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30/06/2014

Egitto - Il ritorno di censura e repressione

Sembra il finale di una commedia poliziesca, ma è tutto realtà. La “Cellula del Mariott” è stata condannata a 7 anni di carcere con l’accusa di aver fabbricato notizie false e tendenziose atte a sostenere la Fratellanza Musulmana, il movimento islamista nuovamente bandito dopo il ritorno dei militari al potere. Non facendosi abbagliare dalla narrativa dominante che da un anno etichetta indistintamente i sostenitori della Confraternita come terroristi, la sentenza contro i componenti della cellula – tre giornalisti di Al-Jazeera arrestati in un albergo de il Cairo da dove cercavano di contattare alcuni islamisti – appare il frutto di un processo fabbricato ad arte per punire l’emittente qatariota.

Per mostrare la sua magnanimità alla comunità internazionale, il nuovo presidente Abdel Fattah al-Sisi potrebbe graziare gli imputati, due dei quali hanno in tasca un passaporto straniero. Ciononostante, la recente condanna è la cartina tornasole dell’ultimo giro di vite repressivo impresso dal “nuovo” regime egiziano alle – poche – voci stonate.

CENSURA E REPRESSIONE. Conosciuta e invisa per l’indiscusso sostegno garantito alla Fratellanza anche quando questa ha mostrato il suo volto autoritario e violento, Al-Jazeera è stata la prima emittente oscurata dopo l’intervento militare dello scorso luglio. Anche se la comunità internazionale ha alzato la voce solo ora, la morsa sulla libertà di espressione e di informazione è stata infatti una costante della politica del “nuovo” regime. I media continuano ad agire in un contesto storicamente illiberale e, soprattutto negli ultimi due anni, estremamente polarizzato. Basta riguardare alcune trasmissioni degli anni ‘50 per capire che sin da allora esiste un filo rosso oltre il quale è pericoloso andare. All’epoca del presidente Gamal Abdel Nasser i media erano sotto il controllo dello stato, ma anche se nei tre decenni mubarakiani qualcosa si è smosso, le voci critiche del potere devono sempre combattere contro il Golia di turno.

Osservando la recente evoluzione del palinsesto televisivo egiziano si riconoscono i meccanismi utilizzati dal regime per tenere sotto controllo l’opinione pubblica. Da quando l’ex generale Al-Sisi è ufficialmente alla guida del paese, il celebre comico della rivoluzione Bassem Youssef è uscito di scena, denunciando le pressioni subite dall’emittente del suo show, una televisione saudita che deve fare i conti con la famiglia reale, generosa sostenitrice del ritorno al potere dei militari egiziani. In questi giorni, le autorità de il Cairo hanno anche impedito il debutto di una musalsal – soap opera seguitissime nel periodo di Ramadan alle porte – su un protagonista della rivoluzione del 2011. A scriverla, guarda caso, la penna di Belal Fadl, uno dei pochi intellettuali critici dei militari già censurato per aver punzecchiato Al-Sisi.

Liberà di espressione a parte, la sentenza sulla “Cellula del Mariott” è anche l’ultimo di una lunga lista di verdetti contro chi si oppone al ritorno dei militari. Dalle condanne a morte di massa contro membri e sostenitori della Fratellanza agli arresti di icone della rivoluzione del 2011 contrarie alla nuova legge sulle manifestazioni: l’apparato di sicurezza egiziano influenza l’attività di quella Magistratura che, almeno seguendo l’evoluzione costituzionale, sembrerebbe guadagnare sempre più autonomia dall’esecutivo.

COMUNITÀ INTERNAZIONALE E DIRITTI UMANI.
Anche se la comunità internazionale è stata ufficialmente invitata – con tanto di comunicato inviato dalle sedi diplomatiche egiziane – a non interferire su questioni che non le competono, il dibattito che si è creato attorno al processo della “Cellula del Mariott” è diventato un’occasione per insistere sul rispetto dei diritti umani fondamentali.
In tale contesto si potrebbero richiedere il rilascio dei prigionieri politici e garanzie sullo stato delle carceri egiziane. Giornalisti e organizzazioni umanitarie hanno infatti recentemente denunciato il trattamento disumano subito dai carcerati, tornando a parlare di sevizie compiute in prigioni segrete.

La comunità internazionale non sembra però pronta ad andare oltre le frasi di rito, temendo forse di mettere in dubbio quel ritorno al business as usual che da mesi contraddistingue l’approccio verso l’Egitto. E il Cairo è il primo a notarlo, osservando per esempio la cordialità con la quale alla vigilia della sentenza, il segretario di stato Usa John Kerry è atterrato in Egitto per annunciare l’arrivo dei tanto attesi Apache che si sommeranno ai 572 milioni di dollari versati nelle casse – vuote – del prezioso alleato egiziano.

Limitandosi a generiche frasi di circostanza, la comunità internazionale non fa’ altro che avvallare il forzato ritorno a quella stabilità che nel passato recente ha presentato un costo salato in termini di diritti umani. Vi è inoltre il rischio che questa stabilità si mostri nuovamente insostenibile. Il consenso attorno al nuovo raìs è alle stelle, ma la Sisimania sembra una bolla e, in quanto tale, è destinata, prima o poi, a scoppiare. Nel medio-lungo periodo il fuoco sotto la cenere che la comunità internazionale sta ignorando potrebbe quindi tornare a infiammare il paese.

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