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26/06/2014

Curdi: la crisi irachena come un'opportunità

Una bambina curda del villaggio di Palagan (Kurdistan iraniano)
Negli ultimi giorni è facile trovare la parola Kurdistan in titoli ed articoli relativi alla crisi irachena. Colpisce il fatto che un “non-Stato”, come giuridicamente può essere definita la terra abitata dal popolo curdo, sia al centro del dibattito politico internazionale proprio nel momento in cui un altro Stato, l’Iraq in questo caso, rischia di disintegrarsi a causa delle diverse spinte centrifughe interne. Stupisce ancor di più constatare come la questione del diritto all’autodeterminazione di questo popolo millenario, a lungo posta in secondo piano, torni di attualità nell’ottica di un nuovo equilibrio per un Medio Oriente sempre più instabile.

A tal proposito si tenga presente che la questione curda prende forma all’inizio del secolo scorso con il Trattato di Losanna del 1923 che, ufficialmente, sancisce la divisione del territorio abitato dalla popolazione curda tra Turchia, Siria, Iraq ed Iran (e una piccola parte in Armenia). Decisione consacrata due anni dopo, il 16 dicembre 1925, con la delibera del Consiglio della Società delle Nazioni che confermò la decisione, aggiungendo che l’area di Mosul, il cui status era rimasto sospeso, venisse aggregata al territorio iracheno. Una problematica, dunque, secolare che ha inciso in maniera significativa sia nella vita dei quattro Paesi coinvolti sia, soprattutto, in quella della popolazione spartita tra di essi.

Ci si potrebbe chiedere perché oggi, invece, un Kurdistan autonomo, quando non indipendente, sembri una possibilità non troppo remota anche per le potenze internazionali. Ciò che è cambiato è sicuramente il contesto d’area, ma, perché l’analisi possa essere significativa, sarà necessario tenere presente anche i contesti specifici in cui vivono le quattro comunità curde: non tutte hanno uguali condizioni di partenza e le conseguenze di questa crisi difficilmente si mostreranno con le stesse caratteristiche nei quattro casi.

I curdi in Iraq

La condizione giuridica dei curdi iracheni è molto diversa da quella riservata a questo popolo nei Paesi limitrofi. Durante la guerra del Golfo, a seguito dell’uso di armi chimiche contro la popolazione, gli Stati Uniti imposero sull’area nord-orientale dell’Iraq una no-fly-zone a protezione del curdi. A partire dal 1992 quest’area venne, di fatto, trasformata in un’entità regionale semi-autonoma amministrata dal Governo Regionale del Kurdistan Iracheno (KRG). Negli ultimi vent’anni, dunque, i curdi iracheni hanno creato le proprie infrastrutture economiche, politiche ed amministrative raggiungendo un livello sempre maggiore di autonomia dallo Stato centrale. Questo non è stato, però, solo frutto degli sforzi della dirigenza locale, ma anche di partner internazionali molto interessati a stabilizzare la piccola enclave curda nell’area. Tra i maggiori sponsor del KRG possiamo sicuramente inserire gli Stati Uniti che hanno finanziato la ricostruzione della regione garantendosi un legame duraturo con la dirigenza locale, unica nel contesto iracheno ad assicurare standard di sicurezza tali da permettere investimenti redditizi per le compagnie internazionali.

Se gli statunitensi sono coloro che hanno permesso e favorito la nascita del Kurdistan iracheno, chi, ad oggi, ne consente la sopravvivenza è il Governo turco. Dopo una prima fase di ostilità a causa della mancata presa di distanza dal PKK turco (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) dei partiti curdi iracheni, il Governo turco ha scelto di investire ingenti somme nell’economia della regione (soprattutto nel campo delle infrastrutture) ottenendo due diversi effetti: uno politico ed uno economico. Dal punto di vista politico, la relazione con il KRG ha permesso alla Turchia di mettere in sicurezza il proprio confine, limitando parallelamente il campo di azione del PKK. Dal punto di vista economico, la vicinanza tra Ankara ed Erbil è aumentata specularmene rispetto alla distanza tra Erbil e Baghdad. In questo contesto la produzione di petrolio, di cui il Kurdistan iracheno è molto ricco, ha preso, nonostante le continue proteste e minacce del Governo Centrale, più facilmente la via turca attraverso l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan che non la via irachena.

I dissidi con il Governo di Nuri al-Maliki non sono dovuti, però, al solo rapporto preferenziale con la Turchia. La richiesta di maggiore autonomia e la gestione delle risorse naturali del territorio curdo sono stati i principali nodi del conflitto tra KRG e dirigenza irachena. La disputa di attribuzione su Kirkuk e le provincie limitrofe (Diyala, Sala’h din, Ninive) in base all’Art.140 della Costituzione irachena (articolo che prevedeva la possibilità di referendum nell’aree dove erano avvenuti fenomeni di esodo e deportazione), lo schieramento di forze speciali ai confini tra Kurdistan e territorio iracheno e il taglio dei finanziamenti pubblici al KRG con conseguenti blocchi degli stipendi, sono solo alcuni dei tasselli dell’allontanamento dei curdi dal Governo centrale.

La situazione che va a delinearsi ora, con la discesa in campo dell’ISIL (Stato islamico di Siria e Levante), è conseguenza diretta di questo contesto. Nonostante il pericolo islamista sia presente anche all’interno dei confini curdi come evidenziano le notizie relative ad Halabja e al reclutamento di giovani curdi tra le file dell’ISIL, il Kurdistan sembra resistere all’avanzata jihadista. I peshmerga (forze di difesa curde) sono addestrati ed abituati a dover difendere il proprio territorio e, senza grandi difficoltà, sono riusciti ad ottenere il controllo di Kirkuk oltre a garantire la tutela dei confini della regione. Esiste, inoltre, un sistema di accoglienza che, fino a prima dei dissidi tra le diverse anime della dirigenza curdo-irachena e la chiusura del valico con la Siria, permetteva di dare ospitalità ai profughi curdo-siriani e che, ora, è stato utilizzato per offrire rifugio alla popolazione in fuga dalle aree occupate dall’ISIL e, in particolare da Mosul, dove forte è la presenza curda.

La credibilità politica ed economica costruita in questi anni permette al KRG, inoltre, di porsi come interlocutore per le potenze internazionali in un momento di debolezza del potere centrale. Se, da un lato, il presidente curdo Massoud Balzani critica l’operato di al-Maliki offrendo come soluzione per il futuro dell’Iraq un federalismo che tenga conto delle volontà dei diversi gruppi etnici portando ad esempio proprio l’esperienza curda (si parla, dunque, della possibilità di una regione sunnita nell’area di al Anbar), dall’altra, in una fase di crescita vertiginosa del prezzo del petrolio (che ad oggi si attesta intorno ai 106-107 dollari al barile) si offre come partner commerciale per i Paesi dell’area. In questo senso significativa è la notizia che tre navi cargo colme di petrolio curdo siano salpate da Ceyhan da fine maggio e che, per molti giorni, nonostante un prezzo di vendita estremamente più basso di quello di mercato (si dice si attestasse intorno ai 60 dollari al barile), non abbiano trovato acquirenti. I trattati commerciali con il Governo iracheno ed il fatto che sembrasse inopportuno comprare quel petrolio contro il volere di Baghdad hanno, dunque, fermato i compratori fino a quando una delle tre navi è approdata ad Ashkelon in Israele. Dopo la visita del segretario di Stato USA John Kerry ad Erbil e la presa di distanza netta della Turchia dall’ISIL dopo il sequestro del proprio personale diplomatico a Mosul con conseguente endorsemen totale verso le scelte curdo-irachene, anche Israele si pone al fianco di Erbil, in contrapposizione con la dirigenza irachena e a favore del nuovo interlocutore.

Dato il contesto, sembra, dunque, che il KRG sia considerato l’unico soggetto affidabile per la transizione irachena ed in questo senso deve essere letta la richiesta di Kerry ai curdi-iracheni di partecipazione al processo di stabilizzazione dell’Iraq. La conseguenza è un accrescimento del potere di scambio di Erbil che, dopo questa crisi, difficilmente tornerà alle posizioni pre-presa di Mosul. L’area di influenza del KRG, ormai consolidata su Kirkuk, potrebbe anzi ampliarsi ad altre province e, per quanto l’indipendenza sia una possibilità di difficile realizzazione dato il pericolo che questa rappresenterebbe per gli stati limitrofi, e per la Turchia in particolar modo, in termini di esempio per le altre comunità curde, un’autonomia molto maggiore in uno Stato ufficialmente federale, magari guidato da un politico curdo, potrebbe essere un’opzione praticabile.

I curdi in Siria

La comunità curdo-siriana, è numericamente molto inferiore rispetto a quella irachena, iraniana e turca. Nonostante ciò, la rilevanza acquisita dall’inizio della guerra civile siriana ha permesso agli abitanti del Rojava (Kurdistan occidentale) di essere considerati elemento centrale dei progetti di trasformazione della Siria. Il ruolo ricoperto dalla resistenza curda nel nord del Paese contro i jihadisti dell’ISIL e di Jabhat al Nursa (ora unico rappresentante di al-Qaeda in Siria dopo il disconoscimento dell’ISIL da parte del gruppo guidato da Ayman al-Zawahiri) e la scelta di percorrere una terza via tra il Governo degli al-Assad ed i ribelli, ha portato i curdi siriani a costituire una sorta di “Stato nello Stato” difeso dalle milizie curde ai confini ed amministrato attraverso un sistema di comunità locali.

Un’autonomia che, soprattutto in una prima fase, ha profondamente preoccupato la Turchia. Ankara temeva, infatti, che un Rojava semi-indipendente guidato da forze molto vicine al PKK (PYD, Partito dell’Unione Democratica e la sua milizia YPG, Unità di Difesa Popolare) costituisse un pericolo per l’integrità territoriale turca in quanto esempio per i curdi di oltre-confine. Una paura che avrebbe indotto il Governo di Recep Tayyip Erdogan a tollerare gli sconfinamenti jihadisti in territorio turco, a costruire un muro che percorre la linea di confine tra Turchia e Siria e a chiudere i valichi ai profughi. Nel tempo, però, la posizione di Ankara si è dovuta modificare e la diplomazia ha provato a prendere il posto della linea dura. Timidi passi in direzione del PYD sono stati fatti più per testare se esisteva la possibilità di replicare l’esperimento portato avanti con i curdi iracheni che per reale fiducia nella valenza risolutiva dell’appoggio ai curdi nella dinamica siriana. Nonostante questo è di pochi giorni fa la notizia che, mentre gli ufficiali del PYD in visita ad Erbil discutevano della possibilità di trovare una linea comune di difesa contro l’avanzata dell’ISIL, una delegazione proveniente dal Rojava è volata a Istanbul. La visita risulta tanto più importante in quanto il leader del PYD, Saleh Muslim, ha dichiarato alla televisione turca che la soluzione della crisi irachena e dell’area potrebbe passare anche attraverso una lotta comune di Turchia e curdi siriani contro l’ISIL.

L’avanzata dei jihadisti in Iraq, quindi, ha profondi effetti anche sulle prospettive di autonomia dei curdi siriani. La rinnovata alleanza tra ISIL e Jabhat al Nusra (è di poche ore fa la notizia di un accordo tra i due gruppi per controllare i valichi di confine) e il progetto jihadista di creare un grande califfato a cavallo tra Siria e Iraq obbliga gli attori locali ed internazionali a trattare la questione siriana e quella irachena come un tutt’uno. A questo proposito, se si oppone al fronte islamista sunnita, l’asse sciita-alawita formato da Bashar al-Assad, Nuri al-Maliki e la dirigenza iraniana, si scopre con facilità che la terza via curda potrebbe risultare la più accettabile anche per le potenze internazionali.

L’avvicinamento tra Stati Uniti e il presidente Hassan Rowhani in funzione anti-ISIL sembrerebbe, infatti, avere una valenza più strategica che non ideologica. Se da un lato questo significa che i curdi del Rojava potrebbero ottenere alcune garanzie di tutela del territorio da loro controllato in cambio dell’impegno contro i jihadisti, dall’altra il sostegno incondizionato al YPG potrebbe sembrare troppo insidioso nella fase attuale. I curdi siriani sono considerati ancora molto legati ai gruppi turchi, non hanno sperimentato fasi di autonomia e libero mercato come è invece avvenuto nel caso iracheno e la guerra civile siriana attraversa una fase in cui la lotta contro i jihadisti prevede necessariamente una non-belligeranza con il Governo siriano e con l’Iran. La strada verso l’autonomia del Rojava rischia, dunque, di essere ancora molto lunga e piena di ostacoli.

I curdi in Iran

Raramente si è sentito parlare in questi anni dei curdi iraniani. Per quanto la questione del popolo senza Stato non sia stata spesso al centro delle cronache, la condizione di coloro che vivono nell’antica Persia è passata ancor più sotto silenzio. Da un lato i curdi iraniani si sono dovuti confrontare con un Governo centrale forte e poco incline a riconoscere le specifiche prerogative di questa minoranza pur avendo, in passato, stretto alleanze con i propri curdi e con i curdi iracheni in funzione anti-Saddam Hussein. Dall’altra, per quanto anche la storia del Rojhilat (Kurdistan orientale) sia stata segnata da forti movimenti della società civile e da gruppi armati (come il PJAK, Partito per la vita libera in Kurdistan, nato nel 2004 da una costola del PKK) finalizzati all’autodeterminazione del popolo curdo, questi non hanno raggiunto né la portata né il radicamento dei movimenti gemelli negli Stati limitrofi.

Poste queste premesse, in una situazione come quella attuale in cui il popolo curdo è protagonista delle dinamiche d’area, la comunità iraniana rischia di rimanere nuovamente marginale. Notizie non confermate affermano che l’ISIL avrebbe attaccato nei giorni passati anche al di là del confine iraniano, uccidendo due guardie di frontiera. Prescindendo dalla veridicità della notizia, significative sono le prese di posizione di Teheran che nega il coinvolgimento dei jihadisti ed accusa il PJAK del gesto.

Benché anche i curdi iraniani aspirino ad una trasformazione dell’Iran in uno Stato federale che consenta una maggiore autonomia alle comunità locali e si associno alla scelta dei curdi siriani di essere terza via tra opposte fazioni, il loro ruolo rimane, dunque, secondario e limitato dal pervasivo controllo dello Stato centrale. In questo contesto si può supporre che difficilmente gli eventi di questi giorni avranno un risvolto significativo sulle condizioni di vita nel Rojhilat.

Manifestazione a sostegno del leader curdo Abdallah Ocalan in carcere in Turchia
I curdi in Turchia

Nonostante non sia coinvolta direttamente dagli eventi di questi giorni, la comunità curda turca ricopre un ruolo tanto importante per le dinamiche d’area da risultare centrale nell’analisi della crisi in atto. La popolazione curda presente in Turchia è stimata intorno ai 14 milioni, circa un terzo del totale degli appartenenti a questa etnia nell’area. Questo dato ed il fatto che essi rappresentino circa il 20% della popolazione residente in Turchia danno la dimensione, quantomeno demografica, della rilevanza di questa comunità. A questo si aggiunga che, dalla costituzione dello Stato turco e, in particolar modo, negli ultimi trent’anni si è assistito ad una guerra non dichiarata tra lo Stato centrale ed i curdi per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione di questo popolo.

Per avvicinarsi agli eventi attuali si ricordi che da circa due anni è in atto un tentativo di avvicinamento tra il Governo Erdogan e le milizie del PKK nell’ottica dell’avvio di un Processo di Pace. Il processo di transizione, avviato grazie ai colloqui tra i Servizi Segreti turchi e il leader curdo Abdullah Ocalan, imprigionato dal 1999 in isolamento nell’isola di Imrali, dovrebbe portare al progressivo disarmo del gruppo armato e al parallelo riconoscimento di alcuni diritti per la popolazione curda stanziata nel sud della Turchia. Ultimo tassello per delineare il contesto in cui ci si muove sono le elezioni amministrative tenutesi a fine marzo in Turchia durante le quali, nonostante numerose denunce da parte curda di brogli e di minacce agli osservatori elettorali, il partito curdo BDP (Partito curdo per la pace e la democrazia) ha ottenuto la maggioranza nella quasi totalità delle province e delle città del sud della Turchia. Il periodo successivo alle elezioni, vinte a livello nazionale dall’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) del premier Erdogan, è stato, però, segnato da scontri diffusi a tutto il territorio curdo turco con particolari tensioni laddove i risultati erano dubbi come a Ceylanpinar o in prossimità di quella che è considerata la capitale del Kurdistan, Diyarbakir (o Amed, in curdo).

La tensione tra Governo turco e popolazione curda rimane, dunque, ancora molto alta e se questo, da un lato, induce il PKK a ripensare i propri piani di ritiro dal territorio turco verso i monti Qandil in Iraq, anche le scelte di Ankara nei confronti delle comunità curde negli altri Paesi ne risultano profondamente condizionate. In questo senso, come detto precedentemente, un investimento politico ed economico a favore dei curdi di oltre-confine mirerebbe a tutelare i rapporti di vicinato e garantire lo status quo interno. D’altra parte, però, i curdi turchi mantengono i propri legami con le altre comunità e se la partecipazione del PKK e del KCK (Unione delle Comunità curde) in supporto (logistico e di addestramento) al PYD contro i jihadisti continua da alcuni mesi, essi si sono dimostrati pronti ad intervenire anche nel Kurdistan iracheno per difenderne i confini insieme alle milizie peshmerga. In questo senso la lotta comune contro l’ISIL potrebbe rafforzare ulteriormente i rapporti tra le comunità limitando la capacità delle potenze locali ed internazionali di proporre soluzioni troppo diversificate.

Se leggiamo l’apertura dei colloqui di pace in Turchia come segnale della necessità di Ankara di avvicinamento all’opposizione siriana ed ai curdi in particolar modo e l’atteggiamento ambivalente nei confronti di questi ultimi come sintomo della volontà di contenimento dell’influenza dei curdi turchi, abbiamo un quadro abbastanza realistico di come potrebbe svilupparsi il problema nei prossimi mesi. Come la Turchia anche i Governi internazionali hanno nei confronti dei curdi turchi una posizione più cauta, quando non ostile. Questo sia per la storia e per le caratteristiche che i movimenti curdi in Turchia hanno assunto in questi anni, sia perché Ankara non è Baghdad, Teheran o Damasco. Nonostante gli scandali e le fluttuazioni della fiducia nei confronti del Governo Erdogan, la Turchia era e rimane un alleato fondamentale per i Paesi occidentali oltre ad essere uno dei pilastri della stabilità dell’area e la porta tra Medio Oriente ed Europa.

Posto questo, nonostante la mancanza di volontà del Governo, è plausibile che il popolo curdo residente nel sud della Turchia, cercherà di inserirsi in questa dinamica di mutamento per ottenere alcuni spazi di autonomia e che, se la situazione delle comunità curde negli altri paesi dovesse mutare radicalmente, anche il Governo turco dovrà fare delle concessioni in tal senso.

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