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27/06/2014

Iraq - Teheran sfida la Casa Bianca, i sauditi stanno alla finestra

L’unità di élite Quds delle Guardie Rivoluzionarie iraniane
di Chiara Cruciati

Il Medio Oriente è in subbuglio, gli occhi puntati su Baghdad. Ognuno tenta di infilarci le mani per riportare a casa qualche punto a favore degli interessi interni e regionali. Oggi il segretario di Stato Usa Kerry visita Riyadh per “discutere delle modalità di intervento in Iraq” con il re Abdallah al-Saud, responsabile di aver infiammato la crisi siriana e ora quella irachena finanziando e armando gruppi radicali sunniti nell’area. L’Arabia Saudita ha detto ieri di voler prendere tutte le misure necessarie per proteggere i propri interessi nazionali. Tradotto, evitare di mettere in pericolo quelle reti di alleanza e di potere che gli garantiscono di muoversi liberamente nella regione.

Una dichiarazione a cui segue l’annuncio di oggi della Casa Bianca: Obama intende chiedere al Congresso il via libera per investire altri 500 milioni di dollari per l’addestramento e l’equipaggiamento delle opposizioni siriane al presidente Bashar al-Assad. Altri soldi, altre armi. Realpolitik: Washington – che oggi ha interessi regionali inaspettatamente più vicini a quelli di Teheran e Damasco – non può abbandonare gli alleati del Golfo e aprire la strada al rafforzamento del blocco sciita Iran-Siria-Hezbollah. Per cui prosegue con un sostegno finanziario e militare che ad oggi ha solo incrementato a dismisura i settarismi interni e ha fatto fiorire le opposizioni radicali, marginalizzando quelle moderate.

I 500 milioni saranno parte di un pacchetto più ampio, 1,5 miliardi destinati a iniziative di stabilizzazione regionale, che coinvolgeranno Giordania, Turchia, Libano e Iraq. Washington preferisce proseguire con la diplomazia e l’armamento di gruppi di miliziani, senza decidere ancora per l’utilizzo o meno dei droni chiesto da Baghdad. E così a muoversi sono Iran e Siria. Il presidente Assad ha già provveduto con una serie di bombardamenti contro la provincia sunnita irachena di Anbar, occupata dall’Isil e usata come punto di passaggio di armi e miliziani dall’Iraq alla Siria e viceversa. Iniziativa che il premier Maliki – ormai intenzionato a scaricare la Casa Bianca – ha salutato con piacere. Nelle stesse ore, era Teheran ad organizzarsi: da alcuni giorni la stampa Usa, citando fonti dell’intelligence, parla di droni iraniani in volo di ricognizione sopra il territorio iracheno e dell’arrivo di tonnellate di equipaggiamento militare a sostegno dell’esercito governativo. Oggi lo stesso regime di Teheran ha fatto sapere di aver inviato in Iraq consiglieri militari e il generale Qassim Suleimani, capo delle milizie Quds, unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie.

L’attivismo in questione non piace affatto a Washington: «Abbiamo reso chiaro a tutti nella regione che non abbiamo bisogno di interventi che possano esacerbare le divisioni – ha detto ieri Kerry da Bruxelles – È importante che niente infiammi i settarismi». Un discorso chiaramente rivolto a Damasco e Teheran, già attivi: la Siria vuole impedire una crescita sproporzionata dei gruppi di opposizione al regime e l’Iran intende usare Baghdad come piede di porco per ribaltare definitivamente gli equilibri mediorientali, oggi favorevoli alle petromonarchie sunnite del Golfo.

In casa Iraq la battaglia prosegue, con l’esercito di Baghdad che resiste solo grazie al fondamentale apporto dei due milioni di volontari sciiti unitisi alle sue file. È comunque scarsa la presenza di truppe regolari nelle regioni settentrionali, quasi del tutto occupate dai jihadisti e in parte controllate dai peshmerga curdi. Proseguono intanto gli scontri intorno alla raffineria di Baiji, parzialmente in mano all’Isil, che ieri ha occupato altri pozzi di petrolio vicino Baghdad, a Mansouriyat al-Jabal. Battaglia in corso anche a Tikrit, città natale di Saddam Hussein, il cui fantasma aleggia sulla crisi. Non sono pochi quelli che oggi rimpiangono l’autoritarismo del rais, che seppe tenere insieme etnie e sette religiose.

L’offensiva dell’Isil è diventata un’occasione d’oro soprattutto per i fedelissimi del vecchio rais: sono subito ricomparse le milizie baathiste, a fianco degli islamisti per riprendersi il paese. Un’alleanza che serve soprattutto ai jihadisti: i generali dell’ex regime conoscono a menadito il territorio e godono di un’organizzazione militare di livello. La presa di Mosul, si dice, sarebbe stata possibile grazie al fondamentale intervento baathista, che scombina le carte del gioco delle alleanze regionali.

Il premier Maliki, insomma, ha poche ragioni per dormire sereno. Dopo aver rifiutato le richieste internazionali di dare vita ad un governo di unità nazionale, ora spera nella prima riunione del nuovo parlamento, il prossimo martedì, per riconquistare la poltrona di primo ministro. I pericoli non sembrano giungere, però, dalle piccole e litigiose fazioni sunnite, quanto da quelle sciite, molte delle quali intenzionate a non dare sostegno ad un nuovo esecutivo Maliki. In prima fila contro il premier è Moqdata al-Sadr, protagonista nei giorni scorsi di una prova di forza significativa: decine di migliaia di miliziani a lui fedeli e di sostenitori hanno sfilato per le strade di Sadr City, armati e in uniforme, a dimostrazione del potenziale militare di cui gode ancora il religioso.

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