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25/06/2014

Giappone: Abe Cesare?

di Michele Paris

Uno degli obiettivi principali del primo ministro ultra-conservatore del Giappone, Shinzo Abe, fin dal suo ritorno al potere sul finire del 2012 è stato quello di imprimere una svolta in senso militarista al paese, in modo da avere a disposizione uno strumento fondamentale per le ambizioni da “grande potenza” coltivate dall’estrema destra nipponica.
Per raggiungere lo scopo che lo stesso premier si era prefissato almeno un decennio fa, è però necessario modificare, o quanto meno “reinterpretare”, la Costituzione marcatamente pacifista del paese asiatico, approvata nel 1947 durante l’occupazione americana.

In particolare, nel mirino di Abe e del suo Partito Liberal Democratico (LDP) c’è l’articolo 9 che recita: “Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come strumento per la risoluzione delle dispute internazionali”. Per questa ragione, il Giappone non può mantenere “forze di terra, di mare, di aria e qualsiasi altra forza potenzialmente militare”.

Inizialmente, sull’onda del relativo entusiasmo suscitato tra i media e gli ambienti del business giapponesi dalla creazione del suo Gabinetto, Abe era intenzionato a riscrivere interamente questa parte della Costituzione. Di fronte alle resistenze del principale partner di governo del LDP, il partito buddista Nuovo Komeito, e soprattutto alla profonda opposizione popolare, Abe è stato però costretto a fare una parziale marcia indietro.

Per implementare qualsiasi modifica alla Costituzione giapponese è necessaria infatti l’approvazione di entrambi i rami della Dieta (Parlamento) con una maggioranza di due terzi. Gli emendamenti, inoltre, devono essere sottoposti a un referendum popolare.

Di fronte a questi ostacoli rivelatisi insormontabili, il primo ministro ha deciso così per una scorciatoia, inventando cioè il concetto profondamente anti-democratico di “reinterpretazione” della Costituzione stessa per raggiungere in sostanza lo stesso obiettivo.

Abe ha allora nominato una speciale commissione formata da personalità sulla sua stessa lunghezza d’onda a cui ha affidato l’incarico di fornire raccomandazioni circa il ruolo delle Forze di Auto-Difesa, ovvero l’esercito giapponese, istituite nel 1954 nonostante i limiti imposti dal dettato costituzionale. Ottenuto l’inevitabile appoggio della commissione al suo progetto, Abe si è presentato ai propri alleati per trovare un accordo sulla “reinterpretazione” dell’articolo 9, incontrando però maggiori ostacoli del previsto anche all’interno del suo stesso partito.

Il piano del premier si basa sul principio di “difesa collettiva”, in base al quale le forze armate giapponesi potrebbero partecipare ad azioni militari non solo per difendere il paese in caso di attacco ma anche a fianco di un alleato, se fosse quest’ultimo ad essere attaccato.

La mossa di Abe è appoggiata dagli Stati Uniti, i quali vedono con favore la soppressione di qualsiasi vincolo costituzionale che limiti il pieno coinvolgimento del Giappone nelle manovre di Washington in Estremo Oriente. Queste ultime, com’è noto, prevedono un’escalation militare nei confronti della Cina, con il rischio concreto di scatenare una guerra rovinosa, e la parallela formazione - sempre in funzione anti-cinese - di un’alleanza militare con paesi come Australia, Filippine, Corea del Sud e, appunto, Giappone.

Negli ultimi anni, peraltro, le forze armate nipponiche hanno già contribuito alle avventure belliche statunitensi, sia in Afghanstan che in Iraq, ma l’intenzione di Abe è ora quella di attribuire ai propri militari la piena capacità di condurre operazioni di combattimento al fianco degli alleati.

Il Giappone, inoltre, è già ampiamente coinvolto nelle strategie belliche degli USA, come dimostra la presenza di basi militari americane sul proprio territorio. Tuttavia, mentre l’alleanza tra i due paesi obbligherebbe i militari americani ad assistere il Giappone in caso di aggressione nei suoi confronti, le forze armate di Tokyo non potrebbero ad esempio affiancare gli Stati Uniti in una guerra contro la Cina per via dei limiti costituzionali.

La “reinterpretazione” dell’articolo 9 ideata da Abe è comunque solo l’ultima delle iniziative adottate dal primo ministro a partire dal dicembre 2012. L’impronta militarista al paese è risultata evidente anche dall’aumento delle spese militari, così come dalla crescente aggressività mostrata nei confronti della Cina attorno alle dispute territoriali nelle acque condivise con il vicino occidentale.

Infine, il governo del LDP ha recentemente istituito un Consiglio per la Sicurezza Nazionale sull’esempio di quello americano, mentre ha rinvigorito l’alleanza strategica con Washington e avviato una campagna all’insegna del revisionismo storico nel tentativo di sminuire i crimini di guerra commessi dall’imperialismo giapponese negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.

Questa preoccupante evoluzione registrata a Tokyo ha determinato un deterioramento dei rapporti non solo con la Cina ma anche con la Corea del Sud, vittime entrambe della durissima occupazione giapponese fino alla seconda Guerra Mondiale. In maniera ovvia, i due paesi hanno perciò criticato aspramente l’intenzione del primo ministro giapponese di rivedere la propria Costituzione in senso miltarista.

Come già anticipato, le mire di Abe sulla Costituzione sono viste con sospetto anche dall’alleato di governo Nuovo Komeito, in larga misura a causa delle tendenze generalmente pacifiste della base elettorale di quest’ultimo partito, formata in prevalenza da giapponesi di fede buddista.

Per far digerire la “reinterpretazione” dell’articolo 9 a questo partito sono in corso da giorni accese trattative, visto che Abe vorrebbe affrettare i tempi dell’approvazione da parte del suo gabinetto. L’urgenza è resa necessaria dalla crescente opposizione nel paese per l’accelerazione militarista impressa dal governo e in previsione dell’imminente approvazione di un nuovo impopolare aumento dell’imposta sui consumi.

Per superare le resistenze del partito Nuovo Komeito, Abe potrebbe apportare delle modifiche alla sua proposta, ad esempio inserendo il principio della “sicurezza collettiva” nell’ambito di operazioni militari approvate da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questa proposta, emersa durante i negoziati della scorsa settimana, secondo il quotidiano Asahi Shimbun sarebbe tuttavia già stata scartata.

Un’altra ipotesi potrebbe essere invece quella di consentire l’intervento militare soltanto nel caso in cui si presentasse “un pericolo esplicito” per la popolazione giapponese e non semplicemente se ci fosse “il timore” di una minaccia al paese, com’era stato inizialmente stabilito.

Secondo gli osservatori, in ogni caso, i due partiti riusciranno alla fine a trovare un punto d’incontro che permetterà al primo ministro di ottenere quanto desidera, come conferma la rassicurazione fornita da tempo dai vertici del Nuovo Komeito di non avere alcuna intenzione di abbandonare la coalizione di governo a causa della questione della “sicurezza collettiva”.

La volontà del governo di Tokyo di mettersi alle spalle in fretta la “reinterpretazione” della Costituzione circa il ruolo delle forze armate è più che comprensibile alla luce degli umori del paese. Come hanno mostrato svariati sondaggi, infatti, la percentuale dei giapponesi contrari all’iniziativa del premier Abe appare in continua crescita.

In una rilevazione risalente allo scorso maggio della rete televisiva NHK, ad esempio, il 41% degli intervistati si era detto contrario alla “reinterpretazione” contro il 34% di favorevoli. Secondo un sondaggio pubblicato qualche giorno fa dall’agenzia di stampa Kyodo, addirittura, i contrari sarebbero ora saliti al 55,4%, mentre quasi il 58% ha espresso il proprio malcontento per il metodo con cui Abe sta operando per implementare una vera e propria modifica costituzionale aggirando le regole stabilite.

Più in generale, lo stesso sondaggio ha evidenziato il raggiungimento da parte dell’esecutivo guidato dal LDP del punto più basso in termini di gradimento (52,1%) dal suo insediamento a fine 2012, prospettando una crescente opposizione nel paese nei confronti non solo della riproposizione di un pericoloso militarismo, fortemente avversato dalla maggioranza della popolazione, ma anche delle ricette economiche ultra-liberiste su cui si basa il programma di governo di Shinzo Abe.

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