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31/07/2014

Senza investimenti né credito. La crisi italiana parte da qui


Alla fine ci arrivano anche gli economisti normali: la crisi italiana è parte – ovviamente – della crisi golbale, ma possiede una sua specificità: gli imprenditori italiani non vogliono investire soldi propri (a proposito di “amore per il rischio di impresa”) e le banche non intendono fare credito alle imprese impegnate nell'economia reale (troppo lunghi i tempi di ritorno del profitto).

Le ragioni che mantengono in vita questa paralisi totale sono oggetto di interpretazioni anche diverse, alcune persino condivisibili – sul piano puramente analitico – quando incentrate sul carattere “oggettivo”, non superabile volontaristicamente, del “sistema” in cui ogni soggetto economico è costretto. Le banche, per esempio, trovano più “facile” e soprattutto redditizio investire in prodotti finanziari, in fusioni societarie, ecc; mentre – dice ad esempio Alessandro Pansa sul Corriere della Sera – “non hanno più le competenze interne per valutare lo sviluppo di una nuova macchina utensile o di una linea di montaggio”. O sei un'azienda già quotata in borsa, oppure ti guardano come un rebus, non un'occasione di business.

È il risultato di aver trasformato l'attività finanziaria in una “industria a sé stante”, superando la fase “eroica” del servizio alla manifattura. Chiaro che dopo vent'anni non ci sono più crediti a disposizione di imprenditori peraltro già restii a metterci capitale proprio. Il “paese” perde competenze in tutti i campi e diventa “inadeguato sul piano strutturale, quanto a patrimonio tecnologico, infrastrutture, sistema dei prodotti, dimensione e composizione azionaria delle imprese”.

Una situazione del genere non la rianimi abbassando i salari o cancellando le regole del mercato del lavoro, perché il vantaggio competitivo derivante dai salari più bassi (siamo già al “lavoro volontario e gratuito”, nel caso dell'Expo 2015) è sensibile soltanto per le imprese tecnologicamente più arretrate, le uniche in cui la voce “costo del lavoro” rappresenta una percentuale maggioritaria della struttura dei costi.

È per questo che aumenta il numero di coloro (da Confindustria a Confcommercio, ed ora anche a numerosi analisti mainstream) che chiedono ora una “banca di investimento”, appositamente dedicata al credito per le imprese. Qualcuno, come il già citato Pansa, pensa che questo possa essere l'avvio di una “politica industriale”, inesistente da decenni in questo paese (grosso modo da quando è stata sciolta l'Iri e sono entrati in vigore i trattati di Maastricht, con i relativi divieti per gli investimenti pubblici). Un'illusione, naturalmente. Ma anche un segnale che il punto di non ritorno del “sistema paese” sta per essere superato. Se ciò è vero – e lo è certamente – non ha più senso continuare a recitare le giaculatorie neoliberiste (specialità renziana, così come lo erano per Monti e Letta, e tutti quelli al servizio diretto della Troika) sulla “mano invisibile del mercato” che mette spontaneamente tutto a posto.

Bisogna aumentare gli investimenti e serve una banca per metterli in moto.

Ovvio. Ma che banca dovrebbe essere? O meglio, chi dovrebbe metterci il capitale iniziale? Difficile che possa essere un “grande istituto di credito” (se non in piccolissima parte) o un grande gruppo assicurativo (per le stesse ragioni). Non è il loro business, non sanno dove mettere le mani se qualcuno gli presenta un piano industriale fatto di macchine industriali. E allora non resta che chiedere all'odiato “pubblico”, ovvero allo Stato, di mettere in moto la prima palla di bene, sperando che diventi valanga. Non si contano più quelli che suggeriscono di usare parte del patrimonio liquido della Cassa Depositi e Prestiti (ci aveva provato già Tremonti) come “sangue fresco” per una nuova banca così finalizzata.

L'idea è in fondo semplice: prendiamo un po' di risparmi popolari (la Cdp è nutrita dai risparmi depositati presso Poste Italiane, in pratica la cassaforte dei pensionati) e diamo soldi agli imprenditori che non vogliono rischiare soldi propri.

Alla canna del gas, vogliono fare i keynesiani coi risparmi del vecchio nonno. Davvero “innovativi”...

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