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21/06/2014

Piccoli paesi contro i mostri

di Alessandro Iacuelli

Ci sono in Italia 5000 piccoli borghi al di sotto dei 5000 abitanti. Di questi, due terzi sono collocati lungo la dorsale appenninica e c'è chi ha scelto di viverci. Chi perché ci è nato, chi perché era emigrato e dopo anni è tornato a casa, chi perché ha scelto di allontanarsi da città sempre più congestionate, sovraffollate e invivibili. Questi borghi stanno scomparendo, sotto i colpi di una “modernizzazione”, di uno “sviluppo” che va in una direzione imposta e non condivisa.

A colpi successivi, governi ed enti locali li stanno spopolando, forzando la migrazione verso le squallide periferie delle grandi città. Progressivamente nel tempo, si delocalizza la scuola che c'era nel piccolo borgo, un'altra volta si chiude l'ospedale che serviva 10 o 20 di questi piccoli centri, e la carenza di servizi forza gli abitanti a migrare verso le grandi aree urbane.
E' un piano studiato a tavolino di spopolamento delle zone interne dell'Appenino, soprattutto quello centrale e meridionale, che rischia di sconvolgere la stessa geografia dell'Italia. Spostare sì, ma a quale scopo?

Anche se il mondo della politica non lo dice, appare fin troppo chiara una scientifica pianificazione di una nuova riorganizzazione del territorio della penisola. Le aree interne, secondo le intenzioni di chi ha governato e governa, trasversalmente all'arco costituzionale, vanno riusate a nuovi scopi non abitativi.
Così, dopo la Basilicata, è il turno dell'Irpinia di essere al centro di una nuova campagna di trivellazioni petrolifere nelle valli e sulle montagne. Pazienza se si va ad insistere su una zona dove si preleva acqua che va a dissetare un bacino di sei milioni di persone, il 10% degli italiani.

Contemporaneamente, dalle Marche e dall'alto Lazio fino alla stessa Irpinia, è tutto un fiorire di progetti di centrali elettriche, il più delle volte a gas, o ad incenerimento di rifiuti prodotti altrove, che vanno poi allacciate alla rete elettrica nazionale mediante elettrodotti ad alta tensione che sconvolgono il territorio, distruggono ed eliminano aree destinate all'agricoltura o all'allevamento, portano inquinamento elettromagnetico elevato in borghi medievali di 2000 abitanti, che fino a ieri non sapevano neanche cosa fosse l'inquinamento.
Ancora, come se non bastasse, i territori diventano destinatari di progetti di smaltimento dei rifiuti delle grandi città, dalle discariche, fino alle piattaforme per far sparire dalla vista i rifiuti industriali pericolosi.

Per rendere realtà questo progetto di “modernizzazione” del Paese c'è un impedimento da superare: l'esistenza dei cittadini, visti sempre più come il peggiore ostacolo per una democrazia moderna. Pertanto, funzionale al grande progetto, è necessario forzare lo spopolamento, l'abbandono dei piccoli centri.

Certo, non si può deportare la popolazione con la forza, quindi la strategia adottata è quella di far sparire i servizi. Eliminare istruzione, sanità, uffici pubblici, negozi e centri commerciali, fabbriche e attività economiche e, quando la popolazione locale scende oltre un certo limite, viene rimosso anche il medico di base; il tutto per fare in modo che la gente decida da sé di andarsene altrove, togliendo il disturbo.

La terra e la gente dei piccoli paesi delle aree interne meridionali, dall’Irpinia al Salernitano, dalla Puglia alla Lucania, sono sotto attacco. I vecchi emigranti che erano ritornati vedono i figli e i nipoti fare le valige e abbandonare un territorio dove lo stato sociale e i servizi essenziali non sono più garantiti.
Mentre scompaiono presìdi scolastici e sanitari, piccoli tribunali e uffici postali, azzerando in pochi anni le conquiste ottenute dal dopoguerra, procede, di pari passo, l’aggressione a un territorio il cui destino sembra lo spopolamento e il degrado.

Terra, aria, acqua sono a rischio o già compromesse: discariche abusive e sversamenti diffusi, esplorazioni petrolifere in aree sismiche e ricche d’acqua, eolico selvaggio ed elettrodotti, aree di ricarica dei bacini idrici a rischio, depuratori inesistenti, emissioni fuori norma nei nuclei industriali, impianti a biomassa che successivamente diventano inceneritori e molto altro.

Da qualche tempo, gli abitanti di questi piccoli centri, soprattutto in Campania, hanno iniziato a dialogare tra di loro, da Torrita Tiberina a Castelvetere sul Calore, dando vita ad un “forum ambientale” dell'Appennino, dove mettono in comune le proprie esperienze e assieme concertano iniziative di resistenza.

E' un movimento in crescita: ad ogni incontro il numero di partecipanti aumenta. Non per coscienza politica o ambientale, quella magari verrà dopo, ma per paura. Paura delle grandi aziende che gli rubano la terra e mettono centrali, inceneritori, impianti a biomassa che poi diventano chissà cosa.
Paura di cosa c’è nell’acqua che bevono e fanno bere ai loro figli, delle microdiscariche vicino casa e dell’amianto che altri vanno a scaricare, paura degli elettrodotti che passeranno, di quelli che già ci sono e di tanto altro ancora.

Da questa paura, che si trasforma in partecipazione, sta nascendo un centro studi, una serie di iniziative sia di pressione politica, a tutti i livelli, sia di informazione verso la popolazione. L'obiettivo dichiarato è quello di spingere verso una revisione delle politiche territoriali, per rendere l'Appennino territorio di una nuova forma di sviluppo: dalla piccola agricoltura, al ripristino delle forme di allevamento, fino al turismo paesaggistico, il tutto condito dal recupero dei vecchi borghi storici e del riabitarli.

Un movimento dal basso di cui seguire progressi ed evoluzioni. Una speranza, per la bellezza dell'Appennino, la cui unica possibilità di resistere sta nel passare dalla rassegnazione alla consapevolezza e poi all’azione politica.

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