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25/07/2014

Se il responsabile economia Pd dice a Sky: “la prossima manovra finanziaria sarà impegnativa”

È ormai evidente che l’attenzione politica interna delle prossime settimane, salvo cataclismi, sarà condizionata dalla vicenda della riforma del Senato. Vicenda che viene rappresentata un po’ come il formato fiction del viaggio della Costa Concordia: massima attenzione ai particolari minuti ed inutili, alle battute da buffet e piena genericità sulle questioni robuste e strutturali. Mentre sullo scenario incombe, qui in piena differenza con la rappresentazione della Concordia, l’imperativo del “fare presto”. E qui vedremo se verrà fuori una forma istituzionale altamente difettosa, come può nascere dal voto alle camere, oppure uno strumento di accelerazione dei processi di decisione politica. Al netto del fatto se questi processi possano avere senso o meno. Oppure se abbiano un rapporto con una qualche procedura democratica o no, visto che le “riforme” si stanno profilando come la preda del vincitore. Non una ristrutturazione sistemica ma un premio a favore della cordata, di volta in volta, dominante.

Eliminare, su alcune materie, una camera e restringere il numero dei parlamentari non resterà infatti senza conseguenze. Specie se passerà l’innalzamento del quorum per i referendum, e per le leggi di iniziativa popolare, il disegno della riforma del senato apparirà chiarissimo: portare quanti più nodi decisionali possibili nelle mani dell’esecutivo togliendoli al potere legislativo e a quello giudiziario (di cui si manifestano propositi di riforma sia nel Pd che, ovviamente, in Forza Italia). Certo, il risultato reale, quello dopo il voto alle camere, parlerà del fatto se queste intenzioni rimarranno sulla carta o meno.

Quelle che non sembrano proprio solo intenzioni vengono, invece, dai segnali sulla prossima legge finanziaria, che oggi si chiama legge di stabilità in omaggio ad un rigorismo contabile da zombie economics. E qui si noti che, quando vogliono, i media riescono a far filtrare le intenzioni del governo. Specie quando i dibattiti si rivolgono ad un pubblico di nicchia o di professionisti che deve decodificare o ordinare il diluvio di notizie, anche contradditorie, che lo riguarda. E così a Sky-Tg economia ospite Taddei, responsabile economia del PD, è andata in onda una trasmissione dove, prima di tutto, si è parlato dei tagli possibili nella prossima legge di stabilità. Questo, mentre a livello di dichiarazioni governative si nega ancora la possibilità di una finanziaria fatta di tagli o, comunque, di problemi riguardanti il bilancio del paese. Quando nel dibattito era ormai palese che le prossime scadenze finanziarie italiane non saranno una passeggiata, dopo che è stato chiesto a Taddei se avesse un’idea dei numeri a disposizione del governo, il responsabile economia Pd ha detto testualmente: “la prossima manovra finanziaria sarà impegnativa”. Senza smentire nessuno e lasciando in termini vaghi l’altra questione che circola da tempo: il problema dell’impatto del fiscal compact europeo sui beni pubblici italiani (impatto che ha stime che vanno dai 5-7 miliardi di euro annui, per un ventennio, fino ai 50 passando dai 20. E non si parla di manovra ma solo della voce “riduzione del debito”). La “manovra impegnativa” di Taddei, a parte la cosmesi contabile, che ci sarà, con qualche sgradita sorpresa, magari ridotta apparentemente al minimo da un governo attento all’immagine, non potrà che riguardare tre voci: investimenti, spesa corrente, spesa sociale (distinguendo qui tra spesa per l’amministrazione e spesa per le prestazioni sociali per capirsi sul fatto che, per colpire la seconda, il governo cercherà di fare tanta retorica sugli “sprechi” della prima).

Il governo, nelle trattative con l’”Europa” per la “flessibilità” di bilancio, cercherà di strappare qualche fondo europeo. Magari sperando di controbilanciare una riduzione degli investimenti pubblici in linea con i parametri europei quindi forte. E che non ci si debba aspettare grandi investimenti dal mitico privato, sanatoria di tutti i discorsi ideologici che non tornano anche nella sinistra social-liberista, lo si capisce dallo stesso Renzi. Il quale, dal Mozambico, ha redatto di persona la stima del Pil raggiungibile dopo i 1000 giorni di riforme da lui preventivati: 1,9 per cento, si presume annuo. Ora, per ripartire (compensare gli investimenti pubblici persi negli anni scorsi, puntare su una crescita centrata sul reddito, ricostruire i servizi, diffondere tecnologie) l’Italia avrebbe bisogno, ci teniamo bassi tenendo a memoria una serie di studi dedicati, almeno del triplo in questi mille giorni e del doppio annuale previsto da Renzi. Tassi di crescita che non esistono nelle economie capitalistiche contemporanee. Un po’ poco per attirare davvero investimenti privati in economia ma sappiamo che Renzi parla per le borse, e non per il paese, e l’1,9 dichiarato a Piazzaffari andrebbe benissimo. Peccato, nel giro di 48 ore dalle serate mozambicane del presidente del consiglio, l’obiettivo di Renzi sia già stato smentito dalle previsioni di crescita dell’economia americana. La fragorosa riduzione di un punto di crescita della stima del Pil americano da parte del FMI rende già da oggi, visto il persistente ruolo di locomotiva mondiale degli Usa, impossibile questo 1,9 per cento. A prescindere dal fatto che le riforme entrino o meno a regime. Si capisce quindi il perché di una manovra “impegnativa”: il Def, documento economico finanziario, approvato ad aprile dal governo in vista della manovra successiva prevedeva una, diciamo, vivace crescita mondiale.

La necessità della revisione al ribasso delle stime, ufficialmente iscritte nel Def, della crescita globale comporterà invece tagli ai beni pubblici. Visto che l’Europa non farà sconti e che si apre la stagione del fiscal compact, si comprende che la manovra rischia, se non interviene una qualche efficace tattica dilatoria, di essere davvero impegnativa. Non proprio una ripartenza folgorante, col governo Renzi come fulcro, dopo un periodo di alternanza tra stagnazione e recessione in Italia. La solita differenza tra marketing e realtà, insomma. Peccato sia a spese di un intero paese.

Dopo anni di crisi naturalmente si cercano soluzioni. Ma sono molto lontane dal vedere la luce. Bastasin sul Sole 24 ore parla testualmente di necessità di un piano di investimenti europeo, di spessore continentale ed epocale, guidato dalla Germania. Ma la Germania ha queste intenzioni? Nei primi anni del dopo Lehman l’export perso nel continente nella compressione del Pil europeo, causato proprio dall’austerità voluta da Berlino, è stato compensato per la Germania dalle esportazioni verso i verso Brics. Mentre die Welt già si lamenta per l’euro sotto 1,35: è un segnale che nella maggioranza Merkel si punta ancora al binomio moneta forte-primato dell’export competitivo grazie ai livelli di produttività, tecnologia e logistica raggiunti dalla Germania. “Prestare da banche tedesche per far acquistare merci tedesche”, la solita legge che porta il resto dell’Europa verso i margini, come si è visto nell’ultimo lustro. Il resto è retorica da cerimoniali sull’Europa, sul continente di pace, sul futuro in comune e tutto il consueto abuso di credulità popolare esercitato in materia. In realtà l’Ue è un campo di forza dove i paesi più ricchi vampirizzano le risorse degli altri per mantenersi vivi in un periodo di paralisi dell’economia mondiale. Tra una bolla finanziaria e l’altra. E’ già accaduto, bolle finanziarie comprese, in scala più piccola nel rapporto tra regioni ricche e regioni povere dell’Italia tra il periodo unitario e la prima guerra mondiale. Avremmo quindi l’esempio sul campo già pronto se non fosse che la retorica risorgimentale ha sepolto la memoria storica del periodo.

Insomma, sarà la solita legge di stabilità pro-ciclica (di una ciclicità fatta di depressione-tagli-nuova depressione-nuovi tagli) magari stavolta venduta, a reti unificate, assieme alla legge sul senato e a inviti, magari nemmeno tanto velati, alla Germania “a fare la sua parte visto che l’Italia ha fatto la sua”. Solo che il capitalismo tedesco la “sua parte” continuerà a farla come sa: in quanto nodo produttivo e finanziario dell’Europa continentale in egemonia e autonomia dal resto dell’Ue. Non c’è niente di peggio di un governo che cade vittima della propria propaganda. A volte il governo Renzi sembra proprio credere, almeno per la comunicazione che dà di sé, che la Germania si pensi, prima di tutto ed in ultima istanza, come membro dell’Ue. E che i rapporti con gli stati dell’Ue, o con la commissione di Bruxelles, contino sempre di più di quelli con Cina, Russia o anche Brasile. Forse è vero che far assumere la propaganda agli altri come una droga, alla fine, ti porta a rimanerne intossicato. Eppure, una volta tanto, se il responsabile economia del Pd comincia a parlare di manovra impegnativa esce dalla propaganda. Resta da capire se, al di là delle trasmissioni di nicchia, arriverà il messaggio che il governo Renzi non ha reali soluzioni di fronte ad una crisi che dura già da anni. Sempre se non ci si accontenta di discutere della riforma del senato. I blog degli opinionisti di sinistra, cimiteri della presa di posizione pubblica, sono già pieni di queste discussioni. Il genere è quello del camposanto delle belle intenzioni, ragionamenti digitali sui quali si può piantare solo una luminosa croce bianca. Il resto è per chi si occupa, e fa, politica. Allora qui l’orecchio si tende: ecco una frase sibillina “manovra impegnativa”, sottile e fortemente rivelatrice.

Per Senza Soste, nique la police

24 luglio 2014

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