Volga, che si trovano i più importanti giacimenti di petrolio, nonché le maggiori coltivazioni agricole di tutta l'URSS.
Per questo, con l'avvicinarsi dell'esercito occupante al fiume Volga, Stalin pubblica, il 27 luglio 1942, il decreto 227, che dice, tra l'altro: "Se non fermiamo la ritirata rimarremo senza pane, senza gasolio, senza metalli, senza materie prime, senza fabbriche né impianti, senza ferrovie. In conclusione: è ora di fermare la ritirata, non un passo indietro! Questa deve essere d'ora in poi la nostra parola d'ordine. Dobbiamo proteggere ogni punto forte, ogni metro di terra sovietica, irriducibilmente, fino all'ultima goccia di sangue. Dobbiamo aggrapparci ad ogni centimetro della nostra patria e difenderlo in qualsiasi modo. La nostra patria vive tempi difficili. Dobbiamo fermare, affrontare e distruggere il nemico, a qualsiasi costo. I tedeschi non sono così forti come dicono coloro che si son fatti prendere dal panico. Le loro forze si sono tese fino al limite. Fermare i loro colpi adesso significa assicurarci la vittoria in futuro."

Il 21 agosto 1942 le truppe tedesche conquistano il Don, e due giorni dopo, il 23 agosto, la sedicesima Panzer Division del generale Hans Hube irrompe improvvisamente sul Volga, bloccando gli accessi alla città di Stalingrado, iniziando l'assedio con un primo massiccio bombardamento a tappeto sulla città. Coloro che rimangono in città si dedicano totalmente al lavoro di difesa, tutte le fabbriche sono convertite alla produzione militare, e i carri armati vanno dalla linea di montaggio direttamente al fronte. Cujkov, generale messo a difesa di Stalingrado da Stalin stesso, comandante della 62° Armata, con i suoi soldati, difende strenuamente la città, facendo come proprio il motto "A Stalingrado il tempo è sangue".

Nei primi giorni di settembre non c'è più un solo edificio in piedi a Stalingrado, ma gli uomini dell'Armata Rossa, formate piccole unità di 6 o 9 effettivi, continuano a combattere strenuamente: l'ordine di Cujkov è di rimanere a non più di 50 metri, o alla distanza di un tiro di una bomba a mano, dal fronte nemico, in qualsiasi momento.

Alla strenua difesa di Stalingrado, così come a tutta la guerra nell'Unione Sovietica, partecipano centinaia di migliaia di donne, e la loro presenza è particolarmente sconcertate per i tedeschi: un ufficiale tedesco, in una lettera alla propria famiglia, scrive "È impossibile descrivere quello che sta succedendo qui. Ogni persona, a Stalingrado, che ha ancora la testa e le mani, uomo o donna, continua a lottare".

La difesa di Stalingrado dà i suoi frutti, l'occupante subisce perdite importanti e, con l'avvicinarsi dell'inverno comincia ad avere problemi di approvvigionamento; il 10 novembre 1942 l'Armata Rossa lancia il contrattacco con l'operazione Urano, una manovra a tenaglia per accerchiare il nemico.
Finalmente, il 2 febbraio 1943, gli ultimi nuclei tedeschi ancora di stanza a Stalingrado si arrendono.

La storica vittoria di Stalingrado, che ha coinvolto non solo le truppe dell'Armata Rossa, ma tutta la popolazione locale in uno strenuo combattimento casa per casa, aprendo la strada alla controffensiva militare, svela al mondo che la tanto osannata invincibilità tedesca non è altro che propaganda, e ridà ai popoli europei oppressi dalle dittature naziste e fasciste, a da una guerra che non avevano voluto, una reale speranza di libertà, pace e riscatto.

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Planet Hell


Svezia, migliaia contro comizio nazista: scontri e arresti


Di nuovo, in Svezia, scontri tra manifestanti antifascisti e polizia schierata a difesa di un gruppuscolo di estrema destra. Anche ieri una manifestazione convocata da diverse realtà della sinistra e del movimento antirazzista contro un comizio del ‘Partito degli Svedesi’ a Stoccolma è sfociata in duri scontri con i reparti antisommossa. Alla fine si sono contati tre feriti tra i manifestanti e quattro tra i poliziotti, anche se in realtà molti dei contestatori contusi non hanno fatto ricorso alle cure mediche. Sono state invece 17 le persone arrestate - la maggior parte con l'accusa di aver indossato delle maschere durante una manifestazione politica - secondo quanto ha detto il portavoce della polizia della capitale svedese Lars Bystrom.

Quando un centinaio di membri dell’organizzazione di ideologia neonazista si sono riuniti nei pressi della Royal Opera, nella capitale svedese, protetti dalla polizia, a poca distanza hanno trovato un folto presidio antifascista con la partecipazione di circa 10 mila persone.
Per tentare di rompere l’accerchiamento dei cordoni di agenti in tenuta antisommossa schierati anche con i cani per “impedire scontri tra le opposte fazioni” gli antifascisti, molti dei quali erano a volto coperto, hanno cominciato a lanciare uova, pietre e petardi contro i poliziotti. A quel punto sono partiti i lanci di lacrimogeni e le cariche alle quali una parte dei manifestanti ha resistito. Poco prima anche le campane di una vicina chiesa avevano suonato in segno di protesta contro il raduno dell’estrema destra e la protezione accordata ai neonazisti dalle autorità.


Già sabato scorso un’altra manifestazione a Malmo, nel sud del paese, che contestava un comizio del Partito degli Svedesi era stata attaccata dalla polizia a cavallo e si era conclusa con fermi e feriti.

Alle scorse elezioni politiche del 2010 il Partito degli Svedesi – conosciuto fino a qualche tempo fa come Fronte Nazionale Socialista, e che chiede la chiusura del paese all’immigrazione e la non concessione della cittadinanza a persone che non abbiano l’eredità genetica e culturale occidentale (!) – ha ottenuto solo 680 dei circa 8,5 milioni di voti totali. Ma alle elezioni politiche previste tra due settimane il consenso all'estrema destra potrebbe crescere parecchio in linea con quanto sta avvenendo in tutto il continente europeo.

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I mujhaeddin jihadisti in Europa e in Italia eredità di Bosnia


‘La rete di Ismar l’imbianchino gettata tra Padova, Treviso e Pordenone, esagera qualche cronista. Parte dal Nord Est, dalla fuga verso la Siria del bosniaco Ismar Mesinovic, e l’inchiesta sui presunti reclutatori per la jihad tra i seimila bosniaci veneti. La storia dei mujhaeddin in Bosnia.

Ismar Mesinovic, bosniaco di Doboj, da anni stimato imbianchino in Italia. A far scattare l’allarme antiterrorismo la morte nel gennaio scorso in Siria proprio di Ismar Mesinovic, per anni residente a Ponte delle Alpi in provincia di Belluno e poi a Longarone dove ha lasciato una moglie di origine cubana a cui aveva sottratto il loro figlio di due anni che l’uomo sarebbe riuscito a portare con se in Siria. Su giornali stranieri e in rete le immagini di Ismar a terra morto, ucciso mentre combatteva contro il governo di Assad. Da allora il tentativo di ricostruire la rete dei contatti tra la comunità bosniaca musulmana e integralista del Nord-Est e il Medio Oriente, per scoprire eventuali canali di reclutamento e finanziamento e quella specie di agenzia di viaggio con biglietti solo andata dal Veneto alla Siria. Riproponiamo una ricostruzione storica dell’arrivo dei primi mujhaeddin in Europa nella guerra bosniaca e i suoi effetti ancora in corso.

All’inizio degli scontri e dell’assedio di Sarajevo, inverno 1992-93, arrivarono nella Bosnia centrale i primi volontari islamici stranieri. Musulmani dall’Arabia Saudita e da altri Paesi del Golfo Persico, dal Pakistan, dall’Afghanistan. E uno sparuto gruppo dall’Europa occidentale o dal nord America. All’inizio combattevano in piccoli gruppi. Nel luglio 1993 lo Stato Maggiore dell’Armija, l’esercito bosniaco musulmano, costituì il reparto “El Mudžahedin”, con i volontari sotto uno stesso comando. Circa 1800 soldati operativi nei territori di Zavidovići e Maglaj. Molte accuse di crimini di guerra. Il Tribunale dell’Aja condusse un’inchiesta contro lo stesso Alija Izetbegović, che fu interrotta dalla morte del presidente nel 2003. Il capo di Stato Maggiore dell’esercito bosniaco, Rasim Delić, è stato condannato nel 2008 a tre anni di carcere per non aver impedito crimini commessi dai mujaheddin. Già allora il macabro esercizio della decapitazione di 17 militari serbi.

Alla fine del conflitto, il problema dello smantellamento di quei reparti combattenti di senza patria. Ed accadde un fatto davvero singolare. Il giorno della firma degli accordi di Dayton, il 14 dicembre del 1995, in un ‘incidente’ sulla strada tra Zenica e Maglaj, vicino a Žepče, reparti speciali croati hanno ucciso in un solo colpo ben 5 comandanti del reparto “El Mudžahedin”. La persona più conosciuta tra i cinque era l’egiziano Anwar Shaban, già direttore del centro culturale islamico di Milano. Lo sceicco Shaban era la personalità principale, dal punto di vista religioso, all’interno di questa unità. I servizi di sicurezza egiziani, americani e italiani erano sulle sue tracce, mentre il governo bosniaco riteneva - così affermò - che lui non fosse più nel Paese. Alla fine della guerra, dei gruppi di volontari stranieri si sono stabiliti in case di profughi serbi nel villaggio di Donje Bočinje. Circa 160 famiglie, da sempre sospettate di organizzare/coprire un campo di addestramento militare.

Volontari e missionari islamici stranieri hanno avuto da sempre scontri con le comunità islamiche locali. Nel 1993, l’egiziano Imad Al Misry pubblicò un libretto su ‘Le opinioni che dobbiamo correggere’, nel quale si citano gli ‘errori’ dell’Islam bosniaco. Ad esempio, l’accettazione del nazionalismo e della democrazia. Nel 1995, lo scioglimento del reparto di mujaheddin fu una delle condizioni per l’aiuto americano. Negli accordi di Dayton era fissato l’obbligo di ritiro dal territorio bosniaco entro 30 giorni di tutte le forze straniere. Fu Clinton, con una lettera al Congresso del giugno 1996, a garantire che tutte le forze straniere avevano lasciato la Bosnia Erzegovina e che la collaborazione a livello militare e di scambio di informazioni con l’Iran era stata interrotta. Dopo la guerra, in Bosnia Erzegovina, sono state condotte numerose indagini antiterrorismo a livello nazionale e internazionale, ma il giudizio di Clinton non è stato mai messo seriamente in discussione.

Il problema dell’integralismo wahabita alla base di tutte le diverse forme di estremismo islamico. Un sondaggio dell’Agenzia Prisma di Sarajevo definiva a meno del 3% la popolazione vicina al movimento wahabita. Differenze principali la pratica religiosa e la separazione tra religione e Stato. L’ideologia wahabita è radicale, aggressiva, e questo è un problema particolare in Bosnia dove le relazioni tra i tre principali gruppi nazionali sono ancora delicate. Crisi economica e nuova ricerca di spiritualità, avrebbero favorito spinte integraliste. Oltre ad ‘aiuti’ dall’Arabia Saudita per chi veste i simboli esteriori del movimento. Infine, terrorismo internazionale e rimpatri. Inchieste giudiziarie su vere o presunte operazioni terroristiche dei ‘mujhaeddin’ di Bosnia. Esempio, i 6 bosniaci di origine algerina sequestrati dalle forze armate statunitensi e condotti a Guantanamo. Il giudice li libera, ma tre di loro sono sospesi nel limbo tra gli Usa della galera e la Bosnia che non li vuole.

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Mogherini, vittoria di Pirro

di Fabrizio Casari

Alla fine, come pronosticato anche qui, Federica Mogherini, Ministro degli Esteri italiano, è stata eletta alla carica di Lady Pesc, ovvero Alto Rappresentante Europeo per la politica estera e di sicurezza. E’ certamente una vittoria politica di Matteo Renzi, che della nomina della Mogherini in Europa ne ha fatto una questione cruciale, quasi una ossessione. Berlino, Parigi e Londra non hanno avuto particolari difficoltà ad accettare il capriccio di Renzi, dal momento che non sarà certo la politica estera il terreno principale delle contraddizioni interne alla UE. In cambio, ottenere l’inutile nomina a Mr Pesc ne impedisce altre di maggior peso politico.

Per questo, nonostante le opposizioni dei paesi dell’Est Europa, ampio era il consenso dei paesi decisivi e lo stesso accordo tra socialisti e democristiani a livello europeo, che aveva prodotto la nomina di Junker a Commissario Europeo con il voto decisivo del PSE, (con il PD italiano in prima fila) comportava per riequilibrio sia la vicepresidenza del Consiglio d’Europa che l'Alto Rappresentante agli esteri e alla sicurezza a forze e paesi diversi.
La nomina della Mogherini era scontata proprio dopo l’avvenuta nomina di Junker e l’opposizione degli ex appartenenti al blocco socialista dell’Est non avrebbe potuto impedire l’arrivo della signora romana a Bruxelles. Ungheria, Bulgaria, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Croazia, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia, pur costituendo un blocco numeroso sono però paesi dal peso politico ridotto a livello europeo. Vedono comunque bilanciare la sconfitta patita su Lady Pesc con la nomina di Donald Tusk, ex premier polacco, a Vicepresidente permanente del Consiglio d’Europa.

Peraltro, l’opposizione di Praga, Varsavia, Budapest e soci poggiava su un elemento discutibile, cioè la presunta “morbidezza” della Mogherini nei confronti di Mosca. Ma si tratta di furore ideologico allo stato puro, dal momento che Mogherini, come del resto i governi determinanti europei, non sono inclini a verbosità guerriere contro Mosca. A Varsavia o a Praga, tutto meno che icone di democrazia, in linea con il cioccolataio di Kiev si chiede l’apertura di una guerra con la Russia di Putin, salvo poi, a giorni alterni, chiedere armi e soldi a Europa e Usa. Un “armiamoci e partite” quindi, che non viene accreditato di particolare considerazione a Bruxelles.

Anche perché, differentemente dai parìa dell’Est, proprio a Bruxelles (vista come sede Ue e Nato) sanno perfettamente la differenza che corre tra una diplomazia attenta all’interlocuzione e un comizio; e dal momento che sono Berlino, Parigi, Londra, Roma e Madrid a sostenere lo scontro politico, diplomatico e commerciale con Mosca, ritengono di dover affrontare i nodi delicati della partita con la Russia con la precisa consapevolezza di doversi poi assumere le conseguenze del loro agire politico.
Ciò detto, rimane da decifrare politicamente la ragione dell’impegno spasmodico di Renzi per occupare la casella di Lady Pesc, a parte l’evidenza della volontà del premier italiano di ottenere un successo personale, aspetto del resto presente in tutta l’attività dell’uomo con il gelato. Intendiamoci: la nomina a Lady Pesc di una politica italiana non rappresenta un danno per il Paese, ci mancherebbe altro.
Semplicemente, Lady Pesc - come ha dimostrato la Signora Ashton - è un ruolo puramente figurativo, privo di qualunque decisionalità politica, dal momento che Bruxelles non ha una linea politica continentale nelle relazioni internazionali; sostiene posizioni comuni solo su questioni di relativa importanza, mentre i dossier decisivi per gli equilibri internazionali ciascun paese membro della UE li affronta per proprio conto e d’accordo con Washington.
E, proprio in relazione a quest'ultimo aspetto, va sottolineato come la vicinanza di Renzi a Obama abbia visto Washington dare il suo gradimento alla nomina di Federica Mogherini, ed è ovvio quanto noto che il sostegno statunitense sulla nomina di un ministro degli Esteri e della Sicurezza europea pesa come un macigno sulla scelta.

Per quanto riguarda le ricadute italiane della nomina di Federica Mogherini, si tratterà di vedere se Renzi riterrà di nominare solo una nuova titolare della Farnesina oppure se verrò colta l’occasione per un mini-rimpasto di governo. Nelle scorse settimane erano girate voci insistenti sullo spostamento di Alfano al posto della Mogherini, ma i deboli di stomaco hanno espresso diverse riserve.
Se infatti l’uscita di Alfano dal Viminale rappresenterebbe comunque una buona notizia per l’Italia, le recentissime polemiche su Frontex e sulla missione Mare Nostrum che il ministro dell’Interno ha scatenato contro l’Europa potrebbero costituire un’ulteriore difficoltà per lo spostamento di Alfano alla Farnesina. Voci maliziose sostengono che le polemiche sarebbero nate proprio in seguito alla consapevolezza di uno scarsissimo entusiasmo dei partner europei all’arrivo alla Farnesina di un uomo considerato non certo dotato di genialità politica.

Contemporaneamente, altri appetiti si scatenano. Casini, infatti, si danna quotidianamente per autocandidarsi a nuovo ministro degli Esteri e, benché il mantenimento in vita del governo è garantito dall’alleanza tra PD e Forza Italia, con il NDC e gli ex di SEL nel ruolo di attori non protagonisti, Renzi potrebbe ritenere utile blindare anche i voti della pattuglia di Cesa e Casini.

In attesa della consumazione del rito tutto democristiano del rimpasto, resta solo l’evidenza di come Renzi, mentre l’economia attraversa una fase drammatica e la disoccupazione registra la percentuale più alta della storia italiana dagli anni ’60 ad oggi, si sia impegnato allo spasimo per la controriforma istituzionale e la nomina di Federica Mogherini. La prima dannosa per l’Italia, la seconda inutile per l’Europa.

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Londra: “invieremo truppe a Kiev”. Mosca: “non provocate una potenza nucleare”


“La Gran Bretagna e altri sei Paesi creeranno una forza multilaterale di 10mila uomini per rafforzare la risposta Nato all'aggressione russa in Ucraina”. A diffondere la notizia è stato oggi il quotidiano Financial Times, spiegando che l'annuncio è atteso per la prossima settimana al vertice dell'Alleanza Atlantica in programma nel Galles. La 'joint expeditionary force' includerà unità navali e truppe di terra e sarà guidata dagli inglesi, ma con il coinvolgimento anche di Danimarca, Lettonia, Estonia, Lituania, Norvegia e Olanda. Anche il Canada avrebbe espresso interesse per l'iniziativa.

Si tratta di un annuncio gravissimo, foriero di un ulteriore innalzamento dello scontro iniziato con Mosca quando nell’autunno scorso Unione Europea e Stati Uniti hanno cominciato a sostenere un regime change a Kiev sfociato poi a febbraio in un colpo di stato e dopo qualche settimana in una guerra civile che ha visto il coinvolgimento – per la maggior parte indiretto – della Russia.

L’annuncio del Financial Times segue una escalation di dichiarazioni sempre più bellicose da parte dei paesi che compongono l’Alleanza Atlantica. La tesi che giustificherebbe l’intervento diretto della Nato in territorio ucraino è che Mosca ha violato l’integrità territoriale del paese inviando truppe e armi, anche se per ora i comandi militari occidentali non sono riusciti a fornire alcuna prova di quanto affermano, se non foto satellitari tutt’altro che chiare presto sbugiardate da Mosca. Ma dopo che il regime Poroshenko-Yatseniuk ha più volte gridato alla ‘invasione’ affermando che convogli di carri armati erano penetrati in suolo ucraino e truppe russe avevano addirittura occupato alcune località nei dintorni di Mariupol – in realtà si tratta della controffensiva lanciata dalle milizie popolari, supportate dal sostegno logistico russo – anche Washington e Londra hanno rilanciato l’accusa.

"La Russia – ha intimato l'Alto rappresentante per la politica estera Ue Catherine Ashton a Milano nella conferenza stampa al termine della riunione informale dei ministri degli Esteri dei 28 paesi UE –  deve porre un freno alle ostilità, porre un freno al passaggio di equipaggiamenti nella zona di conflitto e ritirare le sue forze armate" dall'Ucraina. Dopo che la Nato aveva parlato della presenza in territorio ucraino di “almeno 1000 soldati russi” oggi Londra ha rilanciato, affermando che le truppe di Mosca che hanno sconfinato sono in realtà ben 5000, anche in questo caso senza fornire alcuna pezza d’appoggio. Eppure 5000 soldati con al seguito camion, carri armati, lancia missili e quant’altro non dovrebbero essere difficili da vedere e documentare per paesi che spiano da anni miliardi di persone, governi e vertici militari dei paesi alleati compresi.

"Siamo di fronte a una situazione gravissima e una crisi drammatica: potremmo arrivare a un punto di non ritorno se non si ferma l'escalation", afferma con incredibile faccia tosta il presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso, dopo il faccia a faccia con il presidente ucraino Petro Poroshenko, che oggi partecipa ai lavori del Consiglio Europeo straordinario.

Di fronte ai continui rovesci delle sue truppe e alla prospettiva che il conflitto continui anche nel prossimo autunno-inverno – il che darebbe un ulteriore vantaggio alle milizie indipendentiste già più motivate di un esercito ucraino sempre più sbandato – l’establishment di Kiev accelera il processo di adesione alla Nato, che finora Poroshenko aveva affermato di non voler affrettare per non andare al muro contro muro con Mosca. Oggi il premier nazionalista Arseni Iatseniuk ha informato di voler proporre "un progetto di legge per annullare lo status di neutralità dai blocchi militari dell'Ucraina e tornare sulla via dell'adesione alla Nato". Una soluzione che il segretario generale uscente, Anders Fogh Rasmussen, sembra accogliere con entusiasmo: "Ogni Paese ha diritto di decidere da solo le alleanze".

E' intanto giallo sull'arresto di due funzionari dell'ambasciata russa a Kiev. Il terzo segretario Andrei Golovanov e l'addetto diplomatico Mikhail Shorin sarebbero stati arrestati nella capitale ucraina nonostante avessero dei passaporti diplomatici, e Mosca li ha dichiarati "dispersi". Anche se tre giorni fa il ministero degli Esteri ucraino ha ammesso l'arresto nei pressi di un bar di due persone in possesso di "bombe a mano" e di documenti "somiglianti" a passaporti diplomatici russi, il ministero dell'Interno ucraino ha negato che Golovanov e Shorin siano stati arrestati. Ora il ministero degli Esteri di Mosca accusa Kiev di avere arrestato Golovanov e Shorin "con un pretesto completamente falso" e chiede "l'immediato rilascio" dei diplomatici e il rispetto "delle convenzioni internazionali sull'immunità diplomatica".

Naturalmente Vladimir Putin e il governo di Mosca reagiscono a muso duro alle continue minacce da parte dell’occidente paragonando il comportamento delle truppe di Kiev nell'est dell'Ucraina a quello dei nazisti che bombardavano le città e massacravano gli abitanti e avverte l'Alleanza Atlantica che non è il caso di "scherzare" con "una potenza nucleare" come la Russia. Putin precisa che l'obiettivo della Russia "non è minacciare qualcuno, bensì sentirsi sicura", ma il tono dell’intervento del capo del Cremlino è durissimo: Mosca è una delle maggiori potenze nucleari e "non si tratta di parole, ma della realtà": quindi, "non è il caso di scherzare con noi".

In attesa di una escalation militare che potrebbe avere conseguenze disastrose il braccio di ferro tra occidente e Mosca continua a salire di tono anche in campo economico ed energetico. Oggi il ministro dell'Energia russo, Aleksandr Novak, ha ribadito al commissario Ue per l'Energia Gunther Oettinger che esistono "forti rischi" per le forniture di gas all'Europa in inverno perché Kiev – a cui Mosca ha chiuso i rubinetti dell'oro blu a giugno per una disputa sul prezzo del metano e sul debito miliardario mai pagato alla Russia – potrebbe sottrarre illegalmente parte del gas diretto in Europa attraverso i metanodotti ucraini in vista della stagione fredda. Ieri la Gazprom si era comunque detta disponibile a offrire all'Ucraina uno «sconto» di 100 dollari ogni mille metri cubi sul prezzo del gas, rispetto ai 486 dollari fissati dopo il golpe filoccidentale del febbraio scorso.
Nel frattempo – mentre l'Fmi dà via libera al versamento di 1,4 miliardi di dollari a favore dell'Ucraina – il braccio di ferro delle sanzioni tra Russia e Occidente fa crollare il rublo: che oggi ha toccato quota 37,02 per un dollaro.

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30/08/2014

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Perché gli americani non intervengono in Iraq?

Ovvero: quale è la strategia di Obama per il Medio Oriente? Questo potrebbe essere l’articolo più breve della storia di questo blog e concludersi in tre parole: “non c’è” (lo dice anche la BBC!). So che la cosa susciterà un coro di disapprovazione da parte di quanti (e non sono pochi) sono convinti che dietro ogni evento piccolo o grande sulla scena internazionale ci sia un malefico e diabolico piano del “grande Satana americano”. Non amo affatto gli Usa ed ho un giudizio abbastanza preciso del ruolo che giocano in questo momento storico, ma, il fatto è che anche il peggiore e più grande avversario può trovarsi a corto di idee e non sapere bene cosa fare.

Partiamo da una idea: il sogno del “Nuovo grande secolo americano” che ipotizzava un durevole ordine mondiale monopolare, è entrato definitivamente in crisi a cavallo fra il 2008 ed il 2010. In primo luogo, la violenta crisi finanziaria del 2007-8 ha azzoppato l’Impero (a proposito: checché ne dica Negri, l’Impero non è un’astrazione iperuranica, sono gli Usa, punto e basta) rivelandone la grande fragilità economica. E questo si è sommato alla non confessata ma evidentissima sconfitta subita in Iraq ed Afghanistan. E’ evidente a tutti il bilancio fallimentare delle campagne di Bush e gli Usa si ritirano con le pive nel sacco dopo aver speso un fracasso di dollari.

Anche sul piano dell’immagine il risultato è catastrofico: la sconfinata potenza americana, con la sua sofisticatissima tecnologia, con i suoi droni ed i suoi satelliti, con i suoi apparati di intercettazione e le sue armi di ultimissima generazione è stato piegato dalla guerriglia della solita banda di straccioni, come era successo ai francesi a Dien Bien phu ed in Algeria, ai Russi in Afghanistan ed agli stessi americani in Vietnam. E non pare che la lezione avuta dai vietcong sia stata molto capita: le guerriglie sono una brutta rogna da grattare e prima di impelagarvicisi è bene pensarci venti volte.

Pertanto, il bilancio è un disastro sotto ogni profilo. Per di più la Russia, nonostante tutti i suoi problemi, si è ripresa prima del previsto e Cina ed India sono cresciute molto più in fretta di quanto pensse la Cia in un suo ormai dimenticati rapporti dei primi anni duemila.

Dunque, l’ordine monopolare ormai è un obiettivo impraticabile. Però questo non significa che gli Usa rinuncino ai propri piani di egemonia mondiale: non più Impero assoluto, ma unica superpotenza con raggio di azione mondiale, in un contesto di grandi potenze regionali con le quali convivere ma sulle quali prevalere. Per così dire: da maggioranza assoluta a maggioranza relativa.

Tutto questo impone in primo luogo di non fare altri passi falsi. Un’altra guerra sbagliata avrebbe conseguenze definitive: dissesto economico, caduta irrimediabile d’immagine, demoralizzazione dei militari e dell’opinione pubblica interna, moltiplicazione ingovernabile delle sfide alle altre grandi potenze ed anche di altri soggetti minori… Altro che unica super potenza: potrebbe essere l’imbocco di un declino inarrestabile.

C’è chi (come “Il Foglio”) è convinto che questo dipenda da un eccesso di irresolutezza, se non di viltà, di Obama, mentre un più virile repubblicano come Reagan avrebbe già fatto sfracelli. E’ solo un modo di consolarsi: prima di far mettere piede a terra ad un solo soldato, l’amministrazione americana ci penserà a lungo e questo anche se ci fossero i repubblicani. D’altra parte, come scrive lo stesso “Foglio” (24 giugno 2014) “gli americani non vogliono sentir parlare di Medio Oriente” e c’è persino qualcuno che inizia a chiedersi “E se avessimo lasciato Saddam al suo posto?”. Obama è al punto più basso della sua popolarità, ma non per questo, i problemi sono altri: l’occupazione, i consumi, l’impoverimento della classe media.

A queste considerazioni di ordine generale, se ne sommano altre più legate al momento contingente: la Casa Bianca è più interessata a quel che accade in Ucraina ed alla partita strategica con Russia e Cina che teme si alleino, ma che sta inesorabilmente spingendo una nelle braccia dell’altra. E nella partita occorre tenere saldamente l’Europa dalla propria parte, compresi i poco affidabili tedeschi, che di mollare Mosca non sembrano entusiasti. Dunque, le urgenze strategiche sono altre e non appare salubre andarsi ad impeciare uno scacchiere che non è più centrale come dieci anni fa.

Infine ci sono le considerazioni legate alla questione in particolare: scendere a terra, abbiamo detto, è l’ipotesi più respinta di tutte e una guerra con i soli i droni non si vince. Dunque, la soluzione migliore sarebbe quella di una “guerra per procura” lasciando scannarsi i Curdi, i Siriani, gli Iraqueni e magari gli Iraniani con gli uomini dell’Isis. Ma, se questo comportasse una intesa, anche solo tacita con gli iraniani, questo significherebbe andare a sbattere contro Sauditi ed Israeliani, se invece si puntasse troppo decisamente su Curdi e Siriani ad infuriarsi sarebbero i Turchi. La soluzione potrebbe essere, allora, quella di aizzare la guerra per procura, ma senza impegnarsi con nessuno, restando alla finestra: ma anche questo è più facile a dirsi che a farsi.

Un completo disimpegno costerebbe agli Usa la perdita di ogni influenza nella regione: quando Kerry è andato in Arabia ed ha chiesto esplicitamente al principe saudita Bandar bin Sultan di bloccare i finanziamenti da Arabia e Qatar, Bin Sultan ha risposto che Washington non è più credibile, dopo aver minacciato una guerra in caso di uso dei gas chimici in Siria e aver poi fatto marcia indietro.

Il riferimento è alla crisi di un anno fa, quando i bombardieri sembravano lì lì per partire, ma quando poi Putin disse che, forse, la Siria avrebbe consegnato spontaneamente le armi chimiche, gli americani presero un fugone che li stanno ancora inseguendo.

Beninteso, se Obama avesse dato seguito alla sua minaccia, avrebbe fatto una madornale sciocchezza, ma avrebbe dovuto pensarci prima di lanciare l’annuncio che stava per far partire i suoi aerei. Fare annunci del genere e tornare indietro è sempre un disastro. E infatti oggi Obama, fattosi molto più prudente, dice che sradicare lo stato califfale “sarà molto difficile”. A buon intenditor…

Poi, fra gli americani, ci sono anche quelli che fanno valutazioni diverse sull’opportunità di far nascere il Califfato per schiacciare meglio i fondamentalisti, come leggiamo sempre sul “Foglio” (18 giugno 2014 p. 1. A proposito: visto quante belle notizie si beccano sul “Foglio”? Lasciando da parte le tirate ideologiche e le valutazioni politiche su cui, quasi sempre, mi capita di non essere d’accordo, vi garantisco che di notizie utili che non si leggono altrove ve ne sono una bella quantità) la dichiarazione di Franz Gayle, consulente del dipartimento politica dei Marines Usa: “Accettiamo il desiderio dei jihadisti di creare uno stato islamico. E’ proprio per questo tipo di aggressori irriducibili e concentrati che abbiamo sviluppato il concetto di air power. Terribile? Si. Necessario? Assolutamente. Lo stesso calcolo spietato fu applicato anche durante la seconda guerra mondiale”.

Non si può dire che, a questo allievo di Giulio Dohuet manchi il senso pratico! Dunque: “facciamogli fare il loro stato e poi schiacciamoli tutti insieme come scarabei imbottendoli di bombe”.

Un calcolo però rischioso, perché se il Califfato mette radici poi cambia tutta la geografia della zona e non è detto che la si risolva con l’“air power”. Ma, una cosa, per ora, pare sicura: che l’intervento americano è possibile ma decisamente improbabile e che, quindi, la partita con l’Isis sarà lunga e complicata.

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Golan: jihadisti di al Nusra attaccano i caschi blu dell’Onu


Questa mattina i caschi blu dell’Onu dispiegati sulle alture del Golan - territorio siriano parzialmente occupato da Israele nel 1967 - hanno subito un’imboscata da parte dei miliziani jihadisti del Fronte Al Nusra, filiale di Al Qaeda in Siria. Secondo varie fonti, poi confermate da una dichiarazione del governo di Manila, stamattina scontri a fuoco sono scoppiati tra i ribelli fondamentalisti sunniti e i militari della Forza di Osservazione delle Nazioni Unite sulle alture del Golan (Undof). Inoltre spari sono stati uditi vicino alla base dell’Onu nella zona di Ruihina mentre le forze governative di Damasco hanno bombardato la vicina località di Briqa.

L’attacco fa seguito al rapimento, giovedì scorso, di 44 soldati del contingente Onu delle Isole Fiji, che sarebbero stati sequestrati, affermano fonti del Fronte Al Nusra, perché avrebbero ospitato alcuni soldati siriani all’interno della loro base a Tal Krom. Inoltre le Nazioni Unite hanno confermato che altri 72 membri del contingente Onu, questa volta di nazionalità filippina, sono accerchiati nella stessa zona dai miliziani qaedisti che impediscono loro di abbandonare l’area. Mercoledì i membri dell’organizzazione fondamentalista avevano occupato il posto di frontiera di Al Quneitra, l’unico che unisce la Siria al resto delle Alture del Golan controllate da Israele.

Già a marzo e a maggio dello scorso anno un rilevante numero di caschi blu di Manila erano stati sequestrati da uomini armati membri dei gruppi jihadisti - che però all’epoca la stampa e i governi occidentali consideravano il male minore contro il governo Assad - e furono rilasciati senza conseguenze alcuni giorni dopo.
Ieri fonti delle Nazioni Unite avevano informato sull’avvio di trattative con il Fronte al Nusra per la liberazione dei militari figiani e filippini con la mediazione dei gruppi ribelli aderenti all’Esercito Siriano Libero ma senza risultati.

Ieri il comandante del contingente filippino intrappolato ad Al Quneitra aveva affermato di esser pronto a ordinare ai suoi uomini di respingere un eventuale attacco da parte dei miliziani jihadisti che avevano già chiesto ai ‘caschi blu’ della missione Onu, presente nell’area dal 1974 e composta da 1200 soldati di sei paesi (India, Fiji, Filippine, Irlanda, Olanda e Nepal) di deporre le armi.
“Noi possiamo usare le nostre armi per difendere le posizioni. I nostri soldati sono bene armati, ben addestrati, disciplinati” aveva detto Roberto Ancan, capo della delegazione militare di Manila nell’area.

Intanto nei giorni scorsi centinaia di soldati siriani sono stati brutalmente giustiziati dai miliziani dello Stato Islamico in tre diversi luoghi della provincia settentrionale siriana di Raqqa, passata recentemente sotto il controllo del ‘califfato’ guidato da Ibrahim Abu Bakr al Baghdadi. La maggior parte dei militari di Damasco trucidati erano stati catturati a fine luglio alla “Base 17”, la scorsa settimana nella località di Esraya (provincia di Hama) e domenica scorsa all’aeroporto militare di Tabqa. A documentare il massacro un filmato diffuso in rete dagli stessi jihadisti.

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Siria e Iraq rischiano di diventare molto peggio della Somalia.

Siria. Ribelle "buono", ribelle "cattivo"

Con il pretesto di colpire anche in Siria l’orrore che si autodefinisce Stato islamico e che si è ritagliata con il coltello una grande area fra Siria e Iraq chiamandola “Califfato”, Usa & C. cercheranno di realizzare un regime change. Così facendo giocheranno di fatto il ruolo di forza aerea di al Qaeda, come fu in Libia. Perché fra i ribelli ”moderati” appoggiati dall’Occidente e i terroristi sedicenti islamici le porte sono girevoli, e lo affermano gli stessi protagonisti.

E’ concreto il rischio che i novelli Frankenstein Nato/Golfo riuniti nel gruppo degli “Amici della Siria (ora “Gruppo di Londra”; la loro breve ma perversa storia è raccontata qui)) approfittino della mostruosa creatura uscita dalle loro guerre aperte o occulte, l’ormai famigerato Stato islamico (Isis) per passare da un intervento per procura a un “intervento umanitario” , occupando così la Siria e realizzando, finalmente, il loro tanto agognato regime change al quale hanno già dedicato tre anni costati al popolo siriano infiniti lutti. Tre anni costellati da bombardamenti effettuati da Israele e Turchia, dall’infiltrazione di uomini armati, da aiuti ai gruppi armati “dell’opposizione” operanti in Siria.
Washington, da suo canto, rassicura i sostenitori dell’opposizione armata non-Isis in Siria e conferma che non ha alcuna intenzione di coordinare con Damasco eventuali attacchi aerei contro l’Isis anche per non alienarsi i membri della coalizione anti-Assad, principalmente Turchia, Giordania, Arabia Saudita, Qatar. In tal senso, il 25 giugno 2014, Obama ha presentato al Congresso (nel quadro del progetto Overseas Contingency Operations, OCO, per il 2015), la richiesta di destinare, fra l’altro, 500 milioni di dollari per formare ed equipaggiare elementi “verificati” dell’opposizione siriana “per aiutare a difendere il popolo siriano (…) e contrastare minacce terroristiche” . E’ la stessa richiesta reiterata – su esortazione Usa – dagli alleati locali del gruppo Nato/Golfo di “Amici della Siria”, ovvero la “Coalizione nazionale siriana” nata a Doha nel 2012, e il suo braccio armato, appunto l’“Esercito siriano libero”.
Così come i “ribelli” libici, anche quelli siriani hanno fin dall’inizio richiesto l’appoggio dell’Occidente (cosa che non ha mai fatto l’opposizione interna non armata). E Mohammed Qaddah, vicepresidente della Coalizione di Doha, conclude così il suo discorso: “Lottare contro il terrorismo significa anche rafforzare l’Esercito libero siriano che si è dimostrato essere l’unico capace di contrastare il gruppo estremista nella regione”. Ovviamente, Mohammed Qaddah sorvola sulla circostanza che siano stati soltanto i curdi siriani dell’Ypd – e non certo l’Esl e compari – a fermare l’Isis in Siria e a proteggere le loro aree in Siria (come il Royava ai confini con la Turchia) attaccate da Isis, Jabhat al Nusra e anche dall’Esl. Eppure i curdi siriani sono stati esclusi dai negoziati di pace a Ginevra.
Di recente Hillary Clinton ha affermato che bisognava armare massicciamente i “ribelli moderati siriani” sin dall’inizio; il non averlo fatto – sostiene – ha dato modo ai jihadisti di riempire il vuoto e di “convertire” i ribelli in loro alleati; una dichiarazione sostanzialmente identica a quella dell’ex ambasciatore Usa in Siria Robert Ford. In realtà, la rapida ascesa di gruppi come al Nusra (al Qaeda in Siria) e Isis (ex al Qaeda), si spiega sia con l’inglobamento di combattenti prima appartenenti a gruppi “moderati”; sia con una crescita militare determinata sostanzialmente da ingenti finanziamenti e da appoggi logistici garantiti apertamente dalla Turchia e dai petromonarchi e – più o meno segretamente – dall’Occidente.
Se gli aiuti in armi, denaro e logistica sono stati dati direttamente ai gruppi qaedisti, questo la dice lunga sulle intenzioni degli “Amici della Siria”; altro che combattere l’Isis. Se invece sono stati dati ai “moderati” e poi sono finiti nelle mani “sbagliate”, è successo grazie al fatto che i “moderati” si sono spesso alleati agli islamisti. Ad esempio, secondo le mai smentite dichiarazioni di funzionari governativi giordani “gli Usa addestrarono in una base segreta in Giordania decine di futuri membri dell’Isis” (…) mentre “la Turchia, addestrava combattenti dell’Isis nelle vicinanze di Incirlik.
Va detto che un fondamentale trait d’union fra terroristi Nato/Golfo e terroristi Isis sono stati proprio loro: i ribelli” moderati”. Quelli “buoni”. Quelli dalla bandiera verde-nera-bianca nella quale volentieri si avvolgono i sostenitori in Italia di questi “partigiani rivoluzionari”, così come facevano con gli allora mitici, e oggi famigerati, “freedom fighters” libici.
Fra i “moderati” e gli al qaedisti o, peggio, l’Isis, c’è sempre stato un documentato sistema di “porte girevoli” e per loro stessa ammissione. I rapporti fra Esl, al Nusra e Isis sono un groviglio inestricabile e mutevole a seconda degli scenari e del periodo. Così riassume il giornalista dell’Independent Robert Fisk: “Chi sono questi ribelli ‘moderati’ che Obama vuole addestrare e armare? Egli non li nomina e non può perché i ‘moderati’ originali, ai quale gli Stati Uniti hanno promesso fondi – con l’aiuto della CIA, gli inglesi, Arabia Saudita, Qatar e Turchia – sono membri del cosiddetto ‘Esercito siriano libero’ composto principalmente da disertori delle forze armate siriane. L’Esl (…) si è dissolto. I suoi uomini si sono ritirati, si sono arruolati con Al Nusra o nell’Isis o sono tornati nell’esercito governativo” (…) “Si dice che i ‘combattenti per la libertà’ non hanno ricevuto abbastanza armi. Ora ne avranno di più. E non c’è dubbio che le venderanno, come hanno fatto prima. (…) Date ad un uomo dell’Esl – nel caso lo incontraste – un missile antiaereo e lo venderà al miglior offerente”.
Va da sé che anche davanti a documentazioni incontrovertibili del canale tra ribelli “buoni” e quelli “cattivi” c’è ancora chi si affanna a dichiarare che l’Esl è una organizzazione “autonoma e moderata” che bisogna continuare a finanziare e armare, contro il regime siriano e contro l’Isis. Un approccio cronologico aiuta a capire l’assurdità di queste affermazioni.

Dai jihadisti libici con amore
Dal febbraio 2011, in Libia, i paesi occidentali e del Golfo hanno collaborato dal cielo (bombardamenti Nato) e a terra (servizi segreti e corpi speciali) con i “ribelli”, fra i quali forze al qaediste (come spiega in un’intervista un ex prigioniero di Guantanamo che dopo la presa di Tripoli ne diventerà comandante militare).
Dopo la caduta e uccisione del leader Muammar Gheddafi, grandi quantità di armi furono inviate dagli ex “ribelli” libici ai loro omologhi siriani, grazie alla collaborazione del Qatar (per i finanziamenti e il trasporto aereo) e della Turchia (per l’ingresso). E se anche il Supreme Military Council dell’Esl non distribuiva armi direttamente a gruppi qaedisti, questi comunque – secondo dichiarazioni di attivisti siriani – erano in grado di acquistarle dai gruppi che le avevano ricevute. Il premio Pulitzer Seymour Hersch ha di recente denunciato la rat line fra Cia, Turchia e ribelli siriani: una rete clandestina autorizzata nel 2012, usata per canalizzare armi e munizioni dalla Libia alla Siria attraverso la frontiera turca.
Dall'inizio del 2012 arrivano in Siria milizie jihadiste di dottrina sunnita, finanziate soprattutto dai paesi del Golfo Persico, quali Arabia Saudita e Qatar. La Libia fornisce molti combattenti jihadisti.
Nell’agosto 2012, tanto per dirne una, ad Aleppo, allora sotto il controllo dell’Esl si applicava la Sharia anche nei tribunali, e le donne erano costrette ad uscire velate.
Via via cresce l’influenza delle fazioni “bin Laden”. Tra tutte, si distingue (anche per efferatezza) il neocostituito Fronte al-Nusra, affiliato ad al Qaeda. A metà 2013 arriverà dall’Iraq lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (Isis o Isil); formato da combattenti siriani in Iraq che tornano in patria con l'obiettivo di instaurare la Sharia. Al Qaeda di cui rappresentava il ramo iracheno lo rinnegherà nel 2014. Malgrado la reciproca scomunica, Isis e al Nusra hanno la stessa matrice ideologica e rappresentano la maggior parte dei combattenti dell’opposizione. Se Isis si è rivelato (ancor) più sanguinario, al Nusra ha spesso guidato le operazioni più efficaci dei “ribelli”.
Nel novembre 2012, con la rielezione di Obama iniziano le manovre Usa per plasmare le bande dell’opposizione siriana secondo i propri desideri. A Doha nasce la Coalizione nazionale siriana con un allargamento del precedente Consiglio nazionale ad altri ambienti e a Marrakech gli “Amici della Siria” incontrano il nuovo coordinamento dell'opposizione.
Nello stesso tempo gli Usa pongono il fronte al Nusra nella lista dei gruppi terroristi. Significativamente, il leader della Coalizione siriana, al Khatib, dichiara: “Si tratta di un errore e cercherò di modificarlo”. Diversi esponenti e gruppi di ribelli “moderati” reagiscono con il motto “Siamo tutti al Nusra” rimarcando la collaborazione sempre più stretta tra Esl e al Nusra.
Fra febbraio e marzo 2013, il segretario di Stato Usa, John Kerry, annuncia che l’amministrazione Obama sostiene l’invio di armi ai gruppi siriani da parte delle nazioni mediorientali (leggi petromonarchie e Turchia) perché, del resto, negli ultimi mesi si è diventati fiduciosi sul fatto che queste armi vadano alla “gente giusta e all’opposizione moderata” che può gestirle correttamente.
A quel punto la giornalista e analista basata in Libano Sharmine Narwani chiede all’ufficio stampa del Dipartimento di Stato Usa: “Per favore, indicatemi qualcuno dei gruppi armati moderati ai quali si riferisce Kerry”. Ma non riesce ad avere nemmeno un nome (qui il carteggio) dal portavoce di Kerry; solo considerazioni come questa: “L’opposizione ha una visione comune e un piano di transizione per la Siria che offre un’alternativa credibile al regime di Assad. Sosteniamo questa visione e lavoriamo per accelerare la transizione, fornendo sostegno non letale”.
Purtroppo i giornalisti stranieri scortati dai “ribelli” non hanno aiutato a capire. In genere si sono attenuti al copione (già collaudato in Libia) dei “partigiani”; la presenza di combattenti da altri paesi era paragonata alle brigate internazionali contro il fascismo in Spagna. Ma quella dei “vecchi e nuovi embedded” è una lunga storia tutta ancora da raccontare.
Nel marzo 2013 Raqqa è il primo capoluogo di regione siriano (con oltre un milione di abitanti nel 2010) a essere conquistato dai “ribelli”, in un’operazione congiunta che ha visto schierate fianco a fianco le forze dell’Esercito libero (Esl) e dei gruppi jihadisti e salafiti di Jabhat al Nusra e Ahrar ash Sham.
Nel giugno 2013, di sostegno ai ribelli siriani si parla molto al meeting del G8 in Irlanda del Nord. Gli Usa escono allo scoperto annunciando il sostegno a “ribelli selezionati. C’è chi scrive: “Adesso il sostegno ad al Qaeda è alla luce del sole”. Una esagerazione?
Forse no, perché, come rivelato di recente dall’ex ministro degli esteri Emma Bonino “Già nel maggio-giugno 2013 i moderati in Siria non c’erano più. (…) “Quello che so per certo è che all’epoca tra l’altro in cui in Siria vengono allo scoperto i tagliagole, era ormai chiarissimo, evidente e noto che i cosiddetti moderati e laici tra i ribelli siriani erano stati tutti epurati. Anche l’Esercito siriano libero era infiltrato da al Nusra e dall’Isis”.
Una verità questa ribadita anche dal colonnello Abdel Basset al Tawil, comandante del fronte settentrionale dell’Esl: “A proposito delle fazioni che l’Occidente vuole classificare come terroriste – il fronte al Nusra – possiamo tranquillamente avere un dialogo con loro, sul tipo di Stato che vogliamo creare, uno che vada bene a tutti (…) non è un segreto che abbiamo rapporti con tutti, anche con i fratelli di al Nusra, e cooperiamo su molti scenari”. E conclude: “Diamo tempo un mese alla comunità internazionale, e poi riveleremo quel che sappiamo sulle armi chimiche… credo che lei sappia che cosa voglio dire”. 
E come segno di obbediente adesione all’Isis, si possono usare anche gli ostaggi. Secondo alcune fonti, anche il giornalista James Foley, decapitato urbi et orbi dall’Isis, era stato rapito, in una zona occupata dai “ribelli”, poco dopo un video girato da sostenitori dell’Esl, e secondo fonti informate era finito nelle mani della relativamente moderata brigata Dawood, in precedenza allineata con l’Esl, poi passata all’Isis.
Nel marzo 2013, l’esperto di jihadismo Aaron Lund, dello Swedish Institute of Foreign Affairs – e nient'affatto pro-Assad, anzi – scriveva che “purtroppo” l’Esl non esiste: è stato un logo creato nel luglio 2011 dal colonnello Riad el Asaad e da pochi altri disertori, presto confinati nel campo di Apaydin in Turchia. Gruppi armati che nascevano in Siria adottavano questo logo, pur non avendo magari alcun collegamento con il comando d'oltrefrontiera. Ma alla fine del 2012 molti gruppi cancellavano i simboli dell'Esl. In seguito questo termine è stato usato semplicemente per separare l'opposizione non ideologica o solo moderatamente islamica, dalle fazioni salafite – quelle tipo Jabhat al Nusra o Ahrar al Sham non vi hanno mai fatto ricorso ma all’inizio il marchio di fabbrica è stato usato da Liwa al Islam e Suqour el Sham. Insomma giusto un marchio, senza gerarchia. Dunque, spiega l’esperto, si usa il termine Esl (Fsa – Free Syrian Army in inglese) per indicare fra i combattenti anti-Damasco le fazioni che ricevono sostegno dal Golfo e dall’Occidente e sono aperte alla collaborazione con gli Usa e altre nazioni occidentali. Questo esclude i curdi dell’Ypg (troppo di sinistra) e quei salafiti che sono anti-occidentali – perché poi ci sono salafiti finanziati da Golfo e Occidente, e sono nel Syrian Liberation Front (Slf), che riunisce gruppi che in precedenza si definivano Esl. Non mancano gli Shields of the Revolution (affiliati ai Fratelli musulmani) che anch'essi a volte si definiscono Esl; o il raggruppamento Ansar-el-Islam, coalizione islamista a Damasco, i cui membri si definivano Esl, ma non più. I masters Nato/Golfo hanno più volte cercato di creare comandi unificati, nessuno dei quali però ha boots on the ground. Come la Coalizione di Doha, comandano (si fa per dire) per corrispondenza, da fuori. Gli uni dai campi in Turchia, l’altra (i “politici”) dagli hotel a 5 stelle del Golfo.


Maggio 2013: foto rivelatrici (se ne parla qui), scattate in una località vicino a Idleb nel corso di una vista del senatore Usa John McCain (ambasciatore dei “rivoluzionari” libici, siriani e di Kiev), sembra mostrare oltre al brigadier generale Selim Idriss (con gli occhiali) dell’Esl, Ibrahim al-Badri, noto anche come Abu Du’a che figura dal 4 ottobre 2011 nella lista dei cinque terroristi più ricercati dagli Stati Uniti (Rewards for Justice, con una taglia di 10 milioni di dollari) e dal 5 ottobre 2011 nella lista stessa dal comitato per le sanzioni dell’Onu come membro di al Qaeda. Fondatore dell’Isis, con il nome di battaglia di al Baghdadi.
Nell’agosto 2013 il generale Salim Idriss, comandante in capo del Libero Esercito Siriano visita Latakia per “constatare gli importanti successi e le vittorie che i nostri rivoluzionari hanno ottenuto sul fronte costiero”. Ne da notizia Repubblica che dimentica, comunque un non trascurabile dettaglio; quelle operazioni sono state condotte direttamente dalle milizie del Fronte al-Nusra.
Sulla catena che dagli Usa porta all’Isis la dicono lunga alcune foto: nella prima, il segretario di Stato John Kerry ha dietro di sé l’ex ambasciatore Usa in Iraq Robert Ford; nella successiva, lo stesso Ford è ritratto nel nord della Siria, maggio 2013, insieme ad Abdul Jabbar Aqidi, a quel tempo capo dell’Aleppo Military Council; nell’ultima, Jabbar nell’agosto 2013 celebra insieme all’emiro dell’Isis Abu Jandar la presa di un aeroporto militare.
Lo stesso Abdul Jabbar, in questa intervista, concessa, a Orient TV a fine 2013, sostiene: “Sono buoni i rapporti con l’Isis. Comunico ogni giorno con i fratelli dell’Isis. Per risolvere problemi e dispute. I media esagerano le cose a proposito dell’Isil, li chiamano takfiri – quelli che accusano ogni altro di apostasia – ma la maggioranza di loro non lo sono”.
Certo le spine sono tante. Il 13 luglio 2013 Muhammad Kamal al Hamami, carismatico leader dell’Esl, partecipa ad un vertice con i leader dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante in un luogo segreto nel porto di Latakia. Con gli islamisti deve discutere delle strategie da adottare per contrastare la controffensiva dell’esercito governativo a Homs e Aleppo. Un piano comune, dopo mesi di divisioni che hanno indebolito il fronte dei ribelli. Ma il meeting è una trappola. Hamani, fra l’altro uno dei componenti del Supremo concilio militare degli insorti, viene ucciso. Per punire l’Esl che aveva abbandonato il campo di battaglia a Qusayr.
Ed ecco i rapporti fra Esl, islamisti e il fronte curdo laico e progressista dell’Ypg (che ha fra i suoi comandanti molte donne). Nell’agosto 2013 il manifesto riferisce: “Il 31 luglio 2013 gruppi islamisti hanno massacrato oltre cinquanta tra donne e bambini nei villaggi curdi di Tall Hassil e Tall Aran. La maggior parte dei bambini e delle donne uccise farebbe parte di famiglie di membri del fronte curdo alleato del Ypg (formato da uomini e donne) che combattono contro i gruppi vicini ad al Qaeda e contro l' Esercito libero siriano (sostenuto dall'Occidente ndr). Un comunicato del Pyd accusa Unione europea, Stati Uniti e paesi arabi per il loro silenzio di fronte ai massacri e precisa che gruppi affiliati ad al Qaeda e Esl sono sostenuti da paesi esteri, soprattutto la Turchia che lascia passare uomini e armi per far la guerra ai curdi”.
La rottura all’interno dell’opposizione di Assad sembra arrivare nell'estate 2013, ma non è auspicata. Una rottura da evitare secondo Padre Dall'Oglio che, nel suo ultimo articolo, così scriveva: “…Per noi siriani della rivoluzione, la riconciliazione tra forze islamiste radicali e forze democratiche è una necessità strategica. Le scaramucce dolorose e i crimini insopportabili avvenuti tra noi devono trovare soluzione, essere riassorbiti, per presentarci uniti di fronte al pericolo totale rappresentato dal regime, appoggiato direttamente o indirettamente da troppi. Favorire i partner più affidabili, incoraggiare le evoluzioni più auspicabili è buono. Spingerci ad ammazzarci tra di noi non può esserlo…” "Quando dieci mesi fa Papa Benedetto visitò il Libano disse, sicuramente per effetto delle opinioni dei prelati mediorientali favorevoli al regime del clan Assad, che era peccato mortale vendere le armi ai contendenti nella guerra intestina siriana. In quell'occasione twittai che se era peccato vendercele, allora bisognava darcele gratis! Ci hanno spinto a muoverci promettendoci protezione e solidarietà e ci hanno vigliaccamente abbandonato; poi ci giudicano se ci siamo rivolti malvolentieri ai loro nemici per salvarci dal genocidio promessoci dagli Assad”.
A febbraio 2014 si annuncia che Susan Rice, consigliere per la Sicurezza Nazionale, ha incontrato i capi intelligence di Turchia, Qatar, Giordania raccomandando di non aiutare più i gruppi estremisti ma solo quelli “moderati”. Nel frattempo, comunque, Usa e petromonarchi aumentano gli aiuti a tutti i gruppi – islamisti e non – che dichiarano di voler combattere l’Isis. Come riferiscono fonti degli stessi ribelli la gara per accaparrarsi i soldi accomuna (oltre all’Esl), l’Army of Islam, Syrian Revolutionary Front, l’Esercito dei Mujahidin, il Fronte Islamico, il Fronte dei rivoluzionari.
Lo scontro vede (sempre secondo il sito favorevole all’opposizione siriana armata non jihadista) da un lato, l’Esercito siriano libero (Esl), l’Esercito dei Mujahidin (moderatamente islamista) e il Fronte Islamico (che vuol far diventare la Siria uno Stato islamico ma è "moderato"; il suo atteggiamento è ancora ambiguo ma molte sue fazioni partecipano all’attacco) e il Srf di cui sopra. Dall’altro l’Isis (o Daesh) alleato con Jund al Aqsa. Anche alcune unità appartenenti ad al Nusra si sono unite nella campagna condotta contro l’Isis.
Pochi mesi dopo uno dei beneficiari di cui sopra, – Jamal Maaruf, leader del Syrian Revolutionary Front (organizzazione fino ad allora considerata “moderata” dagli USA) parlando ad Antakya, in Turchia, dichiara che “La lotta contro al Qaeda in Siria non è il nostro problema”. E precisa che il suo gruppo – aiutato da Usa, sauditi e Qatar – anzi lavora insieme a Jabhat al Nusra, la branca siriana di al Qaeda, visto che l’obiettivo comune è abbattere Assad. Maaruf precisa: “Se chi ci sostiene ci dice di dare armi a un altro gruppo, gliele diamo, come è successo a Yabrud”. Con l’aiuto del Fronte islamico (salafita) e dell’Esercito islamista dei mujaidin di Aleppo, il Srf ha obbligato l’Isis a ritirarsi da Aleppo a Jarabalus. Ma se le atrocità dell’Isis sono troppo perfino per al Qaeda, certo nessuno nega che al Nusra sia responsabile di molte atrocità, comprese esecuzioni e sgozzamenti documentati dai loro stessi video.
Ancora nel marzo 2014, fazioni di ribelli più moderate e fazioni jihadiste con l’aiuto di combattenti radicali dall’Arabia Saudita (il “green Battalion” di veterani sauditi in Afghanistan e Iraq) cooperano nella zona di Qalamun, vicino alla frontiera libanese, per respingere le forze governative. Lo dichiarano attivisti come Abu Omar al Homsi (che di lì a poco sarà arrestato in Libano come membro di al Nusra), spiegando che il tutto è coordinato da un centro operativo che fa capo ad al Nusra.
Il 9 giugno 2014, il capo dello staff del Supreme military council dell’Esl dichiara alla Reuters che gli Usa distribuiscono armi direttamente a gruppi difficili da controllare sul fronte nord e sud. Ciò potrebbe portare a un’altra Somalia.
Robert Fisk aveva ragione.

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