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30/06/2014

Ucraina: nazisti contro la tregua, ucciso un altro giornalista russo


Questa sera, alle 22, sapremo se il regime ucraino vorrà continuare a mantenere il cessate il fuoco dichiarato alcuni giorni fa – ma rispettato solo in parte – oppure no. La decisione verrà presa dal Consiglio Nazionale di Sicurezza Ucraino, ha informato il portavoce Andrei Lisenko.


Almeno a parole anche Germania e Francia, oltre a Mosca, chiedono all’oligarca Poroshenko la continuazione del cessate il fuoco dichiarato dieci giorni fa e nelle ultime ore le telefonate tra i padrini occidentali del golpe di febbraio – Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel – e il presidente di Kiev si sono moltiplicate.
Ma nell’estrema destra e negli ambienti ultranazionalisti si chiede un ritorno alle armi, e subito, e la fine della tregua. Il profilo facebook di ‘Ucraina antifascista’ riporta una notizia arrivata ieri dalla capitale ucraina: "Oggi a Kiev c'è stata una manifestazione molto seria, si sono radunati i neonazisti dei battaglioni "Donbass" e "Azov" per chiedere la fine della tregua. Dal palco hanno intimato a Poroshenko che ad una nuova tregua, lo attenderà la stessa sorte di Yanukovitch. La situazione è molto grave, se migliaia di combattenti sono tornati a Kiev solo per questo. Non stupitevi se in Ucraina ci sarà un nuovo golpe. L'Europa e la Russia fanno pressione su Poroshenko, chiedendo di cessare le ostilità e negoziare. Ma anche i nazisti fanno pressione su Poroshenko, chiedendo il contrario: "nessun negoziato". Semen Semenchenko, capo del battaglione Donbass, ha dichiarato e ribadito sulla sua pagina FB: "Oggi il majdan è stato realmente vivo" aggiungendo che questa è "l'ultima veglia pacifica".


In realtà in questi giorni la tregua è stata violata più volte, non sono mancati bombardamenti, incursioni e anche morti. Ieri è toccata all’ennesimo giornalista russo rimanere ucciso sotto i colpi dei militari ucraini. Anatoliy Klian, operatore del primo canale della tv pubblica russa, è finito sotto i colpi di arma da fuoco sparati da un gruppo di soldati di Kiev in una località nei pressi di Donetsk. Anche l'autista dell'autobus è stato ferito alla testa, ma era ancora in grado di guidare, e quindi Klian e la sua troupe si sono allontanati dal luogo dell’agguato. Mentre il fuoco dei proiettili continuava, secondo la tv russa, solo dopo alcuni minuti, i giornalisti si sono accorti che tra di loro c'era un ferito. Il primo soccorso a Klian è stato prestato dai colleghi. Poi è stato portato dal dottore più vicino, e successivamente su un'ambulanza. I medici hanno cercato di salvare l'operatore, ma non c'era più nulla da fare.

Klian aveva 68 anni, di cui più di 40 anni al Primo canale russo, per le notizie dai punti caldi. Quando le autorità ucraine avevano vietato l'ingresso nel paese agli uomini fino ai 50 anni, Anatoly, scherzando, aveva detto che finalmente aveva un vantaggio rispetto ai colleghi più giovani. Ha perso la vita ieri mentre seguiva un gruppo di cittadini ucraini che si recavano al fronte a riprendersi i loro figli richiamati alle armi dal regime nazionalista e costretti a partecipare alla repressione delle popolazioni insorte delle regioni del sud-est del paese. Secondo alcuni testimoni i militari ucraini hanno sparato intenzionalmente nella direzione del pulmino che trasportava le madri dei soldati e i giornalisti.
A metà giugno erano già morti i giornalisti russi Anton Voloshin e Igor Kornelyuk, uccisi nei pressi di Lugansk. Pochi giorni prima erano finito sotto i colpi di mortaio ucraini il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli e il suo traduttore russo Andrei Mironov, morendo entrambi.
Quella che ha ucciso Klian non è stata l’unica violazione della tregua delle ultime ore. Tre proiettili sparati dall'artiglieria ucraina nel corso di combattimenti con gli insorti avrebbero colpito un posto doganale e alcune zone presidenziali in territorio russo, causando seri danni materiali: lo ha denunciato il responsabile delle guardie di frontiera della regione russa di Rostov, Vasily Malayev, secondo il quale non vi sarebbero per fortuna feriti.
Il portavoce dell'esercito ucraino Oleksiy Dmytrashkivskiy riferisce invece di scontri in cui durante il week-end sarebbero morti cinque soldati ucraini, e denuncia l'attacco a una unità dell'aviazione ucraina presso Donetsk.

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Behind the wheel


28 giugno: presi in contropiede

Non stiamo parlando dei mondiali di calcio ma della manifestazione di sabato a Roma. Era infatti palpabile l’imbarazzo e il disagio dei corrispondenti del sistema media mainstream di fronte alle caratteristiche e ai contenuti della manifestazione che ha aperto il Controsemestre popolare in opposizione al semestre europeo guidato da Renzi.

Lo schema voleva essere quello della solita manifestazione degli “antagonisti” con fotografi, cameraman e inviati pronti a raccontare tensioni, scontri e conseguenze sul traffico cittadino. Ma lo schema è saltato in più punti:

a) La manifestazione aveva un carattere dichiaratamente politico, di opposizione all’Unione Europea, ai suoi trattati e alle sue politiche di austerità

b) La manifestazione ha dichiarato la sua opposizione frontale al governo Renzi e alle sue misure concrete in materia di lavoro, disoccupazione, privatizzazioni

c) La manifestazione ha visto come protagonisti operai, lavoratori, disoccupati e precari del Meridione, immigrati impegnati nelle mobilitazioni europee, dipendenti pubblici. In pratica un pezzo di società, o meglio di blocco sociale antagonista, difficilmente liquidabile come marginale.

“Perché vi definite antagonisti?” ci ha chiesto una giornalista. “In realtà siete voi che avete scelto questa definizione e ci avete costruito un modello informativo” è stata la risposta “ma la definizione non ci dispiace. Rispetto all’Unione Europea costruita dalle classi dominanti siamo antagonisti”.

I contenuti politici e le caratteristiche della composizione sociale della manifestazione hanno così fatto saltare parecchi schemi precostituiti. Una prima prova sono stati i servizi giornalistici del giorno stesso e poi anche quelli di lunedì mattina che hanno segnalato in alcuni talk show proprio questo fattore. Un pezzo di società reale è sceso in piazza contro il tabù dell’Unione Europea e il coccolatissimo premier Renzi. Una manifestazione di “rottamatori di incantesimi” avevamo scritto nel nostro precedente editoriale.

Ma occorre essere onesti fino in fondo. I numeri della manifestazione di sabato sono stati più che dignitosi, in linea con quelli delle manifestazioni di questa primavera (12 aprile, 15 maggio) frutto di divaricazioni ripetute e pervicaci tra le diverse realtà dei movimenti antagonisti e d’opposizione. Ma si tratta ancora di numeri sicuramente insufficienti rispetto alla posta in gioco e alle necessità. Il che conferma che i processi di ricomposizione e mobilitazione comune sperimentati il 18 e 19 ottobre scorsi restano ancora il parametro di riferimento più efficace e includente. Aver fatto saltare quell’alleanza politica e sociale e quello schema di mobilitazione, si conferma un clamoroso errore politico, così come si è rivelato un errore politico – da parte di molte realtà – rimuovere o mettere scarsa convinzione nella manifestazione del 28 giugno che ha aperto la campagna del Controsemestre popolare.

Il corteo di sabato scorso e il percorso del Controsemestre costituiscono una occasione importante per mettere in campo mobilitazione, approfondimento, confronto sulle questioni strategiche attinenti al conflitto di classe e alla lotta politica nel nostro paese. Il primo passo da compiere era quello di rompere il tabù paralizzante della paura di dichiarare la propria opposizione e la richiesta di rottura dell’Unione Europea, un tabù sul quale rischia di indebolirsi la sinistra e di rafforzarsi la destra, anche estrema.

Questa dichiarazione di frontale alterità ai diktat di Bruxelles e Francoforte sabato è stata declinata nei termini corretti, con una composizione e una visione di classe adeguati alla partita che si è aperta.

C’è materia abbondante di riflessione per molti.

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Abu Mazen sotto tiro di israeliani e palestinesi

Il premier Rami Hamdallah e il presidente Abu Mazen alla cerimonia della nascita del governo di unità nazionale
Come e quando si concluderà la vicenda dei tre giovani israeliani scomparsi il 12 giugno in Cisgiordania nessuno lo sa. Le uniche certezze al momento sono la punizione collettiva che sta subendo larga parte della popolazione palestinese  e il crollo d’immagine dell’Autorità nazionale palestinese e del suo presidente Abu Mazen (a Mosca mercoledì da Putin). Perché se è vero che le operazioni militari israeliane hanno anche lo scopo di colpire il movimento islamico Hamas (accusato da Israele del rapimento dei tre ragazzi), è ormai chiaro che da questa storia Abu Mazen esce con le ossa rotte, preso a pugni da israeliani e palestinesi. Le sue dichiarazioni a favore della cooperazione di sicurezza con l’intelligence israeliana, hanno riscosso l’approvazione delle capitali occidentali ma non hanno smussato l’aggressività dei dirigenti israeliani.

«Un mega terrorista»

Non solo, hanno provocato forte sdegno tra i palestinesi che da due settimane fanno i conti con i raid dei soldati in città, villaggi e campi profughi e sono costretti ad aggiornare l’elenco di morti e feriti. «Abu Mazen è un mega terrorista», ha proclamato ieri Naftali Bennett, ministro e leader del partito ultranazionalista israeliano Casa ebraica. Motivo? Il governo dell’Anp garantisce sussidi ai prigionieri politici e alle loro famiglie. Non sono più leggeri i commenti che, per motivi totalmente diversi, fanno tanti palestinesi. Tra questi non pochi portano i segni delle manganellate che la polizia agli ordini di Abu Mazen ha inferto a chi è sceso in strada per protestare contro le operazioni militari israeliane.

Appena tre settimane fa il presidente palestinese godeva di una popolarità mai registrata in questi ultimi anni. La sua decisione di andare alla riconciliazione con Hamas e la determinazione con la quale ha formato un governo di unità nazionale con il movimento islamico, avevano fatto salire le sue quotazioni tra i palestinesi. Interessanti sono stati poi i successi diplomatici ha conseguito in questi ultimi tempi, dal riconoscimento statunitense ed europeo dell’esecutivo Fatah-Hamas fino alla «preghiera per la pace» con il presidente uscente israeliano, Shimon Peres, tenuta a inizio giugno in Vaticano.

Uno status inedito che impensieriva non poco il premier israeliano Netanyahu costretto ad affrontare il periodo diplomaticamente più difficile del suo mandato, specie nei rapporti con gli alleati americani. Dal 12 giugno è cambiato tutto. Dopo la scomparsa dei tre giovani ebrei, Abu Mazen, sotto la pressione delle accuse israeliane, si è precipitato a tranquillizzare i suoi sponsor occidentali lasciando però senza parole una larga porzione di palestinesi.

L’uniforme del cartoon

La sua credibilità è crollata. Sui social l’uomo della riconciliazione è diventato un «collaboratore» e un «traditore». Un cartoon che gira in rete lo mostra con l’uniforme dell’esercito israeliano. «È molto probabile che questa reazione popolare (contro Abu Mazen) continui ancora a lungo. E in tutta sincerità non escludo che Netanyahu abbia messo in azione il suo esercito allo scopo di delegittimare l’Anp e il suo presidente», spiega Samir Awad, docente di scienze politiche all’Università di Birzeit, in Cisgiordania.

Per il suo collega Naji Sharab, dell’università Al-Azhar di Gaza, «Si tratta di una operazione (israeliana) con due obiettivi: smantellare completamente l’infrastruttura di Hamas e mandare un messaggio forte all’Autorità palestinese, ossia che il suo ruolo è rivolto alla sicurezza di Israele e non quello di esercitare una sovranità».
 
Se sarà confermato il coinvolgimento del movimento islamico nel sequestro dei tre israeliani, per Abu Mazen il quadro si complicherà ulteriormente: sarà costretto, dalle pressioni israeliane e occidentali, a rigettare l’accordo di riconciliazione con Hamas perdendo la reputazione tra la sua gente senza per questo riottenere il pieno appoggio dei suoi sponsor internazionali. Ci guadagnerebbero solo gli islamisti e il premier israeliano Netanyahu.

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Samba e martello: traverse, rigori e #calciomolotov

A un certo momento si prospettava una semifinale con una squadra tra Messico, Grecia e Costa Rica. I centroamericani in maglia verde sono stati in vantaggio sull’Olanda fino al minuto 88. Poi Snejder e un rigore di Huntelaar hanno ristabilito l’ordine naturale delle cose nel giro di appena 180 secondi. Per quelli che credono ai segni premonitori nel calcio, una cosa del genere può voler dire una cosa sola. Ma bisognerebbe dire la stessa cosa per il Brasile, graziato dalla traversa su un tiro del cileno Pinilla all’ultimo respiro dei tempi supplementari.

La domenica sera si è conclusa con la sfida tra le cenerentole Grecia e il Costa Rica.

Il manifesto del #calciomolotov (variante piuttosto esplosiva del calcio champagne): un elogio dei tacchetti su tibia e perone lungo due ore, il tempo delle mele dei catenacciari costretti ad attaccare. Insomma, quando si incontrano due squadre abituate a difendersi, chi deve fare la partita? Il risultato è stato un 1-1 con pareggio nel recupero, poi, ai rigori, Theofanis Gekas si è fatto parare il suo tiro mandando il Costa Rica ai quarti di finale. Bisognerebbe riflettere sul fatto che è sempre il rigore la condanna della Grecia, mentre il mefistofelico dio del pallone ha deciso di premiare la nazionale di un paese senza esercito, quella che ha messo in fila dietro di sé l’Uruguay, l’Italia e l’Inghilterra: sette coppe del mondo, in totale.

Per il resto, qui si fa il tifo per l’eliminazione del Brasile. Non perché ci stiano particolarmente antipatici, eh, ma perché sono i superfavoriti per condizioni geografiche, arbitraggi a favore e smodato culo. I carioca, adesso, sulla loro strada verso la finale troveranno la Colombia, formazione che sta facendo vedere quello che forse è il miglior calcio del torneo. Va detto che siamo indecisi: meglio che i brasiliani escano adesso o che, tipo, perdano la finale al Maracanà ad esempio contro l’Argentina, con seria ipotesi di crisi diplomatica a seguire?

Intanto – sempre per la serie #calciomolotov – mentre noi tutti siamo impegnati a guardare i mondiali, dall’altra parte del mondo, la Cina sta affrontando una serie di amichevoli internazionali. Nelle ultime due settimane, sono andati in scena un incontro con la Macedonia (un mesto 0-0) e uno con il Mali, con gli africani che si sono imposti per 3-1. In giro non si trovano cronache né immagini di questi match, ma i siti di scommesse giurano che ci sono stati. Vatti a fidare.

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Genova 30 giugno 1960


Iraq/Siria - L’Isil: “Oggi nasce il califfato”


E califfato sia. Ieri, primo giorno di Ramadan, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante ha compiuto il passo che mancava: il leader della milizia estremista sunnita, il temibile Abu Bakr al-Baghdadi, ha dichiarato la nascita del califfato da Aleppo a Diyala, dalla Siria all’Iraq. Cancellate le frontiere, nell’immaginario del gruppo, un unico Stato islamico fondato sulla Sha’ria sotto cui far cadere le province irachene e siriane in mano ai miliziani dell’Isil. Il messaggio, pubblicato su diversi forum islamisti in rete, è stato tradotto in numerose lingue e minaccia le comunità sciite mediorientali, considerate eretiche e complici dei poteri occidentali.

Un annuncio che va letto per quello che è: propaganda. Ma che invia un messaggio chiaro: l’Isil non intende retrocedere ed è alla caccia di nuovi membri e adepti da lanciare nel fronte aperto in Siria e Iraq. Cresce il peso della figura di al-Baghdadi, ex qaedista ribelle che ha lasciato la rete di Zawahiri per crearsi un gruppo tutto suo. Nel video, si fa chiamare Califfo Ibrahim, il leader a capo del nuovo califfato, una sorta di impero musulmano il cui ordinamento riprende quello dei governi ottomani in Turchia dal XV al XX secolo. La vera preoccupazione è che tribù o comunità sunnite irachene e siriane possano decidere di allearsi con l’Isil ed entrare a far parte del “califfato”, nel tentativo di sganciarsi da regimi sciiti considerati discriminatori.

Nella capitale irachena la reazione alla dichiarazione di al-Baghdadi si traduceva nella spinta verso la formazione di un governo prima dell’incontro di domani del parlamento eletto ad aprile. I parlamentari, domani, saranno chiamati a eleggere il loro presidente a cui spetterà il compito di indicare il capo del governo. Le fazioni sciite, sunnite e curde si organizzano nel tentativo di individuare una possibile formazione governativa che eviti l’avanzata islamista e la spaccatura definitiva del paese. Di certo, non saranno ore facili per l’attuale premier, Nouri al-Maliki, da due settimane sulla graticola interna e internazionale per la testarda intenzione di non lasciare la poltrona occupata da otto anni.

Sul campo la battaglia prosegue violenta: terreno di scontro è ancora Tikrit, città natale di Saddam Hussein, vuoi per i simboli che rappresenta, vuoi per la presenza ancora radicata di milizie fedeli all’ex rais e per la sua posizione strategica. Nella provincia di Salah-a-Din, caduta nella prima settimana di offensiva nelle mani islamiste, Tikrit è metà strada tra Mosul e Baghdad, a pochi chilometri dalla raffineria di Baiji. Venerdì Baghdad ha avviato un’ampia operazione militare per riconquistare la città, con le truppe via terra e i bombardamenti dall’alto. Epicentro degli scontri resta l’università, che l’Isil intende trasformare nel suo quartier generale. Discordanti le versioni fornite: secondo i generali dell’esercito iracheno, Tikrit e la sua università sono sotto il controllo di Baghdad, ma le testimonianze che giungono dal posto parlano della presenza ancora forte dei miliziani islamisti e di bandiere nere che sventolano sui principali palazzi governativi.

E mentre nella roccaforte baathista si combattono i nuovi alleati dei sunniti iracheni e lo Stato, droni armati statunitensi sorvolano la capitale per proteggere i 300 consiglieri militari inviati a coordinare le operazioni anti-terrorismo. Per ora la Casa Bianca, però, non intende usare i droni per bombardare i jihadisti, decisione che a Baghdad non piace: da due settimane il premier Maliki chiede agli Stati Uniti un’azione forte, ricevendo come risposta la carta diplomatica. E così Baghdad si guarda intorno: ha accolto con favore le bombe siriane contro le postazioni jihadiste nella provincia sunnita di Anbar, ha aperto le porte ai pasdaran e ai consiglieri militari iraniani e i cieli ai droni di Teheran, ha firmato un accordo per l’acquisto di jet russi e ora si rivolge al Palazzo di Vetro. Ieri sono arrivati in territorio iracheno i primi sette jet Sukhoi russi (ne seguiranno altri cinque) che, secondo la tv nazionale, saranno utilizzati nei prossimi giorni “per bombardare le postazioni dei terroristi”.

Ormai gli attori impegnati nel devastato palcoscenico iracheno sono tanti, e sono potenti. Oggi il vice capo dell’esercito iraniano, Massoud Jazayeri, ha fatto sapere che Teheran intende prendere tutte le misure necessarie a fermare l’avanzata jihadista, “le stesse utilizzate in Siria”. Ovvero, armi e consiglieri militari: un approccio già messo in pratica da giorni, con tonnellate di equipaggiamento militari arrivati a Baghdad e droni di ricognizione in volo sopra tutto il territorio.

Si muove anche Riyadh che ha promesso a Washington di impiegare la sua influenza sui leader sunniti iracheni perché partecipino alla formazione di un governo di unità nazionale. Un piccolo cambio di rotta dell’Arabia Saudita che nei giorni scorsi aveva posto come condizione l’allontanamento di Maliki. Ma ora re Abdallah al-Saud sa di non poter rischiare: l’avanzata dell’Isil – finanziata, prima in Siria e poi in Iraq, proprio dai paesi del Golfo – può rappresentare un terremoto per gli equilibri di potere regionali, con l’asse sciita Siria-Iran-Hezbollah intenzionata ad approfittare della situazione per rafforzare i propri interessi strategici e con gli Usa che – per la prima volta dopo decenni – condividono con Teheran e Damasco la preoccupazione per l’avanzata dei radicali sunniti.

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Egitto - Il ritorno di censura e repressione

Sembra il finale di una commedia poliziesca, ma è tutto realtà. La “Cellula del Mariott” è stata condannata a 7 anni di carcere con l’accusa di aver fabbricato notizie false e tendenziose atte a sostenere la Fratellanza Musulmana, il movimento islamista nuovamente bandito dopo il ritorno dei militari al potere. Non facendosi abbagliare dalla narrativa dominante che da un anno etichetta indistintamente i sostenitori della Confraternita come terroristi, la sentenza contro i componenti della cellula – tre giornalisti di Al-Jazeera arrestati in un albergo de il Cairo da dove cercavano di contattare alcuni islamisti – appare il frutto di un processo fabbricato ad arte per punire l’emittente qatariota.

Per mostrare la sua magnanimità alla comunità internazionale, il nuovo presidente Abdel Fattah al-Sisi potrebbe graziare gli imputati, due dei quali hanno in tasca un passaporto straniero. Ciononostante, la recente condanna è la cartina tornasole dell’ultimo giro di vite repressivo impresso dal “nuovo” regime egiziano alle – poche – voci stonate.

CENSURA E REPRESSIONE. Conosciuta e invisa per l’indiscusso sostegno garantito alla Fratellanza anche quando questa ha mostrato il suo volto autoritario e violento, Al-Jazeera è stata la prima emittente oscurata dopo l’intervento militare dello scorso luglio. Anche se la comunità internazionale ha alzato la voce solo ora, la morsa sulla libertà di espressione e di informazione è stata infatti una costante della politica del “nuovo” regime. I media continuano ad agire in un contesto storicamente illiberale e, soprattutto negli ultimi due anni, estremamente polarizzato. Basta riguardare alcune trasmissioni degli anni ‘50 per capire che sin da allora esiste un filo rosso oltre il quale è pericoloso andare. All’epoca del presidente Gamal Abdel Nasser i media erano sotto il controllo dello stato, ma anche se nei tre decenni mubarakiani qualcosa si è smosso, le voci critiche del potere devono sempre combattere contro il Golia di turno.

Osservando la recente evoluzione del palinsesto televisivo egiziano si riconoscono i meccanismi utilizzati dal regime per tenere sotto controllo l’opinione pubblica. Da quando l’ex generale Al-Sisi è ufficialmente alla guida del paese, il celebre comico della rivoluzione Bassem Youssef è uscito di scena, denunciando le pressioni subite dall’emittente del suo show, una televisione saudita che deve fare i conti con la famiglia reale, generosa sostenitrice del ritorno al potere dei militari egiziani. In questi giorni, le autorità de il Cairo hanno anche impedito il debutto di una musalsal – soap opera seguitissime nel periodo di Ramadan alle porte – su un protagonista della rivoluzione del 2011. A scriverla, guarda caso, la penna di Belal Fadl, uno dei pochi intellettuali critici dei militari già censurato per aver punzecchiato Al-Sisi.

Liberà di espressione a parte, la sentenza sulla “Cellula del Mariott” è anche l’ultimo di una lunga lista di verdetti contro chi si oppone al ritorno dei militari. Dalle condanne a morte di massa contro membri e sostenitori della Fratellanza agli arresti di icone della rivoluzione del 2011 contrarie alla nuova legge sulle manifestazioni: l’apparato di sicurezza egiziano influenza l’attività di quella Magistratura che, almeno seguendo l’evoluzione costituzionale, sembrerebbe guadagnare sempre più autonomia dall’esecutivo.

COMUNITÀ INTERNAZIONALE E DIRITTI UMANI.
Anche se la comunità internazionale è stata ufficialmente invitata – con tanto di comunicato inviato dalle sedi diplomatiche egiziane – a non interferire su questioni che non le competono, il dibattito che si è creato attorno al processo della “Cellula del Mariott” è diventato un’occasione per insistere sul rispetto dei diritti umani fondamentali.
In tale contesto si potrebbero richiedere il rilascio dei prigionieri politici e garanzie sullo stato delle carceri egiziane. Giornalisti e organizzazioni umanitarie hanno infatti recentemente denunciato il trattamento disumano subito dai carcerati, tornando a parlare di sevizie compiute in prigioni segrete.

La comunità internazionale non sembra però pronta ad andare oltre le frasi di rito, temendo forse di mettere in dubbio quel ritorno al business as usual che da mesi contraddistingue l’approccio verso l’Egitto. E il Cairo è il primo a notarlo, osservando per esempio la cordialità con la quale alla vigilia della sentenza, il segretario di stato Usa John Kerry è atterrato in Egitto per annunciare l’arrivo dei tanto attesi Apache che si sommeranno ai 572 milioni di dollari versati nelle casse – vuote – del prezioso alleato egiziano.

Limitandosi a generiche frasi di circostanza, la comunità internazionale non fa’ altro che avvallare il forzato ritorno a quella stabilità che nel passato recente ha presentato un costo salato in termini di diritti umani. Vi è inoltre il rischio che questa stabilità si mostri nuovamente insostenibile. Il consenso attorno al nuovo raìs è alle stelle, ma la Sisimania sembra una bolla e, in quanto tale, è destinata, prima o poi, a scoppiare. Nel medio-lungo periodo il fuoco sotto la cenere che la comunità internazionale sta ignorando potrebbe quindi tornare a infiammare il paese.

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Venezuela. Maduro chiede di voltare pagina e mettere fine allo scontro interno

Il presidente del Venezuela Bolivariano, Nicolos Maduro cercherà l’unità con coloro con cui ci sono state divergenze: “Chiedo di voltare pagina degli scontri e delle lettere”.

Durante l'atto di consegna del Premio Nazionale per il Giornalismo, realizzato presso il Palazzo di Miraflores, il Presidente Nicolás Maduro ha parlato di una possibile riunificazione con gli ex Ministri del processo rivoluzionario, coloro che hanno espresso pubblicamente alcune divergenze rispetto al suo Governo. Maduro ha citato un manuale scritto da Mao Tse Tung con l'obiettivo di individuare le contraddizioni che si generano all'interno di una società. “Bisogna rileggere quel manuale per mitigare le contraddizione che sono sorte tra di noi e per riuscire a fare un passo avanti nella riunificazione con alcuni compagni, senza ombra di dubbio dei rivoluzionari e dei chavisti, con i quali abbiamo avuto delle divergenze”. Ha aggiunto: “Qui nessuno è di troppo! Abbiamo bisogno di tutti e di tutte, in modo critico, con idee, con proposte, per costruire la lealtà collettiva nel nostro progetto!”. In seguito, in un altro evento svoltosi durante la serata, ha chiesto di “voltare la pagina degli scontri che si sono manifestati con lettere da una parte e dall'altra. Va bene! Noi abbiamo già detto quello che dovevamo dire. Siamo pronti. Ora, le nostre mani e le nostre braccia sono tese verso i nostri compagni”.

Durante il suo discorso di consegna al Premio Nazionale per il Giornalismo “Simón Bolívar”, davanti a numerosi lavoratori del settore delle comunicazioni, il Presidente venezuelano ha segnalato, in diretta radio-televisiva nazionale, che: “Ci è stato imposto un modello di comunicazione che aveva lo scopo di mantenere la società in una costante ansia, di destabilizzare il potere, di riportare il nostro popolo ad una condizione di pessimismo, di far perdere al nostro popolo la fiducia in se stesso, nella sua capacità di esercitare il potere e di costruire, dalla posizione di potere, una nuova società. Fino a qui arriva la guerra psicologica! Lo fanno per farci mancare la fiducia collettiva con cui invece possiamo costruire una nuova società e superare qualsiasi problema e difficoltà! Non ne avremo di problemi e difficoltà? Il problema può essere sociale, economico, politico”. Maduro ha aggiunto: “Come farà una società politica a non avere problemi politici? Ci sono conflitti dalla diversa natura, chiamati da alcuni teorici 'contraddizioni antagonistiche della società'. Anche Mao Tse Tung le chiamava così. Le 'contraddizioni all'interno del popolo', queste le parole esatte di Mao. Inoltre, il politico cinese ha redatto un manuale in cui indica come risolverle, una per una”.

“Bisogna rileggere quel manuale per trattare correttamente le contraddizioni nate tra di noi e, così, poter fare un passo in avanti nella riunificazione con alcuni compagni, senza ombra di dubbio dei rivoluzionari e dei chavisti, con cui abbiamo avuto delle divergenze”, ha specificato il Presidente, probabilmente riferendosi all'ex Ministro Jorge Giordani, il quale ha pubblicato una lettera, in seguito alla sua fuoriuscita dal Ministero, in cui mette a conoscenza di vari disaccordi nell'area economica durante la sua gestione, e ad altri che hanno dimostrato solidarietà a Giordani (tra cui Héctor Navarro, Víctor Álvarez e Ana Elisa Osorio).

“Invoco la riunificazione di tutto il popolo in base al Piano della Patria, agli ideali e all'eredità del Comandante Chávez, così da andare oltre i problemi e le parole che pronunciamo. Qui nessuno è di troppo! Abbiamo bisogno di tutti e di tutte, in modo critico, con idee, con proposte, per costruire la lealtà collettiva per il nostro progetto!”, ha sottolineato il capo di Stato, strappando un forte applauso per le sue parole. E tra le risate, ha chiesto, “Perché applaudite così tanto questa cosa?”.

“Voltare la pagina degli scontri e delle lettere”

In seguito, mentre stava rilasciando delle dichiarazioni alla Venezolana de Televisión, il Presidente ha ribadito che dall'1 al 15 luglio ci sarà una revisione esaustiva del governo nazionale, “analizzeremo una per una l'esecuzione dei bilanci, di tutti i ministeri, di tutti i progetti, di tutti gli obiettivi. Daremo una nuova articolazione al governo e al sistema di governo, così da farli funzionare con efficienza massima”. Ci vorranno quindici giorni “per esaminare tutto il Piano della Patria, gli obiettivi portati a termine, ciò che invece non lo è stato – e perché; e poi potremo dire al paese ciò che va cambiato”. Ha affermato che “la Rivoluzione deve rappresentare sempre un cambiamento e una nuova articolazione”.

“Ho chiesto anche di voltare la pagina degli scontri che si sono presentati attraverso lettere da una parte e dall'altra. Va bene! Noi abbiamo già detto quello che dovevamo dire. Siamo pronti. Ora, le nostre mani e le nostre braccia sono tese verso i nostri compagni. Dobbiamo continuare la nostra strada, il nostro cammino, e l'unificazione delle forze rivoluzionarie è l'aspetto più importante da difendere. Dobbiamo costruire una lealtà collettiva, grazie all'eredità del Comandante Chávez. Forti, inamovibili, con il progetto rivoluzionario, con il popolo del Venezuela che esige da noi massima lealtà e disciplina!”.

“Come ha detto Elías Jaua a Barquisimeto: Diamo il benvenuto alle proposte. Nelle proposte c'è sempre autocritica e critica; voglio esaminare il tutto, per fare autocritica di fronte al popolo e per farmi carico di tutte le cose negative e di tutto ciò che non è stato fatto, però voglio richiamare anche al lavoro. La critica e l'autocritica non devono essere usate per autoflagellarsi o per autodistruggersi, ma per avere più forza, più intraprendenza per superare i problemi, gli ostacoli e vedere il cammino davanti ai nostri occhi. Questa è la lezione del Comandante Chávez”.

da: http://albaciudad.org/wp/index.php/2014/06/maduro-conduciremos-las-contradicciones-para-reunificarnos-con-algunos-companeros-con-los-cuales-hemos-tenido-diferencias/

Traduzione di Violetta Nobili

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Tanta retorica nelle parole di Maduro, si attendono i fatti concreti.

Emiliano Brancaccio: «L’austerità flessibile di Renzi è una conquista risibile»

Roberto Ciccarelli

da http://ilmanifesto.info

Intervista all'economista che denuncia la «precarietà espansiva»: «L’accordo con Merkel la peggiorerà». «Basterebbe guardare i dati dell’Ocse e del Fondo monetario internazionale per capire che non basta una debole mediazione sui parametri europei». Sul referendum no Fiscal Compact: «Sentiero impervio, ma può accelerare le contraddizioni in un quadro europeo insostenibile»

Emiliano Brancaccio, docente di economia politica all'università del Sannio
Fles­si­bi­lità nel rigore. A que­sto risul­tato è giunto l’accordo tra Renzi e Mer­kel a Bru­xel­les. In realtà riguarda i soli cofi­na­zia­menti nazio­nali ai fondi Ue esclusi dal con­teg­gio del defi­cit e poco altro. Nulla del fiscal com­pact, né dell’austerità, sem­bra essere stato toc­cato. All’economista Emi­liano Bran­cac­cio chie­diamo se Renzi è riu­scito a tra­sfor­mare il bastone del rigore nella carota dell’austerità fles­si­bile.
«Renzi sta solo cer­cando di rin­viare le sca­denze e non si azzarda a toc­care le regole - risponde Bran­cac­cio - Durante la cam­pa­gna delle pri­ma­rie aveva più volte evo­cato la pos­si­bi­lità di cam­biare i trattati. Ora si limita a chie­dere un’austerità un po’ più “fles­si­bile”. In sostanza, la trat­ta­tiva verte su un mero rin­vio di un anno o due degli obiet­tivi di pareg­gio del bilan­cio. Che la richie­sta venga accolta è da veri­fi­care, visto che Com­mis­sione Ue ed Eco­fin risul­tano tutt’ora ostili. Ma anche ammesso che Renzi rie­sca a spun­tarla, otter­rebbe solo un mar­gine in più per il defi­cit di 0,2 punti percen­tuali. Una con­qui­sta risi­bile rispetto alla gra­vità della situazione».

Il pre­mier allora torna da Bru­xel­les con un suc­cesso o con un’illusione?
Nel corso di que­sti anni abbiamo regi­strato una pro­gres­siva diva­ri­ca­zione tra le nar­ra­zioni poli­ti­che e la realtà dei fatti. Lo dimo­strano gli errori siste­ma­tici com­messi dalla stessa Com­mis­sione Ue sulle pre­vi­sioni dell’andamento del Pil nell’Eurozona: nel caso dell’Italia sono stati anche supe­riori ai tre punti per­cen­tuali. La mia sen­sa­zione è che Renzi stia addi­rit­tura accen­tuando que­sto iato, anzi­ché dare un con­tri­buto per ren­dere le parole della poli­tica un po’ piu in linea con i pro­cessi reali.

La cre­scita è una spe­ranza fon­data per il 2014?
Per dare un’idea di quanto sia impro­ba­bile, basta notare che gli obiet­tivi di bilan­cio dell’esecutivo sono stati fis­sati sulla base di una cre­scita dello 0,8% nel 2014. Que­sta pre­vi­sione è già smen­tita dagli ultimi dati. Nel momento in cui ci ren­de­remo conto che l’andamento effet­tivo del Pil è peg­giore del pre­vi­sto, anche quel po’ di mar­gine sul defi­cit chie­sto da Renzi verrà bruciato.

A Bru­xel­les sem­bra essere pas­sata l’idea che l’ammorbidimento del rigore fiscale avverrà man mano che la Com­mis­sione Ue riscon­trerà il grado di avan­za­mento delle «riforme». Di quali riforme si tratta e quale modello sociale ed eco­no­mico disegnano?
In realtà non è nem­meno detto che que­sta idea sia pas­sata. Al momento c’è solo una gene­rica dichiara­zione di aper­tura da parte della Mer­kel. Ma nero su bianco abbiamo due docu­menti della Com­mis­sione Ue e dell’Ecofin che si muo­vono in dire­zione oppo­sta rispetto a quanto auspi­cato da Renzi. Per quanto il pre­mier chieda bri­ciole, la trat­ta­tiva per otte­nerle si annun­cia comun­que dif­fi­cile. In cam­bio, oltre­tutto, il governo farà riforme che rispon­dono a due tipo­lo­gie. La prima è rela­tiva all’assetto isti­tu­zio­nale: accre­sci­mento ulte­riore del potere dell’esecutivo in nome della decan­tata gover­na­bi­lità. È un pro­cesso che implica un’erosione ulte­riore dei mar­gini di eser­ci­zio della democrazia.

E la seconda riforma?
È una vec­chia cono­scenza: fles­si­bi­lità del mer­cato del lavoro. Dopo il fal­li­mento della dot­trina della “auste­rità espan­siva”, cioè della idea per cui l’austerità avrebbe garan­tito la ripresa eco­no­mica, ora si punta su altre dosi di pre­ca­riz­za­zione dei con­tratti di lavoro.

Nel «monito degli eco­no­mi­sti» pub­bli­cato sul Finan­cial Times nel 2013, pro­mosso con Ric­cardo Real­fonzo, annun­cia­vate che l’Europa sarebbe pas­sata dall’austerità espan­siva alla pre­ca­rietà espan­siva. Di cosa si tratta?
La pre­vi­sione è con­fer­mata. Ci dicono che la nuova onda di pre­ca­riz­za­zione del lavoro por­terà crescita dell’occupazione. Ma per capire dav­vero dove por­terà la riforma Poletti basta guar­dare i dati dell’Ocse e dell’Fmi: non vi è nes­suna con­ferma della tesi per cui più pre­ca­rietà deter­mina più occupa­zione. Se è vero che i con­tratti fles­si­bili indu­cono le imprese ad assu­mere un po’ di più nelle fasi di espan­sione eco­no­mica, è altret­tanto vero che que­sti con­tratti per­met­tono alle imprese di distrug­gere que­gli stessi posti di lavoro nella reces­sione. L’effetto netto di que­ste poli­ti­che è zero. Eppure il mini­stro Padoan, che viene dall’Ocse e cono­sce que­sti risul­tati, insi­ste con la fan­ta­sia secondo cui la pre­ca­riz­za­zione accre­sce l’occupazione. Siamo di nuovo in pre­senza di uno scarto tra nar­ra­zione e realtà.

Se la cre­scita non c’è che cosa acca­drà nei pros­simi mille giorni del governo?
Quello che si è già veri­fi­cato negli ultimi anni. Ancora una volta, rile­ve­remo una distanza tra obiet­tivi e risul­tati, sia dal punto di vista del defi­cit pub­blico che da quello della cre­scita eco­no­mica e dell’occupazione. L’auspicio di Renzi, secondo il quale si può agire nell’attuale qua­dro isti­tu­zio­nale euro­peo per uscire dalla crisi, andrà a sbat­tere con­tro il muro dei fatti.

Sem­bra ormai escluso un pro­cesso di riscrit­tura dei trat­tati euro­pei, come anche una revi­sione del ruolo della Bce. Quale sarà il futuro eco­no­mico e sociale dell’Europa meri­dio­nale nei prossimi cin­que anni?
Que­sti paesi hanno perso negli ultimi sei anni di crisi oltre 6 milioni di posti di lavoro. In Ger­ma­nia c’è stato invece un aumento di 1,5 milioni di unità. Que­ste diva­ri­ca­zioni deli­neano un pro­cesso di «mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione» euro­pea, che ripro­duce su scala con­ti­nen­tale il tre­mendo dua­li­smo economico che ha con­di­zio­nato i rap­porti tra Nord e Sud Ita­lia. In que­sto sce­na­rio pre­vedo nuovi successi per i movi­menti rea­zio­nari e xeno­fobi. Temo che i risul­tati delle ele­zioni euro­pee siano solo l’inizio di un lungo ciclo poli­tico, in cui ci tro­ve­remo nella tena­glia di due tipo­lo­gie di destre: una euro­pei­sta e tec­no­cra­tica nella quale si inse­ri­sce anche l’attuale com­pa­gine che sostiene il governo ita­liano; l’altra ultra­na­zio­na­li­sta e poten­zial­mente neo-fascista, come il Fronte nazio­nale in Fran­cia. Quello che più spa­venta è che il lavoro e le sue resi­due rap­pre­sen­tanze sem­brano para­liz­zate e silenti, in modo ana­logo a quanto già acca­duto nei momenti più cupi della sto­ria europea.

Il 3 luglio parte la rac­colta firme sul refe­ren­dum con­tro il Fiscal Com­pact. Cosa ne pensa?
Sul piano tecnico-giuridico l’iniziativa si muove lungo un sen­tiero imper­vio. Sul piano poli­tico, se venisse inter­pre­tata con la neces­sa­ria radi­ca­lità, potrebbe aiu­tare ad acce­le­rare le con­trad­di­zioni di un qua­dro euro­peo che in pro­spet­tiva resta insostenibile.

28 giugno 2014

Flessibilità, riforme e bugie

di Antonio Rei

La vulgata recita così: l'Italia ha ottenuto dall'Europa maggiore flessibilità sui conti pubblici in cambio delle riforme strutturali*. Sarebbe bello, ma non è vero. Si tratta di una bugia colossale, l'apice del teatro renziano che venerdì scorso, nella sala stampa di Bruxelles, ha trovato il più vasto palcoscenico possibile.

La panzana si articola su diversi piani. In primo luogo, dall'Ue non arriva alcun nuovo margine di flessibilità a beneficio dei Paesi in crisi. Non sta scritto da nessuna parte. Nell'ultima bozza del Consiglio europeo si parla di "fare miglior uso della flessibilità" già prevista nel Patto di stabilità, ovvero quel Fiscal compact che i 28 ribadiscono di voler rispettare. L'impegno rimane inderogabile, indiscusso e indiscutibile.
Ergo, non c'è nulla di nuovo, come Angel Merkel aveva anticipato prima al Bundestag poi alla stampa. L'impostazione della politica economica europea non cambia di una virgola, non c'è alcuna svolta in direzione della crescita o della creazione di posti di lavoro.

Fra le presunte novità, la principale misura prevede lo scorporo del cofinanziamento dei fondi Ue dal calcolo del deficit. Un passo avanti positivo, perché aiuterà a incrementare gli investimenti pubblici, ma non si può presentare come un vero cambiamento di rotta. Lo aveva già proposto un paio d'anni fa Mario Monti, che certo non era e non è un pensatore eterodosso rispetto al vangelo rigorista secondo Bruxelles.

L'unica vera flessibilità di cui i Paesi come l'Italia avrebbero davvero bisogno è quella sui parametri di bilancio, in particola sul famoso tetto del 3% al deficit pubblico. Ormai suona come un'eresia, ma non lo è: in determinate condizioni, lo sforamento è contemplato dallo stesso Trattato di Maastricht e i primi a usufruire della clausola, più di 10 anni fa, furono proprio Germania e Francia.

C'è però una differenza cruciale da tenere presente: la flessibilità sul disavanzo andrebbe a beneficio solo di alcuni Paesi, i più in difficoltà a causa della crisi, mentre lo scomputo degli investimenti sarà un vantaggio per tutti, Berlino compresa. Quale sarebbe allora la grande vittoria di Renzi su Angela Merkel? Quale sarebbe la contropartita per l'appoggio alla nomina di Jean Claude Juncker alla guida della Commissione Ue?

I socialisti europei, con il Premier italiano in testa, hanno dato il proprio via libera alla massima investitura del politico di destra più rappresentativo degli ultimi anni di tragica austerity, l'uomo simbolo dell'Europa iper-liberista a trazione tedesca. E lo hanno fatto per nulla, con l'unico risultato di togliere le castagne dal fuoco alla Cancelliera, che altrimenti avrebbe dovuto faticare non poco per superare l'ostilità della Gran Bretagna al grande ritorno del lussemburghese.

In secondo luogo, non è assolutamente vero che questa presunta flessibilità aggiuntiva sia in qualche modo legata al varo di riforme strutturali. Nemmeno di questo si trova esplicitamente traccia nero su bianco, com'era prevedibile. In effetti, di quali riforme stiamo parlando? Non si capisce davvero per quale ragione l'Europa dovrebbe interessarsi allo stravolgimento del Senato italiano e addirittura premiarci per questo.

Quanto al decretone sulla Pubblica amministrazione, non piace agli uffici tecnici del Quirinale, di conseguenza è lecito pensare che nemmeno Bruxelles ne sarà entusiasta, essendo Giorgio Napolitano il più riconosciuto alfiere dell'eurocrazia nel nostro Paese.

Renzi potrà anche atteggiarsi a risoluto sostenitore delle politiche per la crescita, ma nei fatti non lo è. Non lo è mai stato. La sua azione politica sembra guidata piuttosto dalla stella polare di una smodata ambizione personale. Le vittorie che si attribuisce oggi sono solo l'ennesimo colpo di teatro.

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29/06/2014

Libia - Solo il 18% ha votato per il nuovo parlamento

Le previsioni della vigilia sono state rispettate: la percentuale di votanti alle elezioni per la nomina del nuovo parlamento libico è stata bassissima: ha votato solo il 47% dei libici che si sono registrati per questa tornata elettorale, 630mila persone su un milione e mezzo. Gli aventi diritto al voto sono però 3,5 milioni. Ovvero, a votare si sono recati solo il 18% dei libici. Quindici seggi nella regione meridionale di Kufra sono stati costretti a chiudere a causa di attacchi da parte di milizie armate. Non si è votato nemmeno nella città di Derna, a Est, roccaforte jihadista, per il timore di attacchi contro i seggi. Nonostante ciò, il premier ad interim al-Thani ha parlato di “procedure normali”.

E mentre la Commissione elettorale, ieri, annunciava i primi risultati – solo parziali – il Paese era costretto ad affrontare un’altra grave perdita. Una delle più note attiviste libiche è stata uccisa mercoledì da un colpo di pistola che l’ha centrata nella sua casa di Bengasi, mentre tornava dal seggio elettorale.

Così è morta Salwa Bugaighis, avvocato e attivista per i diritti umani, ex membro del Consiglio di Transizione Nazionale nel 2011 e vice presidente del comitato per il dialogo nazionale che fu creato subito dopo la caduta del colonnello Gheddafi. L’attivista era già nota durante il regime gheddafiano, quando rappresentò da avvocato le famiglie di circa 1.200 prigionieri politici islamisti incarcerati a Abu Selim. Salwa era da anni in prima linea per la difesa dei diritti delle donne e ha guidato campagne per introdurre le quote rosa nel parlamento libico e per cancellare l’obbligo di indossare il velo.

E con lei ha perso la vita la guardia che avrebbe dovuto proteggere la sua casa: l’uomo era stato colpito alla gamba da uomini armati che sono poi entrati in casa dove hanno trovato la donna. Prima l’hanno accoltellata e poi le hanno sparato. L’uomo è stato però trovato morto nella sua camera di ospedale, era l’unico testimone dell’attentato. Il marito, Essam al-Ghariani, a casa al momento dell’agguanto, è scomparso, probabilmente rapito dalla milizia.

Ieri a Bengasi si sono svolti i funerali di Salwa, mentre la Commissione confermava i nomi di alcuni dei candidati usciti vincitori dalle elezioni parlamentari. I candidati, circa 1.600, sono tutti indipendenti, non affiliati a partiti politici. Tra gli eletti Mustafa Abushagur, premier nel 2012: restò in carica pochissimo, perché subito sfiduciato dal parlamento che non aveva accolto le sue proposte di governo. Hanno passato il turno anche altri ex membri del parlamento uscente: l’islamista Abdel-Rahman al-Swehli, vicino ad alcune milizie armate; e Hamouda Sayala, uomo dell’ex premier Jibril. A dimostrazione che, indipendenti o meno, i nuovi parlamentari fanno parte delle stesse fazioni e delle stesse correnti che in questi tre anni hanno guidato la Libia nel caos.

L’analista politica Salem Soltan è diretto: “Nessuno dei candidati porta con sé un peso politico e sociale significativo. Il nuovo parlamento rischia di essere guidato da parlamentari ombra, esterni, che agiranno seguendo le istruzioni delle milizie e dei signori della guerra”.

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USA, un mandato per spiare i cellulari

di Michele Paris

Con un’importante sentenza che ha in buona parte riconosciuto un sacrosanto diritto costituzionale, la Corte Suprema degli Stati Uniti questa settimana ha stabilito che le forze di polizia sono tenute a richiedere una specifica ordinanza di un giudice prima di esaminare il contenuto del telefono cellulare di un arrestato. Il parere espresso all’unanimità dal più alto tribunale americano è giunto in risposta a due cause, una delle quali aveva visto l’amministrazione Obama partecipare alle udienze preliminari in favore della polizia e contro il fondamentale diritto alla privacy dei cittadini.

Il verdetto è stato generalmente salutato dall’altra parte dell’oceano come una vittoria per i difensori dei diritti civili e un opportuno chiarimento circa l’applicazione di alcuni principi costituzionali nell’era degli smartphone e dei social network.

Secondo i media americani, inoltre, la sentenza potrà avere un impatto più ampio, includendo ad esempio le perquisizioni di tablet e computer portatili, ma anche di abitazioni e uffici, nonché i dati e le informazioni conservate dalle compagnie telefoniche.

A scrivere il testo della sentenza è stato il presidente della Corte Suprema, John Roberts, il quale ha affermato, tra l’altro, che i “vecchi principi” della Costituzione “richiedono l’esclusione del contenuto dei telefoni cellulari dalle perquisizioni di routine”.

Lo stesso giudice ha paragonato l’esame dei telefoni degli arrestati da parte degli agenti di polizia alle “ordinanze generalizzate” usate dagli inglesi prima dell’indipendenza americana per perquisire a piacimento le abitazioni private alla ricerca di prove di attività criminali. “Il fatto che la tecnologia consenta oggi a una persona di avere letteralmente nelle proprie mani simili informazioni”, ha aggiunto Roberts, “non rende queste ultime meno soggette alle protezioni per le quali i padri fondatori hanno combattuto”.

Il contenuto dei telefoni cellulari degli arrestati, quindi, è coperto dalle protezioni garantite dal Quarto Emendamento alla Costituzione americana, il quale impedisce perquisizioni e confische da parte delle autorità senza il mandato di un giudice.

Durante le udienze che hanno preceduto la deliberazione di mercoledì, i legali dell’amministrazione Obama avevano sostenuto che l’analisi dei cellulari era da considerarsi legittima anche senza il mandato di un tribunale, poiché i sospettati in stato di fermo potevano cancellare informazioni importanti in essi contenute o contattare i loro complici. La Corte Suprema ha invece respinto entrambe le tesi, proponendo alle forze di polizia di prevenire questi rischi estraendo la batteria o riponendo il cellulare in un apposito contenitore che impedisca la ricezione del segnale.

Secondo l’amministrazione Obama, poi, l’esame di un telefono cellulare non è in sostanza differente dalla perquisizione - consentita in caso di arresto - di una borsa o di un portafogli. Per i giudici, invece, questa operazione può essere effettuata solo per verificare se il cellulare nasconda un coltello o altri oggetti che rappresentino minacce materiali. Per il giudice Roberts, mettere sullo stesso piano le due perquisizioni è come affermare che “una gita a dorso di cavallo è materialmente indistinguibile da un volo sulla luna”.

Il primo caso all’attenzione della Corte Suprema che ha portato alla sentenza - “Riley contro California” - riguardava l’arresto di David Riley a San Diego nel 2009 dopo che la polizia a un normale posto di blocco aveva trovato armi cariche nella sua auto. Gli agenti avevano ispezionato lo smartphone di Riley, rilevando informazioni che lo collegavano a una sparatoria. Riley era stato alla fine condannato a 15 anni di carcere e una corte d’appello in California aveva stabilito che l’esame del suo cellulare non richiedeva l’ordinanza di un giudice.

Il secondo caso - “Stati Uniti contro Wurie” - era scaturito dall’arresto nel 2007 a Boston di Brima Wurie mentre spacciava crack. Tra gli oggetti confiscati c’era anche il suo telefono cellulare, dal quale la polizia ha potuto ricavare un indirizzo dove sono state poi rinvenute droga e armi. Nel processo di appello, tuttavia, i legali di Wurie avevano ottenuto il ribaltamento della condanna di primo grado proprio per l’utilizzo illegale delle informazioni reperite dal suo cellulare.

La sentenza definitiva della Corte Suprema è apparsa sorprendente a molti, soprattutto perché i tribunali inferiori negli ultimi anni sono più volte intervenuti a favore della polizia in casi riguardanti arresti e perquisizioni, spesso ritenute legali perché considerate necessarie a garantire la sicurezza degli agenti o a evitare la distruzione di prove. Gli stessi giudici supremi attualmente in carica, oltretutto, hanno ormai una lunga storia di sentenze favorevoli alle forze di polizia e volte a restringere i diritti dei sospettati.

Tuttavia, se il verdetto di mercoledì fissa senza dubbio un principio fondamentale, appare poco giustificato l’entusiasmo dei più importanti media “liberal” americani che hanno attribuito senza riserve una mossa, a loro dire, di impronta indubitabilmente progressista ad una Corte Suprema composta in maggioranza da giudici ultra-reazionari.

Infatti, tra le pieghe della sentenza vi sono alcuni aspetti che rendono la decisione meno rassicurante di quanto appaia a prima vista. I giudici, ad esempio, sembrano a un certo punto affermare la validità del Quarto Emendamento come semplice copertura per evitare ricorsi e battaglie legali prolungate. Ciò risulta evidente nel riferimento alla facilità con cui la polizia può ottenere l’ordinanza di un tribunale per esaminare il contenuto di un telefono cellulare, secondo Roberts addirittura “in 15 minuti” grazie all’uso di “e-mail e iPads”.

In una “opinione concordante” redatta dal giudice di estrema destra Samuel Alito, inoltre, viene chiesto al Congresso di intervenire sulla questione delle perquisizioni dei telefoni cellulari, così da bilanciare la garanzia della privacy dei cittadini con le necessità legate alla raccolta di prove delle forze dell’ordine.

Per il giudice nominato da George W. Bush, “sarebbe spiacevole se la difesa della privacy nel 21esimo secolo fosse lasciata principalmente alle corti federali”, costrette a decidere con il solo “strumento del Quarto Emendamento”. Quello che Alito intende, con ogni probabilità, è che il Congresso debba approvare delle regole che assegnino maggiori poteri alle forze di polizia durante gli arresti, in modo da restringere i casi di perquisizione per i quali si renda necessario richiedere un’ordinanza di tribunale.

Lo stesso testo della sentenza del presidente John Roberts, d’altra parte, cita le condizioni nelle quali le garanzie del Quarto Emendamento potrebbero venire meno, quando cioè le “circostanze lo richiedano con urgenza”. In tal caso, le forze dell’ordine avranno facoltà di violare liberamente la privacy dei cittadini, facendo riferimento a situazioni di emergenza spesso molto difficili da valutare.

Una simile eccezione ricorda sinistramente tutte le giustificazioni, legate alle presunte necessità della “guerra al terrore”, a cui si sono appellati i governi e i giudici americani nell’ultimo decennio per implementare e convalidare misure profondamente anti-democratiche.

A questa eccezione, perciò, ha subito fatto riferimento il Dipartimento di Giustizia di Washington nel commentare a caldo la sentenza di mercoledì, annunciando l’impegno del governo nell’individuare le “circostanze urgenti” che consentano di calpestare la Costituzione e di procedere con l’analisi dei telefoni degli arrestati senza il fastidioso coinvolgimento di un giudice.

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28/06/2014

Baikal, la Russia al lavoro sul processore di Stato

La Russia, secondo i media del paese, starebbe pensando di sbattere la porta in faccia a Intel e AMD in favore di un "processore di Stato" basato su architettura ARM. Tre aziende nelle mani del Cremlino (T-Platforms, Rostec e Rosnano) starebbero unendo le forze per sviluppare "Baikal", un chip a 64 bit ARM Cortex-A57 modificato, dotato di almeno otto core a 2 GHz (o più).

Baikal, che dovrebbe essere realizzato a 28 nanometri, sarà poi fornito alle autorità e alle aziende detenute dallo Stato, per essere usato all'interno di PC e server. L'agenzia di stampa ufficiale russa ITR-TASS ha confermato che Baikal "sarà installato sui computer governativi e nelle aziende controllate, che acquistano 700.000 computer all'anno per un valore di 500 milioni di dollari e 300.000 server per una spesa di 800 milioni".

La Russia non ha commentato i motivi di questa decisione, ma la volontà di Vladimir Putin di rendere la propria nazione "libera" dalle tecnologie straniere quanto più possibile è nota. Il suo impegno verso la creazione di una Silicon Valley russa va avanti ormai da diversi anni. Lo scandalo NSA, che ha portato alla luce il coinvolgimento di numerose aziende statunitensi in un'operazione di spionaggio globale probabilmente non ha fatto altro che accelerare i piani di Putin.

D'altronde chi assicura al presidente russo che AMD e Intel non abbiano inserito, sotto richiesta del governo americano, qualche backdoor all'interno dei propri processori? Sono congetture, ma visto quanto è trapelato nei mesi scorsi un po' di sano dubbio sulla moralità delle aziende statunitensi è più che lecito. L'architettura ARM, per quanto sia pensata da un'azienda inglese, è modificabile, quindi i progettisti russi possono rivoltarla come un calzino a loro piacimento.

Questo a sua volta potrebbe consentire allo stesso governo russo d'inserire delle backdoor nei microchip per controllare più da vicino la propria rete di computer statali e non. Insomma, se la motivazione ufficiale potrebbe essere quella di risparmiare e sganciarsi dalle aziende USA, quella ufficiosa potrebbe essere ben diversa e non tanto migliore del male che si cerca di estirpare.

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A parte il finale della notizia che lascia un po' il tempo che trova (per non dire che è una palese cazzata in quanto non si capisce per quale motivo lo spionaggio russo fatto in casa propria dovrebbe essere meno accettabile di quello statunitense eseguito su scala planetaria) questa è l'ennesima dimostrazione che la competizione tra blocchi geopolitici si fa sempre più serrata e che il ritardo informatico accumulato dal resto del mondo nei confronti degli Stati Uniti viene finalmente compreso da qualcuno e percepito per ciò che realmente è: un deficit enorme a livello politico e militare.

La Grande Guerra, Sarajevo, l’attentato e gli opportunismi


Oggi, 100 anni fa, un suddito giovane ed arrabbiato decide di liberare se stesso e i popoli sottomessi dal dominio asburgico sparando al principe ereditario Ferdinando e alla moglie Sofja sul ponte che attraversa la Miljacka. Un mese dopo con quella scusa papà Cecco Beppe inizia la guerra mondiale.

C’è un collega giornalista, scrittore e amico di Sarajevo, Zlatko Dizdarevic, che non ama ciò che sta accadendo e lo dice chiaro a tondo. Centenario dell’inizio del carnaio Grande Guerra. Zlotko non fa sconti: ‘Servirà all’Europa per lavarsi la coscienza’. Lo dice all’Osservatorio dei Balcani e lo ripete su Repubblica. E molti miei amici con cui ho condiviso quei maledetti quattro anni di piccola ma feroce guerra dell’assedio di Sarajevo, ho verificato, la pensano come Dizdarevic. ‘Se c’è un luogo dove i principi europei sono stati e vengono sistematicamente abbandonati, questo è Sarajevo’.

Gavrilo Princip, l’attentatore
Una osservazione immediata e incontestabile. Il rimestare nella storia centenaria quando non è stata ancora metabolizzata quella recente diventa occasione di nuovi contrasti. Battaglia su Gavrilo Princip. Per una metà dei bosniaci un terrorista serbo, per l’altra metà è un eroe. E di questo ripasso di storia Sarajevo non aveva certo bisogno. La Bosnia Erzegovina ancora segnata dalle distruzioni di 20 anni fa, è un Paese che non funziona, ‘Che non esiste’ azzarda Zlatko. Che spara una seconda bordata: “Tutti a citare i nuovi princìpi europei, qui dove sono stati calpestati più che altrove”.

L’inganno storico assorbito nella formalità di qualche cerimonia per l’occasione scatenante, la scusa ad una guerra che è bugia mutata in Storia. Buffoni inopportuni. Proprio per Sarajevo il nazionalismo, la storia degli ultimi 20 anni, sono tutti i problemi irrisolti. Zlatko, oltre che abile narratore è acuto politico, ironizza come su Princip e sull’attentato ‘Nelle nostre scuole elementari abbiamo manuali di storia che presentano tre versioni diverse dello stesso episodio, come possiamo discutere di queste cose? Perché le celebrazioni non le hanno fatte a Parigi, a Londra, a New York?’.

Il ponte dell’attentato forse l’ho attraversato una sola volta nelle migliaia di giorni che ho vissuto in quella città. Durante quei maledetti 4 anni era linea del fronte, sotto tiro dei cecchino dal cimitero ebraico e dei mortai dal Trebevic. No l’ho amato allora e come Zlatko Dizdarevic non mi sento coinvolto oggi in questo eccesso di tromboni musica e parole. Per un ricordo più corretto delle mie prevenzioni da guerra, ho chiesto aiuto a un amico di Fecebook, Giovanni Punzo che quel ponte ha frequentato da ufficiale nel contingente di pace italiano. E’ un attento studioso della Grande Guerra.

L’arciduca Ferdinando d’Asburgo e la principessa Sofja
«Per mesi, quasi tutte le mattine a Sarajevo, sono passato nel punto in cui il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip sparò all’arciduca Francesco Ferdinando. Pochi luoghi in Europa hanno subito tanti cambiamenti di significato come quelle centinaia di metri quadrati. Dopo l’attentato fu eretta una colonna per ricordare l’arciduca, ma dopo il 1918 fu rimossa per una lapide a Princip. Nel 1941, dopo l’occupazione, le truppe di Hitler la asportarono e gli ustascia di Ante Pavelic ne collocarono un’altra di opposto significato. Nel 1945 fu poi sostituita da una inneggiante alla libertà dei popoli».

«Durante l’assedio correva la prima linea: difficile dire se la lapide sia stata distrutta o rimossa. In sostituzione ce n’è un’altra: nella speranza - condivisibile - che sia l’ultima della lunga serie. Non si tratta però solo di lapidi: è tutto il XX secolo, il «secolo breve», dallo scoppio della Grande Guerra alla ‘caduta del muro’. Solo tre quarti di secolo, ma i peggiori vissuti dall’Europa, violenti e distruttivi e di cui Sarajevo è prova materiale dall’inizio alla fine. Sofri scrisse che era stato come se un serpente si fosse morso la coda e un secolo fosse iniziato e concluso nello stesso luogo».

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Nuovi ospedali: "project financing" o strozzinaggio legalizzato?

L'articolo che segue è tratto dall'edizione cartacea di Senzasoste attualmente in edicola. Abbiamo pensato di pubblicarlo in contemporanea anche sul nostro sito perché la questione nuovo ospedale è al centro del dibattito politico cittadino. Dopo l'annuncio del nuovo sindaco di voler stoppare l'operazione, Livorno è sotto attacco da parte del "governatore" Rossi, che paventa scenari apocalittici e chiede (da vero signore qual è) la restituzione dei soldi che la Regione avrebbe speso per la viabilità. Questo articolo dimostra invece che sull'operazione nuovo ospedale di motivi di perplessità ce ne sono parecchi, e che la nuova Giunta farebbe bene ad aprire subito un audit per capire come sono stati calcolati gli interessi del "project financing". Leggete cosa sta succedendo in Veneto (red.)

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di Dattero e Ciro Bilardi

Il project financing è quello straordinario escamotage per cui il privato anticipa dei soldi per costruire un’opera pubblica e in cambio si aggiudica concessioni per un periodo “congruo” a ripagare tale anticipo. Nel progetto del nuovo ospedale a Montenero a fronte di 81 milioni di euro di anticipi ai privati verrebbero assegnate concessioni della durata di 34 anni per un valore di 32,7 milioni di euro all’anno. Un totale di 1 miliardo e 111 milioni di euro!

In Veneto, dove il project financing è stato utilizzato a piene mani, questo meccanismo è nell’occhio del ciclone. Ma quanto leggerete non è stato pubblicato dalla stampa locale livornese.

L’attuale presidente del Veneto Zaia, che è un leghista e non un pericoloso “ambientalista del no” aveva incentrato la sua campagna elettorale del 2010 sull’annullamento dei project financing onerosissimi stipulati dal suo predecessore Galan. Ma una volta eletto ha scoperto che i contratti sono blindati da penali impossibili. “Chiedo aiuto al Parlamento” ha dichiarato “voglio chiudere i project del passato perché ci costano un’enormità in termini finanziari, ma ho bisogno di una normativa che mi consenta di liquidare i privati con una transazione. Il problema è di livello nazionale”.

Galan, che aveva “regnato” in Veneto per 15 anni ed era stato anche ministro con Berlusconi, è attualmente coinvolto nell’inchiesta Mose. Secondo i magistrati si era fatto uno “stipendio” di un milione l’anno solo di mazzette, in cambio delle quali, guarda caso, avrebbe "accelerato l'iter procedurale dei project financing”.

Per il nuovo ospedale di Santorso, nell’Alto Vicentino [nella foto in alto], un’associazione ha realizzato un audit e ha calcolato che per il noleggio delle attrezzature sanitarie i tassi di interesse arrivavano al 22%, quando un tasso del 10,5% era già da considerarsi usura. Se l’ULSS avesse chiesto gli stessi soldi in banca avrebbe un debito di 3 milioni e 865 mila euro l’anno, mentre con il project financing restituirà 7 milioni e 629mila euro l’anno. La differenza complessiva è di 150 milioni di euro regalati ai privati.

È stato presentato un esposto firmato anche da un sindaco, sei assessori e trenta consiglieri comunali di ben 11 Comuni, si è mossa la Corte dei Conti che sta procedendo per danno erariale, ma anche la magistratura ordinaria che sta indagando per usura.

Ma quali sono le imprese con cui in Veneto sono stati stipulati questi accordi capestro? Ecco le onnipresenti CMB e CCC, ovvero le cooperative piddine emiliane, impegnate anche nella discussa Expo 2015, e per i due ospedali di Castelfranco-Montebelluna c’è anche Guerrato, l’impresa che ha vinto l’appalto per l’Ospedale di Montenero. Nel caso dell’Ospedale di Venezia troviamo Co.ve.co (cooperative piddine del Veneto) associate al gruppo Guerrato per l’ospedale di Montenero e presenti pure loro nell’Expo 2015.

Alcune domande “sorgono spontanee”. La prima è: nel caso dell’ospedale di Montenero come sono stati calcolati gli interessi per i privati? Sarebbe necessario far partire un audit prima che sia troppo tardi. L’assessore Marroni ha infatti dichiarato che «Le regole del project financing prevedono che una parte della negoziazione avvenga dopo che c’è stata l’assegnazione provvisoria. Dopo di che sarà il momento dell’assegnazione definitiva».

L’importo di 1 miliardo e 111 milioni di euro certamente non è tutto profitto netto, ma è comunque una cifra impressionante. Tanto per dare un’idea, corrisponde a un migliaio di posti di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Quanti sarebbero invece i posti di lavoro assicurati dai privati? Perché non utilizzare questi soldi per assumere direttamente gli operatori sanitari?

E come mai la Regione Toscana, che ama vantarsi del proprio sistema sanitario pubblico, adotta un meccanismo finanziario che apre le porte a partner privati inamovibili esternalizzando anche servizi essenziali come la sterilizzazione? Come mai si introduce un meccanismo che come dimostra la cronaca veneta è criminogeno? Interrogativi inquietanti a cui il “governatore” farebbe bene a rispondere.

Fonte

Windows 8 gratuito: una rivoluzione. Ma sarà un torrent che li seppellirà!

<< Qui trova applicazione tutto quanto è stato detto nella prima sezione di questo Libro sulle cause che aumentano il saggio del profitto pur rimanendo costante il saggio del plusvalore o anche indipendentemente da esso e soprattutto il fatto che, dal punto di vista del capitale complessivo, il valore del capitale costante non si accresce nella stessa proporzione del suo volume materiale.

Ad esempio, la quantità di cotone lavorata da un solo operaio filatore europeo in una fabbrica moderna si è accresciuta in proporzioni colossali rispetto a quella che un filatore europeo riusciva a produrre in tempi passati con il filatoio a ruota. Ma il valore del cotone lavorato non presenta un aumento proporzionale alla sua massa. Il medesimo fenomeno si riscontra per le macchine e per tutto il capitale fisso. In breve, la stessa evoluzione, che porta all’aumento della massa del capitale costante rispetto al variabile, tende a far diminuire, in seguito alla crescente produttività del lavoro, il valore degli elementi che lo costituiscono ed impedisce di conseguenza che il valore del capitale costante (per quanto in continuo aumento) si accresca nella stessa proporzione della sua massa materiale, cioè della massa materiale dei mezzi di produzione messi in opera da una stessa quantità di forza-lavoro. In alcuni casi particolari può anche accadere che la massa degli elementi del capitale costante si accresca mentre il suo valore rimane invariato od anche diminuisce.

Queste considerazioni hanno valore anche per quanto riguarda la svalorizzazione del capitale esistente, ossia degli elementi materiali che lo costituiscono, derivante dallo sviluppo dell’industria. Esso pure rappresenta uno dei fattori che agiscono continuamente per ostacolare la caduta del saggio del profitto, quantunque in particolari circostanze possa ridurre la massa del profitto, riducendo la massa del capitale che produce il profitto.

Resta qui ancora una volta dimostrato che le medesime cause che determinano la tendenza alla caduta del saggio del profitto agiscono al tempo stesso da freno nei suoi confronti.>>


LEGGE DELLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DEL PROFITTO
CAPITOLO 14, CAUSE ANTAGONISTICHE

La tempistica del “ping-pong” fra la tendenza del capitale costante ad aumentare (secondo la tendenza del saggio dei profitti globali a cadere) e i prezzi della componentistica a diminuire, è stata molto velocizzata dall’informatica.

Questa, infatti, rappresenta un mercato “giovane”: nato e cresciuto dopo la seconda guerra mondiale, a differenza di altri mercati già esistenti e poi capitalistizzati, o cresciuti con la prima industrializzazione, è lo “specchio” degli anni ’80-2000 (rispetto al mercato automobilistico, sviluppatosi tempo addietro e che ha conosciuto una storia capitalisticamente “lineare”).

In questo mercato non si possono (ancora?) riscontrare tutti quanti i sintomi “classici” dell’imperialismo o, meglio, sono cambiate diverse cose da quanto analizzato da Lenin nel suo celebre libro: ad esempio il tipo di monopoli da lui analizzati. Se infatti la creazione di un’oligarchia finanziaria, le continue acquisizioni di aziende e la formazione di altre di dimensioni sempre più grandi, unite all’esportazione di capitali e merci in tutto il mondo o al ruolo delle grandi banche sono realtà che abbiamo sotto gli occhi, il tipo di monopolio (o oligopolio) odierno nel campo informatico si differenzia notevolmente da quello, ad esempio, nel settore minerario o automobilistico. Google, Facebook, Amazon o Microsoft, con tutte le contraddizioni del caso, rappresentano società che, nel loro campo, detengono “diritti di proprietà” su merci virtuali e fisiche (notizie, profili dei social network, programmi o dispositivi) che trasmettono o permettono di trasmettere informazione. Non stiamo dicendo che questa sia “la società dell’informazione”, poichè ogni società è società di informazione; ma che c’è un’enorme differenza fra il possedere un monopolio su di una fonte energetica (carbone o petrolio) o un prodotto lavorato come l’automobile ed essere proprietari di qualcosa che emette dati in continuo aggiornamento. I social network in particolare rappresentano una straordinaria fonte di rendita per vendere informazioni e pubblicità in base alla profilazione degli utenti (e qui stendiamo un velo pietoso su chi pensa che, per il semplice fatto di postare la foto di un gattino si produca valore nella società) ma, al tempo stesso, anche un vettore di comunicazione. Strumenti che sempre più spesso vengono utilizzati in ogni parte del mondo per organizzare proteste, rivolte, e diffondere notizie scomode. Sarà poco, dipenderà da infrastrutture chiuse il cui funzionamento è oscuro ai più, ma per la prima volta nella storia ci sono strumenti “social” i quali, pur assorbendo e riflettendo ogni tipo di disagio e feticcio esistenti, permettono di andare oltre e fare potenzialmente “network” per sincronizzarsi sulle stesse frequenze. Con un hashtag come con una foto.

Senza contare la crescente diffusione di strumenti più raffinati e volti non solo alla condivisione di dati, ma proprio alla produzione, dalla piccola come alla grande scala (le stampanti 3D). Una contraddizione che vedremo esplodere fra qualche anno, visto che il Capitale tende a socializzare sempre più la produzione, facendo in questo caso un grande e nuovo salto qualitativo, oltre che quantitativo. Ma in misura nuova, come nota Rifkin nel suo ultimo libro, attraverso il cosiddetto “internet of things”, ovvero i sensori montati su ogni oggetto con cui entriamo in contatto e il contrasto fra il capitalismo come lo conosciamo e quelli che lui chiama i “commons”.

Un altro punto da guardare con attenzione è quello della velocità: le contraddizioni della tecnologia, potremmo dire, viaggiano alla velocità dei (Big) dati!
Questa nuova tecnologia più di tutte incarna elementi “spuri”, non prettamente capitalistici: la condivisione di qualsiasi tipo di materiale, dai film ai libri passando per musica e immagini, con la conseguente erosione della proprietà privata dei diritti d’autore attraverso la socializzazione delle proprietà individuali (singoli utenti che dopo aver comprato il “loro” dvd, il “loro” libro, decidono di condividerlo in rete e permetterne la fruizione a chi non lo ha comprato).

Nell’informatica i prezzi scendono in picchiata di semestre in semestre, e questa giovane tecnologia si sta dando anche una sua “moneta” (il Bitcoin) sganciata dal controllo delle banche e originata da un algoritmo criptografato.
“Forma fenomenica”, per così dire, della caduta tendenziale del saggio del profitto, la caduta effettiva dei prezzi della tecnologia ci stupisce sempre al ribasso: dal tablet della Samsung a 10€ , ai brani musicali a 0,99€ su iTunes.

Il nuovo Windows 8 gratuito va in questa direzione, o, per essere più precisi, in questa tendenza.
Sono lontani i tempi in cui dovevamo installare il vecchio windows 3.11 con una decina di floppy disk sperando nella buona stella della fortuna (ossia nel buon serial key “amico”). Oggi in un’oretta scarsa si può installare Linux su qualsiasi PC e accedere a versioni gratuite di qualsiasi tipo di programma: videoscrittura, impaginazione, video making, audiosequencer, ecc. basta un click, un torrent e via, possiamo avere la “nostra” copia digitale.
Uno smartphone, device diffuso 8 anni fa al prezzo di 1000$, oggi si può comprare a meno di un normale telefono portatile, il loro sistema operativo, Android, è anch’esso gratuito.

Quando anche il Corriere ci ricorda che Windows 8

<< Sarà gratuito, come dicevamo, lo scopo di tutto ciò è battere Android, che è gratuito, e iOS, che arriva preinstallato in tutti i device mobili della Mela. La nuova strategia quindi prevede la licenza gratuita per Windows 8.1 e Windows Phone 8.1 su tutti i device sotto i nove pollici. Una strategia che se da una parte erode i piccoli introiti di Redmond dall’altra permetterà una maggior diffusione del sistema operativo, un calo nel prezzo dei device e, si spera, incentiverà lo sviluppo di nuove applicazioni. A prescindere da Cortana e dall’estetica infatti Windows su mobile soffre di una carenza di app che si sta rivelando letale. Meglio allora darlo via gratis sperando però che venga adottato da più persone. >>

Microsoft, quindi, si dimostra più “open” di Apple, ma molto, molto meno di Google.

Infatti l’uomo più ricco del mondo è proprio il fondatore della Microsoft, ma, si noti bene, il suo patrimonio è UN SETTIMO del patrimonio dell’uomo più ricco degli anni ’50, Henry Ford.

Questo giovane mercato sembra giocare d’anticipo sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, flirtando al contempo con la crisi della legge del valore; la domanda che torrent, emule & soci pongono alla storia è semplice quanto spietata: “perché pagare quando si può socializzare?”.
La risposta da parte di questo modo di produzione è farraginosa, contraddittoria, incongruente, quasi sempre tardiva, “capitalism is writing…”.

Ma intanto i bits non aspettano, la storia corre veloce sulle nostre connessioni 4G: “revolution loading…”.

PUNTO E A CAPO 3 La destra americana l’Iraq e la memoria

John McCain e George W. Bush,

La memoria delle cose che manca agli Stati Uniti. Michele Marsonet la storia la frequenta assiduamente e oggi ripercorre delle follie strategiche che portano al caos iracheno. Prima accadde in Afghanistan, per tacere del Vietnam. Ex amici armati e allevati in casa che diventano i nuovi nemici.

Forse alcuni rammentano che il senatore John McCain fu il candidato repubblicano sconfitto, nelle elezioni presidenziali del 2008, da Barack Obama. Più difficile ricordare che otto anni prima, nel 2000, venne invece battuto da George W. Bush nelle primarie del Grand Old Party.

E’ noto inoltre come eroe di guerra. Pilota della US Navy, nel 1967 il suo Skyhawk fu centrato da un missile della contraerea durante un bombardamento su Hanoi. Catturato dai nordvietnamiti trascorse parecchi anni nella famigerata prigione di Hoa Lo (detta anche “Hanoi Hilton”), dalla quale uscì per rientrare in patria solo nel 1973. Gli abusi subiti durante la prigionia, poi raccontati in un libro, lo resero ovviamente celebre spianandogli la strada della carriera politica.

Va notato che McCain è sì un conservatore, ma ha pure la fama di “battitore libero”. In più occasioni non ha esitato a criticare i presidenti del suo stesso partito – quello repubblicano – sulla condotta della politica estera. E’ diventato sempre più critico, ad esempio, circa la conduzione delle operazioni belliche in Irak, e si è schierato nettamente contro gli abusi sui prigionieri di guerra, memore dell’esperienza da lui stesso vissuta in Vietnam.

Ultimamente il senatore ha però riassunto le vesti di falco a tutto tondo. Notissimo il suo discorso nella Piazza Maidan di Kiev dove promise agli insorti ucraini il pieno appoggio occidentale contribuendo a infiammare gli animi (mentre, a posteriori, è evidente che occorreva calmarli come notò subito Henry Kissinger).

Ora si apprende che nel corso di alcune interviste alla CNN McCain ha ringraziato in modo molto caloroso l’Arabia Saudita e il Qatar per l’appoggio di ogni tipo fornito alle forze anti-Assad in Siria. Gli elogi erano soprattutto rivolti al principe Bandar bin Sultan, per lungo tempo capo dei servizi segreti sauditi.

Il problema è che, poco dopo tali interviste, Bandar è stato rimosso dall’incarico dal re Abdullah. Evidente, quindi, che qualcosa non funzionava. Partiti con l’intento di aiutare i ribelli siriani moderati (e almeno ufficialmente filo-occidentali), i sauditi – e con loro il Qatar – hanno poi finito con l’armare le milizie qaediste.

Re Abdullah Saud di Arabia Saudita

E non è finita. A quanto pare i due Paesi arabi hanno pure favorito l’ascesa dell’ISIS (o ISIL), la milizia fondamentalista che in poco tempo ha sbaragliato l’esercito regolare irakeno addestrato dagli USA, spadroneggiando in un territorio assai vasto a cavallo tra Irak e Siria.

L’intento è quello di dar vita a un vecchio sogno: la rifondazione del grande califfato islamico (e, se continuano così, ci riusciranno). Degno di nota un altro fatto. Finora si riteneva che il Kurdistan fosse al sicuro poiché, a detta degli esperti, i celebri peshmerga curdi avevano sigillato i loro confini “senza lasciar passare neppure uno spillo”. Pare sia una pia illusione. I governanti del Kurdistan sono preoccupati, mentre giunge notizia di bambini curdi sequestrati dagli jihadisti per essere addestrati alla guerra santa.

Insomma un caos senza pari, a confronto del quale persino l’indubbia barbarie del dittatore Saddam Hussein impallidisce. Tanti sono gli interrogativi cui è difficile dare risposte precise.

Al-Qaeda venne all’inizio supportata dagli americani in funzione anti-sovietica, e la sua affinità almeno spirituale con il wahabismo, l’interpretazione dell’Islam adottata da Riad, non è certo un mistero. Come già in Afghanistan (per tacere del Vietnam) gli americani si ritrovano adesso a combattere nemici che utilizzano armi made in USA, abbandonate sul terreno da eserciti in fuga e da loro stessi addestrati.

Chissà se il senatore McCain – e altri come lui – lo ha capito. A giudicare da come si comporta di direbbe proprio di no. E questo è un bel guaio, che non coinvolge soltanto gli Stati Uniti ma l’intero Occidente.

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