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31/05/2014

I stay away


I pazzi Boko Haram, le tentazioni americane e il rischio massacro


Tentazioni di prova di forza in Nigeria, sulla pelle delle oltre 200 studentesse rapite da oltre un mese. Per la loro liberazione, l’arrivo di contingenti statunitensi, britannici e francesi nella Regione dei Laghi e la campagna mediatica a livello planetario con lo slogan #Bring Back Our Girls.

L’invio di contingenti statunitensi, britannici e francesi in Nigeria e nella Regione dei Laghi e la campagna mediatica a livello mondiale con lo slogan #Bring Back Our Girls sembra abbiano indotto gli esponenti della Shura di Boko Haram a trattare la liberazione di un gruppo di 50 fra le ragazze rapite. In cambio della scarcerazione di 100 loro combattenti.

La decisione sarebbe stata presa a Maiduguri, capitale del Borno e roccaforte del gruppo, anche su pressione dello Yusifiyya Islamic Movement, ala scissionista moderata che proprio nella capitale nigeriana aveva negoziato una tregua col governo poi rifiutata da Bako Haram.

Ma neanche questa volta l’accordo ha avuto seguito a causa della diffusione di notizie che dovevano restare riservate.


Un lungo elenco di errori, se soltanto di errori si tratta.
Il primo azzardo è del Capo di Stato Maggiore della Difesa Alex Badeh che annuncia la localizzazione del posto dove sono detenute le ragazze, anche se esclude un intervento di forza.
Nei giorni precedenti già i media locali avevano rivelato la scoperta delle studentesse nel Nord di Kukawa, a Ovest del Lago Ciad. Divise in gruppi nascosti negli accampamenti degli islamici a Madayi, Dogon Chuku, Meri e Kangarwa.
Poi il Camerun che rende noto di aver inviato ai confine con la Nigeria 1000 soldati dei Reparti Speciali mentre i media riferiscono che 80 marines, inviati nel vicino Chad, hanno raggiunto l’impenetrabile Foresta di Sambisa - abituale rifugio dei Boko Haram - a 330 km da Maiguduri.

Conseguenze di tante illazioni su fatti veri o presunti, le trattative sono state sospese. Sospetto scontato dei Boko Haram che il Governo Federale di Abuja stesse guadagnando tempo solo per tentare la localizzazione delle studentesse e dare il via a un’operazione di recupero.
Una scelta piana di rischi, soprattutto per la vita delle povere studentesse.
Modulo operativo già adoperato nel marzo 2013 dalle forze britanniche e nigeriane nello Stato di Bauchi, nel Nord del Paese. Un blitz per liberare 7 ostaggi che furono invece uccisi dai militanti di Ansaru, l’ala internazionalista di Boko Haram.

È utile ricordare che Boko Haram è organizzata in due corpi. Lo Yusifiyya Islamic Movement, YIM, ala relativamente moderata del movimento utilizzata per eventuali trattative con Abuja, e quella internazionalista, Ansaru, che esegue operazioni anche al di fuori del Paese e mantiene i rapporti con Al Qaeda in the Islamic Maghreb.
Nel 2012 il leader di Boko Haram aveva giurato fedeltà ad Ayman Al Zawahiri, memoria storica di Al Qaeda e capo ideologico delle formazioni qaediste definendo in tal modo obiettivi politici e bersagli terroristici.
Quello che Al Qaeda chiama il “nemico vicino”. Villaggi e scuole orientate verso valori non islamici e i siti governativi corrotti e infedeli.
Per il “nemico lontano” Boko Haram vuole formare un movimento di jihad mondiale con i combattenti in Afghanistan, Pakistan, Kashmir, Cecenia, Iraq, Arabia Saudita, Yemen, Somalia, Algeria, Libia e Mali.

Solo con grande ritardo e con il sequestro delle studentesse la minaccia di Boko Haram viene percepita a livello di opinione pubblica mondiale.
La gravità di questo ritardo viene rilevata dallo stesso Presidente statunitense.
E’ Obama, all’Accademia militare di West Point a dare la notizia che la guerra al terrorismo non è finita e a lanciare il piano per un “Partnership Terrorism Fund” per sostenere i Paesi che lottano contro gli estremismi.
Il Presidente chiede al Congresso un fondo di 5 miliardi di dollari per formare e aumentare le capacità di quei Paesi che sono in prima linea: Yemen, Somalia, Libia e Nigeria in favore della quale ha inviato 80 soldati in Chad per localizzare e salvare le studentesse rapite.

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Sicuro che Obama è solo preoccupato di contenere il terrorismo...

Libano - Il vuoto presidenziale e la questione confessionale

Si è svolta giovedì senza particolari intoppi la prima seduta del parlamento libanese senza la presenza di un presidente eletto. È da sei giorni infatti che lo scranno presidenziale è vuoto, data l’incapacità della Camera di eleggere il successore di Michel Sulaiman entro i termini di scadenza del suo mandato, passando così “la palla” all’esecutivo fino all’elezione di un nuovo Capo dello Stato. E se USA, Francia e Nazioni Unite tuonano affinché una soluzione venga trovata in tempi brevi nel timore di una nuova paralisi istituzionale faccia a faccia alla crisi siriana, le preoccupazioni della classe politica libanese sembrano muoversi invece su tutt’altro piano, strettamente legato alla legittimità dell’impianto confessionale costitutivo della Repubblica sin dalla sua fondazione e istituzionalizzato costituzionalmente con i cosiddetti “Accordi di Taif” del 1989.

In effetti, guardando da un punto di vista eminentemente tecnico alla distribuzione dei poteri tra le diverse cariche istituzionali sancita dalla Costituzione, la figura presidenziale non dispone di alcuna autorità determinante tanto nell’iter legislativo quanto esecutivo. Il presidente infatti, pur potendo presiedere alle sedute parlamentari, non può né deciderne l’agenda né votarne le decisioni, così come in caso di veto (che può opporre solo una volta) è obbligato ad accettare le decisioni della Camera dopo una sola revisione; infine, in caso di assenza come quello in corso, i suoi poteri passano tout court al governo in carica.

Non avere un presidente dunque, non pregiudicherebbe affatto lo svolgimento di una regolare vita istituzionale. Tuttavia, ammetterne esplicitamente la non-indispensabilità, implicherebbe mettere in discussione dalle fondamenta il principio di rappresentatività confessionale alla base del sistema libanese tutto, privando la componente cristiana dalla sua emanazione nella troika istituzionale [secondo la Costituzione il Presidente della Repubblica deve essere cristiano maronita, il Primo Ministro musulmano sunnita e il Presidente della Camera musulmano sciita, n.d.a.] e minando così la legittimità di qualsiasi provvedimento legislativo preso in sua assenza.

Ciò nonostante, una soluzione per uscire dall’impasse sembra ancora lontana dall’essere trovata. La consapevolezza della centralità della questione per la tenuta dello status quo alla quale nessuna delle forze politiche in campo vuole e può rinunciare per mantenersi al potere da un lato, e la consapevolezza di poter prendere tempo dall’altra, sta infatti portando i leader cristiani delle due coalizioni avversarie dell’8 e del 14 Marzo (rispettivamente Michel Aoun del Movimento Patriottico Libero e Samir Geagea delle Forze Libanesi) a sfruttare la corsa alla presidenza per l’ultimo, disperato, tentativo di fare da traino per il cambiamento dei rapporti di forza tra i due blocchi a fronte del basso profilo sul quale, al contrario, i rispettivi alleati di maggioranza (il Movimento Mustaqbal ed Hezbollah) stanno puntando.

Insomma, anche in questo caso, lo scenario più plausibile è che la soluzione venga trovata tra Parigi e Riad attraverso la mediazione di leaders altri (Jumblatt, Berri, Siniora, Salam) faccia a faccia agli equilibri regionali contingenti, con buona pace dei diretti interessati.

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Napolitano, il custode della "tonnara"



Non ne sentivamo la mancanza, ma sapevamo che prima o poi sarebbe arrivato. Parliamo del "placet" del Quirinale alla repressione dei movimenti di protesta, messi in moto dal crescente disagio sociale prodotto dalla crisi e aggravato dalle politiche di austerità.

L'occasione colta da Giorgio Napolitano è stata la più scontata che si possa immaginare, ed anche lievemente inquietante: la festa del 2 giugno. Che ormai il potere non collega neppure più alla ritrovata libertà del paese o all'approvazione della Costituzione repubblicana, ma soltanto all'importanza delle "forze armate".

In un messaggio inviato ai prefetti italiani scrive infatti:

"Coloro che, come voi, rivestono funzioni pubbliche sul territorio costituiscono il fronte più esposto alle sfide della quotidianità ed a quelle manifestazioni di malessere che debbono essere affrontate con senso di responsabilità e lungimiranza, non disgiunte dalla necessaria fermezza contro ogni forma di violenza, di illegalità e di prevaricazione".

Linguaggio riesumato da altri tempi e stagioni (quelle del Pci berlingueriano che copriva politicamente e in toto la repressione cossighiana dei movimenti degli anni '70). Con quella solita, penosa e falsa riverenza formale allo spirito della Costituzione - che afferma la libertà di manifestazione, sciopero, opinione, ecc - e la repressione senza se e senza ma riservata teoricamente soltanto ai "violenti".

Per chi non ha ricordi così antichi, si potrebbe menzionare soltanto l'esempio di Genova 2001, in cui la violenza della polizia (e dei carabinieri, e della guardia di finanza e degli agenti carcerari di Bolzaneto, medici compresi) fu accuratamente pianificata proprio con la scusa ufficiale di dover reprimere i "black bloc". E tutti possono ancora oggi vedere una quantità incredibile di foto di quelle giornate che ritraggono per l'appunto funzionari di polizia di fianco ad agenti in borghesi "travestiti" da black bloc.

Scene simili si sono riviste di recente a Roma, il 12 aprile, e a Torino subito dopo. Una riedizione delle tattiche guerresche cossighiane, diventate ormai modalità naturale di gestione delle piazze.

Il monito presidenziale non va dunque sottovalutato. Costituisce una legittimazione a monte delle "tonnare" in stile 12 aprile, delle manganellate a raffica, degli arresti "mirati".

Il conflitto sociale troverà comunque il modo di esprimersi, crescendo di consapevolezza, accortezza, saggezza e determinazione. Ma nessun regalo va fatto a chi, nei palazzi del potere, spera di poterlo ridurre a "semplice questione di ordine pubblico".

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Libia - Il generale Haftar promette le elezioni

Il generale in pensione Khalifa Haftar si gode il sostegno di migliaia di manifestanti, mentre pare che Stati Uniti, Algeria e Francia dispiegassero forze speciali a Sud della Libia per arginare il terrorismo. In mezzo un Paese mai pacificato dopo la caduta del colonnello Gheddafi, con un governo incapace di evitare azioni personali di ex militari, lanciatisi in una campagna anti-islamista senza precedenti.

L’operazione Karame (dignità) dell’ex uomo della CIA, in prima linea nella deposizione di Gheddafi, prosegue: ieri in Piazza dei Martiri, nel cuore di Tripoli, a Tobruk e Bengasi, migliaia di persone si sono ritrovate per il secondo venerdì di fila per dimostrare il loro sostegno all’azione di Haftar. I manifestanti hanno intonato slogan, distrutto una bara da loro stessi costruita con su il nome della formazione islamista Ansar al-Sharia e quello del neo premier Ahmed Maiteg, vicino ai movimenti islamisti.

Due settimane fa l’ex generale, a capo di truppe a lui fedeli, forte del sostegno di decine di veicoli militari e elicotteri dell’esercito, aveva lanciato una sanguinosa rappresaglia contro gruppi islamisti presenti a Bengasi, Ansar al-Sharia in primis: decine le vittime dei due giorni di scontri che ne seguirono, mentre il governo centrale si limitava a chiedere ai militari di non unirsi ad Haftar e a dichiarare di non aver mai ordinato l’operazione.

A capo del cosiddetto Esercito Nazionale Libico, creatura dello stesso Haftar, l’ex generale ha compiuto un passo in più verso il golpe: ieri ha dichiarato alla CNBC che il prossimo passo dell’operazione Karame saranno le elezioni. “La nostra missione si fonda sulla rimozione dei fondamentalisti che arrivano dall’estero – ha detto nell’intervista – Continueremo a usare la forza per cacciare dal Paese combattenti stranieri provenienti da Afghanistan, Pakistan, India, Algeria e Tunisia. Poi seguiranno le elezioni: avremo bisogno di tempo per prepararle e poi il popolo libico deciderà”.

Haftar, fuggito in esilio negli Stati Uniti negli anni ’80 dopo duri scontri con Gheddafi, è tornato nel Paese nel 2011 per partecipare alla deposizione del colonnello. Accusato di essere una spia della CIA, oggi nega di avere – e di voler chiedere – il sostegno degli Stati Uniti. Che nel frattempo, insieme a Francia e Algeria, si starebbero organizzando: i tre Paesi avrebbero inviato contingenti di forze speciali a sud del Paese. Obiettivo, le milizie di Al Qaeda in Maghreb (Aqim). Per ora la Casa Bianca nega la notizia, riportata da diversi media arabi.

A preoccupare è la condizione politica ed economica di un Paese nel caos. Il governo figlio dell’attacco militare della NATO si sta dimostrando incapace di ricostruire l’economia libica e di disarmare tutte quelle milizie che nel 2011 fecero cadere Gheddafi: nessuno intende abbandonare le armi. A ciò si aggiunge la storica divisione tra Tripolitania e Cirenaica, con Bengasi che punta con forza all’autonomia dal potere centrale.

Ad operare, ex milizie oggi dichiaratesi “governo indipendente”, attive soprattutto in campo energetico: nell’ultimo anno i gruppi indipendentisti hanno occupato porti e pozzi di petrolio, impedendo l’esportazione del greggio all’estero, principale fonte di entrata del Paese. Oggi la produzione è crollata a 165mila barili al giorno, contro il milione e mezzo del 2012. Gli investitori esteri scappano e le compagnie petrolifere preferiscono evitare un Paese nel caos, senza forze di polizia coese e un governo instabile, il cui premier viene sostituito a intervalli quasi regolari, senza una costituzione né istituzioni in grado di guidare la ricostruzione.

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Tutto il potere all'impresa? Grazie, Renzi...

Confindustria è da sempre, per natura, una “parte sociale” filo-governativa. Ma con Renzi sembra aver trovato finalmente quello che nessuno, neanche “l'imprenditore” Berlusconi, era stato in grado di regalarle: il controllo assoluto del lavoro.

E non stiamo alle solite promesse, perché qualcosa di sostanzioso – anzi di decisivo – è già stato realizzato dal duo Renzi-Poletti. L'anticipo di jobs act rappresentato dalla “riforma” dei contratti a termine e dell'apprendistato è di un'importanza tale che Confindustria dice fin d'ora: inutile fare il contratto unico a tutele crescenti (la vecchia proposta di Pietro Ichino, “ormai superata”), ci basta e avanza quel che già ci avete dato. Le cose da aggiungere ormai sono altre.

L'editoriale di Alberto Orioli, sul IlSole24Ore di oggi, è una sintesi horror di quel che ha in testa l'imprenditore medio italiano, di quello che passa nei neuroni del governo e del futuro di questo paese. Dismessa ogni remora, è tutto un fiorire di sepolture. Addio al mondo dei diritti del lavoro (“una nuvola di diritti, garanzie e procedure astratti e non come un'attività di persone in carne e ossa che dal lavoro devono trarre identità sociale e reddito”), alla rappresentanza sociale e sindacale dei lavoratori, alla contrattazione (sostituita dalla “sperimentazione del salario minimo orario stabilito per legge” e ridotta alla sola dimensione aziendale), agli ammortizzatori sociali, ecc.

L'idea è semplicissima: esiste solo l'impresa, tutto nasce e muore con lei. Il lavoro “non dipende dalle regole”, ma dalla loro assenza. Si evoca persino l'immaginario postmoderno e “il popolo delle partite Iva” per giustificare – sul piano politico e valoriale – un mondo fatto di rapporti di lavoro usa-e-getta. Perché tanto “Non ho mai visto imprenditori ansiosi di poter licenziare i propri dipendenti per capriccio”, garantisce il neoministro Guidi, casualmente ex presidente dei giovani industriali, qualche anno fa.

Per capriccio magari no, ma per stabilire chi comanda in fabbrica certamente sì. E tutto il nuovo assetto regolativo dei rapporti di lavoro dovrebbe essere, in questa logica, orientato esclusivamente alla “massima valorizzazione del capitale umano”, perché – ci sembra la prima volta che un imprenditore lo dice così chiaramente – «il capitale umano è la ricchezza più grande che noi imprenditori abbiamo».

Qui conviene uscire dalla retorica industriale e andare al sodo. In effetti è vero: “il capitale umano è la ricchezza più grande che noi imprenditori abbiamo”. Spremerlo al meglio è l'unica possibilità di essere “competitivi”. L'unico equivoco da evitare riguarda la “valorizzazione” di questo capitale. Che non è, come qualche cervello spento prova a spiegare, un “riconoscimento delle competenze individuali” (c'è anche questo, naturalmente; anzi, è la premessa necessaria per poter spremere al meglio ogni singolo “collaboratore”), ossia una valorizzazione delle individualità. Ma il suo esatto opposto: la messa a valore di quelle competenze per estrarne il massimo della profittabilità. Finché dura e poi via. In fondo “noi imprenditori” non siamo mica sposati a vita con i nostri dipendenti... (sembra di risentire Marlon Brando in Queimada).

La lista dei desiderata di Confindustria, dunque, si accorcia a poche cose decisamente fattibili con poco sforzo legislativo (e pesanti ricadute sulla redistribuzione delle poche risorse pubbliche), soprattutto in ambito fiscale. Ma l'obiettivo finale, addirittura epocale, è perfettamente condiviso: disintermediare la società, costringere i singoli a misurarsi individualmente col datore di lavoro e subirne perciò tutt'intero il potere vessatorio.

Benvenuti in America! Scusa, ma dove hai lasciato la valigia di cartone?

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Il test di riformismo e la sfida ai sindacati

di Alberto Orioli

Ha ragione Matteo Renzi quando parla del lavoro come della «madre di tutte le battaglie». Perché è il lavoro il tema che più definisce il profilo riformista di un governo. Soprattutto perché è venuto il tempo di uscire dall'astrattezza – tutta ad uso politico – del considerarlo come una nuvola di diritti, garanzie e procedure astratti e non come un'attività di persone in carne e ossa che dal lavoro devono trarre identità sociale e reddito.

La priorità dev'essere la creazione del lavoro di cui oggi c'è scarsità e la sua remunerazione. Non la regolazione dei rapporti di lavoro, che è questione successiva ed è stata per troppo tempo una coltre soffocante e ingannatrice sulle reali priorità. Vedremo se lo slogan di Renzi troverà una prima applicazione razionale nel Ddl delega per il riordino degli ammortizzatori sociali, per la creazione dell'Agenzia nazionale per l'impiego e per l'introduzione del contratto unico a tutele crescenti e per la sperimentazione del salario minimo orario stabilito per legge.
Non sono le regole a fare il lavoro ma – come ha detto ieri il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi – «con regole sbagliate lo si può distruggere». Oggi serve lavoro in grado di valorizzare al massimo il capitale umano dell'Italia, anche perché la concorrenza della conoscenza sta arrivando, oltre che dai Paesi tradizionalmente competitor del nostro, anche dai Paesi emergenti ormai in grado di offrire lavori anche molto qualificati a costi imbattibili (ma a remunerazione vicina agli standard del mercato). Flessibilità e qualità del lavoro sono dunque prioritari: l'opera di semplificazione e di allungamento dei contratti a termine senza causale svolta dal decreto Poletti è stata meritoria e, ancora ieri all'assemblea annuale degli industriali, è stata salutata come un grande passo riformista. Ci si aspetta che "restituisca" al mercato molti nuovi posti di lavoro certo non ascrivibili alla cosiddetta area della precarietà. Con quella norma ha perso di senso – perché superata – anche la discussione sul contratto unico a tutele crescenti.

Il lavoro è stato per troppo tempo disegnato sui "faticatori ottocenteschi" – come diceva sempre anche Gino Giugni – archetipo utile alle ideologie comuniste o socialiste centrate su un'idea di giustizia sociale, di contenimento del sopruso, di divisibilità del lavoro che, col tempo, realizzati alcuni grandi e nobili traguardi, hanno sviato negli ultimi decenni la discussione dai ritmi e dai temi del progresso tumultuoso delle tecnologie. Che, tra l'altro, hanno trasformato sempre più il lavoro da subordinato ad autonomo fino a farlo diventare esso stesso impresa (come accade per i cosiddetti makers della "generazione start up"). Una tendenza che, nel medio periodo, porrà anche un serio problema di rappresentanza sociale.
Cosa debba essere l'Italia del lavoro tra cinque o dieci anni coincide con cosa si vuole che sia l'Italia dell'industria alla stessa altezza di tempo: i due temi sono uno solo anche perché – come hanno detto ieri sia Squinzi sia il ministro Federica Guidi – «l'occupazione la fanno le aziende, le fabbriche». Quindi è fondamentale azionare le politiche dei fattori (dal fisco all'energia, dal credito alla ricerca scientifica e al trasferimento tecnologico) in modo che siano tutte orientate all'innovazione, agli investimenti e allo sviluppo imprenditoriale.
Non è solo questione di rendere più semplici i licenziamenti per superare l'antico timore dell'imprenditore che non vuole rischiare il "matrimonio a vita" con i propri dipendenti; né è solo questione di incentivare questa o quella modalità di assunzione. «Non ho mai visto un imprenditore fare un'assunzione solo sulla base di un incentivo. Né ho mai visto imprenditori ansiosi di poter licenziare i propri dipendenti per capriccio» ha detto Guidi.

Il presidente della Confindustria aveva poco prima spiegato con chiarezza che «il capitale umano è la ricchezza più grande che noi imprenditori abbiamo». Se il lavoro è il mezzo con cui si massimizza il capitale umano ciò mette in gioco le politiche di istruzione e formazione, ma naturalmente anche quella della corretta remunerazione di quel capitale. Per questa strada si arriva all'urgenza di ridurre ancora di più il peso del cuneo fiscale e parafiscale sul lavoro italiano a tempo indeterminato (perché come è oggi risulta spiazzato dai costi dei concorrenti, se è di 10 punti sopra la media Ue e di 17 su quella dei Paesi Ocse) e alla necessità di ancorare con maggiore precisione le retribuzioni alla produttività e al merito. La prima condizione è appannaggio delle politiche fiscali del Governo, la seconda è propria della dialettica tra le parti sociali sottesa alla contrattazione.
Dalla relazione del presidente della Confindustria è uscita una sfida aperta e positiva al mondo sindacale per un drastico cambio di agenda, secondo i ritmi che ormai sono i ritmi (incalzanti) del mondo intero: non liturgie negoziali, ma una diffusione veloce di intese di secondo livello sul salario di produttività.

La concertazione è pratica che il Governo ha archiviato e, anzi, nell'impeto di disintermediazione della società, l'Esecutivo rischia di gettare oltre all'acqua sporca dei veti paralizzanti, anche il bambino della coesione sociale.
Lo spazio per il dialogo tra imprese e sindacati non può che essere quello di una contrattazione baricentrata sui luoghi di lavoro, più moderna, più "liberale" e meno massimalista. Altrimenti toccherà al Governo stabilire forme di incentivazione del salario di merito che finirà con l'essere elargito unilateralmente dall'impresa. Sarà anche questo un modo per disintermediare la società. L'altro potrebbe essere il salario minimo orario definito per legge, ma non a caso di questo non hanno parlato né Squinzi, né Guidi. Sarebbe un modo per superare di fatto i contratti nazionali, forse un passaggio ancora un po' troppo prematuro (anche perché lascerebbe all'attore politico uno spazio di discrezionalità molto ampio).

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Stragi quotidiane, ma Obama loda il modello iracheno

Jihad con­tro gli isla­mi­sti. Un posto dove Al Qaeda è più debole. Que­sti i modi – molto diversi – con cui i due pre­si­denti alleati, l’iracheno Maliki e l’americano Obama, descri­vono l’Iraq del 2014. Un Paese dove il numero di civili uccisi ogni set­ti­mana tocca le vette degli anni dell’occupazione a stelle e stri­sce. Oltre 4.000 dall’inizio dell’anno, una car­ne­fi­cina figlia di attac­chi ter­ro­ri­stici e scon­tri tra governo e mili­zie. Solo mer­co­ledì 74 vit­time, il bilan­cio peg­giore degli ultimi sette mesi: bombe con­tro il quar­tiere sciita di Bagh­dad, Kad­hi­miyah, con­tro Mosul, Sadr City, Amin e Jihad.

Un mese dopo le ele­zioni che con­se­gnano al pre­mier Maliki una ricon­ferma rela­tiva, la coalizione “Stato di Legge” va a cac­cia di alleanze che garan­ti­scano la mag­gio­ranza. Non sono pochi gli osta­coli: a parte le for­ma­zioni sciite più pic­cole, alcuni ex alleati di peso – il par­tito sciita Muta­win e quello curdo di Bar­zani – abban­do­nano il premier. Simile la deci­sione degli sciiti sadri­sti di Ahrar. Aggiun­gen­doci oppo­si­zioni sun­nite e lai­che lo schie­ra­mento anti-Maliki avrebbe i numeri per aggiu­di­carsi la mag­gio­ranza par­la­men­tare, con circa 180 seggi su 328; a fre­nare, gli sto­rici con­tra­sti etnici, gli inte­ressi con­tra­stanti e le stesse divi­sioni interne ai par­titi, tra schieramenti più mor­bidi sull’opzione Maliki (Patrio­tic Union of Kur­di­stan, Al Ara­biya e Solu­tion) e altri total­mente con­trari ad un governo di coa­li­zione (Ira­qiya e Uni­ted Bloc).

Fuori dalle stanze dei bot­toni, il Paese è dila­niato. E il vero peri­colo, secondo alcuni ana­li­sti, non arri­ve­rebbe tanto dall’ISIL quanto dai con­si­gli mili­tari sun­niti di Anbar, fru­strati da un’agenda di governo che affonda le radici nell’esclusione della com­po­nente sun­nita: «Sechiedete ai cit­ta­dini [della pro­vin­cia sun­nita] di Anbar, vi diranno che il vero pro­blema è la punizione col­let­tiva con­tro i sun­niti – spiega Erin Evers di Human Rights Watch – C’è chi pensa che l’ISIL sia una mili­zia sciita finan­ziata dall’Iran e uti­liz­zata per divi­dere l’opposizione in Siria e inasprire i set­ta­ri­smi iracheni».

A pagarne lo scotto sono Ramadi e Fal­lu­jah: fami­glie rifu­giate in scuole e moschee, pri­vate delle condi­zioni igie­ni­che di base, dei ser­vizi sani­tari e per­sino del cibo. Ciò si tra­duce nello spo­sta­mento verso forze set­ta­rie, aggiunge la Evers, che garan­ti­reb­bero pro­te­zione alla popo­la­zione: «La gente è disgu­stata dalla reto­rica set­ta­ria, ma il governo ha fal­lito e allora non hanno altra alter­na­tiva che certi gruppi». Sordo alle richie­ste della comu­nità sciita, il primo mini­stro si limita a ope­ra­zioni con­tro gli isla­mi­sti. La prima, in pic­colo, nella pro­vin­cia di Diyala, con­clu­sasi con l’uccisione di 14 mili­ziani. L’altra, di vasta scala, nella deva­stata Anbar: una jihad con­tro Al Qaeda, l’ha ribat­tez­zata Maliki, alle prese con i mili­ziani isla­mi­sti da dicembre.

Nelle stesse ore, da West Point, Obama par­lava di una destrut­tu­ra­zione interna ad Al Qaeda. E annun­ciando il ritiro dall’Afghanistan entro il 2016, sot­to­li­neava i par­ziali suc­cessi del modello ira­cheno: «Dob­biamo muo­vere la nostra stra­te­gia anti-terrorismo, basan­doci su suc­cessi e carenze dell’esperienza in Iraq e Afgha­ni­stan dove il nostro eser­cito è dive­nuto il più forte sostenitore della diplo­ma­zia e dello svi­luppo». Una diplo­ma­zia che ha il volto cruento di una guerra civile occulta e uno svi­luppo che si tra­duce nell’arricchimento della classe diri­gente alle spese del popolo iracheno.

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Grillo, gli euroscettici e la rottura dell'Unione Europea

In Italia se ne parla solo per stuzzicare contraddizioni in casa d'altri (i problemi interni ai Cinque Stelle), ma il tema della “precarietà dell'Unione Europea” è ormai sul tappeto. Le elezioni del 25 maggio – seppur inutili dal punto di vista parlamentare (visto che il “parlamento” di Strasburgo è privo di potere legislativo) – hanno messo in luce qualcosa di molto più articolato di un banale “fronte euroscettico”.

La campagna elettorale continentale aveva puntato tutto sul “pensiero unico”: o si accetta l'intangibilità dell'Unione Europea oppure ci si ritrova in compagnia di nazionalisti, fascisti, populisti e ciarpame vario. Un condanna preventiva che ha spaventato molti, soprattutto a sinistra, silenziando tanti e impedendo fin qui la maturazione “di massa” di una discussione sulla natura e gli scopi dell'Unione Europea, chiaramente orientata alla rottura/superamento di questa forma semi-statuale in chiave di classe e internazionalista. Il paradosso è che questa necessità sembra esser colta molto più facilmente (e in modo necessariamente semplificato) a livello della popolazione “spoliticizzata” che non tra compagni che pure avrebbero qualche strumento analitico più solido. Ma tant'è, per ora...

Il ventaglio di opzioni politiche “euroscettiche” consolidato dal voto chiarisce però che la rottura della Ue è un problema ormai all'ordine del giorno in tutto il Continente. Soprattutto, si articola su posizioni molto differenziate, al punto che non è utilizzabile neppure l'abusato cliché – tutto italiano – degli “opposti estremismi”; quello per cui sarebbero “contro l'Europa” soltanto fascisti e comunisti trinariciuti/nostalgici. Un cliché talmente ottuso da comprendere tra gli euroscettici anche Tsipras e dintorni, perché di schematismo si muore.

Vediamo in dettaglio queste diverse posizioni.

Sull'estremissima destra si collocano i nazionalisti fascisti puri, come l'ungherese Jobbik, i greci di Alba Dorata, il singolo eletto tedesco per l'Npd. Un fetore tale che preferiscono tenersi distaccati anche i “fascisti in via di ripulitura” del Front Nationale francese in versione Marine Lepen, che sta cercando di fare asse comune con la Lega Nord di Salvini, il Pvv (Olanda), Rp e Vlaams Belang (entrambi belgi, ma i secondi solo fiamminghi), i democratici svedesi, il Fpoe austriaco che apparteneva a Jorg Haider.

Intento analogo per gli “ultraconservatori” inglesi dell'Ukip – diventato il primo partito di Gran Bretagna – il cui leader Nigel Farage ha incontrato un tramortito Beppe Grillo che non può certo fare gruppo a sé a Strasburgo (per avere diritto a fare un gruppo e presentare interrogazioni bisogna avere almeno 25 deputati di almeno sette paesi diversi, altrimenti si finisce tra i “non iscritti”). Comunque finisca questo tentativo, tra i temi centrali nella spaccatura in atto nel M5S, rappresenta in ogni caso un'ulteriore variazione di toni politici sul tema “euroscettico”.

Ma non è finita. C'è anche una componente liberale e liberista dura e pura come Alternative fur Deutschland, formazione politica recente fondata da economisti e guidata dall'ex presidente della Confindustria tedesca, che con il suo quasi 7% è tra i protagonisti assoluti dell'erosione di voti centristi sottratti alla Cdu di Angela Merkel. E siamo a quattro.

C'è poi la sinistra comunista “antieuropea” dichiarata, limitata ai greci del Kke e al Partito comunista portoghese (stiamo parlando ovviamente soltanto di formazioni rappresentate nel Parlamento di Strasburgo). Senza peraltro dimenticare il Partito Socialista olandese (SP). Il "Partito del Pomodoro", che ha sviluppato negli ultimi anni una forte critica sia all'architettura dell'Unione Europea che a quella dell'Unione Monetaria.

Appena più in qua, ma già sul fronte “riformista”, si colloca il Gue di Syriza, Linke, Izquierda Unida, e Podemos (Spagna), Lista Tsipras per l'Italia e altre formazioni minori di altri paesi.

A difendere l'”europeismo storico” ci sono popolari, socialdemocratici e liberali, che fanno maggioranza in questo parlamento e soprattutto nei vertici intergovernativi che sono i veri centri decisionali (Bce a parte) dell'Unione Europea. Ma anche qui la parola d'ordine generale è “cambiare o morire”, senza più la sicumera classica di chi pensa che non ci possa essere via d'uscita a un meccanismo istituzionale architettato come un “pilota automatico”, tra trattati, direttive e sanzioni.

L'austerità non ha insomma più padri né madri. Neppure Angela Merkel, Wolfgang Scaheuble e Jens Weidmann possono presumere di continuare sulla strada seguita finora. Anche se faranno di tutto per "diminuire il danno" di un cambiamento di rotta, anche parziale.

E questa confusione che ci ha fatto scrivere subito “ora in Europa sono tutti riformisti”.

Ma qui vogliamo concentrarci sull'altro fronte, quello che mette in discussione – più o meno apertamente – la continuità dell'Unione Europea sul percorso di una maggiore integrazione politica. Non ci interessa affatto perderci nelle distinzioni sottili tra una posizione e l'altra: il dato comune è infatti che tutte sono sintomo di una pressione della realtà economico-sociale sulla struttura costruita per incanalarla. Sintomo, vogliamo dire, di un meccanismo che non funziona e non riesce più a convogliare consenso; che scatena dunque reazioni.

Se così è – “grazie” anche alla contemporanea pressione statunitense (Ucraina, Abkhazia, Libia, ecc.) che mette in crisi le normali linee di rifornimento energetico dell'Europa – tutta la discussione sull'Unione Europea può cambiare tranquillamente di segno. Non c'è più alcuna necessità di restare ingabbiati nella semplificatoria e falsa alternativa tra “essere europeisti” oppure “allearsi coi fascisti”. L'Unione Europea non è l'Europa, ma una costruzione statuale (per via di trattati intergovernativi, ma con identica “cogenza normativa”) che può e deve essere messa in discussione come qualsiasi altra. Sovviene il vecchio slogan sessantottino “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”, rivolto contro il macchinoso marchingegno democristian-fascista italiano come contro ogni altro “stato borghese”. E naturalmente nessuno di quelli che lo gridava nelle piazze aveva alcuna nostalgia per il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio o il regno delle Due Sicilie... e le rispettive monete.

La rottura dell'Unione Europea – per concludere – non è insomma un obiettivo imputabile a una “soggettività scriteriata” che non sa fare i conti con gli avanzamenti della storia, ma una eventualità connaturata a una costruzione con molte – troppe – contraddizioni interne e ben pochi “collanti” unitari di vasta portata. È una rottura che può avvenire “da destra”, con l'esplosione dei nazionalismi e delle conflittualità (anche armate) infra europee. Può avvenire “dal centro”, magari con lo sganciamento unilaterale del paese più forte (la Germania modello Afd) dalla moneta unica e dalle regole di Maastricht.

Sarebbe insomma davvero sorprendente – e vagamente suicida – non ragionare e progettare su una sua rottura “da sinistra”. Potremmo trovarci all'improvviso davanti ad eventi che non riusciremmo nemmeno ad analizzare seriamente, sballottati tra richiami ideologici "antrigui" ma univocamente orientati a far convergere tutte le paure in direzione del sostegno al potere.

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L’esercito di Kiev bombarda le città dell’ Est Ucraina


Nella notte nuovi bombardamenti dell’esercito di Kiev su Sloviansk: i media russi parlano di vittime e i ribelli di una vendetta per l’abbattimento dell’elicottero militare ucraino. Elicotteri, blindati e armi pesanti, ma anche munizioni bandite come i micidiali proiettili a frammentazione.

La Russia ha annunciato aiuti umanitari ai secessionisti della Repubblica popolare di Donetsk, Putin chiede uno stop all’operazione militare di Kiev, mentre una commissione di inchiesta russa sostiene che i militari governativi ucraini hanno violato la convenzione di Ginevra, colpendo volontariamente i civili con ogni mezzo a disposizione. I ribelli rincarano la dose, parlando non solo di elicotteri, blindati e armi pesanti, ma anche di munizioni bandite come i micidiali proiettili a frammentazione. Insomma, una escalation fuori ormai da ogni controllo e ben oltre ogni pudore.


Intanto, ‘un velo di macabro orrore’ - scrive l’ANSA - cala sul conflitto nell’est ucraino. In un villaggio poco a nord di Donetsk alcuni contadini affermano di aver trovato una fossa comune in un bosco, con 10-15 cadaveri in avanzato stato di decomposizione. Secondo alcuni si tratterebbe dei corpi di alcuni miliziani del Donbass, molti di nemmeno vent’anni, che si erano rifiutati di combattere. Secondo altri, si tratterebbe di vittime non accertate dei violenti scontri tra nazionalisti e ribelli per il controllo di un checkpoint il 23 maggio. Esecuzione o vittime di combattimenti ?

Intanto i quattro osservatori Osce arrestati dalle milizie ribelli di Lugansk “sono stati liberati”. Dei quattro, accompagnati da un interprete ucraino, si erano perse le tracce ieri alle 18, nella località di Severodonetsk. Il team, scrive l’Osce sul proprio profilo Facebook, “è stato arrestato da miliziani armati”. Oggi la liberazione. Fonti dei ribelli smentiscono di aver avuto un ruolo nella vicenda. Mentre continuano i bombardamenti sui civili, da Kiev si minaccia il peggio: “Gli atti criminali dei nemici del popolo ucraino non resteranno impuniti”, ha tuonato il presidente Petro Poroshenko.

La guerra civile sta insomma prendendo rapidamente le forme della guerra senza limiti contro la parte avversa, ferite ben difficili da far rimarginare all’interno di uno stesso confine. Più duro è lo scontro, più sentita e indispensabile diventa per i ribelli la secessione da chi sta bombardando le proprie famiglie e le proprie case. Intanto i leader ribelli hanno lanciato un ultimatum agli ucraini che controllano l’aeroporto di Donetsk: “lascino il nostro territorio o attaccheremo presto”, è il monito dei separatisti, convinti - da logica - che nello scalo stiano arrivando rinforzi per i pro-Kiev.


200 le vittime, tra cui molti civili nelle città bombardate, e oltre 50 i militari di Kiev - compresi miliziani nazionalisti del Battaglione Donbass - uccisi dalla ripresa dell’operazione militare nell’est dell’Ucraina, 5 giorni fa. Lo scrive l’agenzia ucraina Unian. Altra notizia di provenienza governativa ucraina: almeno 80 uomini armati di fucili automatici, mitragliatori e lanciagranate avrebbero attaccato il posto di confine con la Russia presidiato dalle Guardie di frontiera ucraine in prossimità di Dyakovo, nella regione di Lugansk, nell’Ucraina orientale. La notizia non ha avuto conferme.

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Scandalo Carige. La crisi, l'identità, la "questione morale"


Si interroga una Liguria scossa dal crollo del “gran capo” di CARIGE, Berneschi, arrestato con l’accusa di incredibili malversazioni, anche a fini personali.

Malversazioni che pare abbiano costruito attorno al più grande istituto di credito della Liguria un grande scandalo.

Una situazione che sembra, per certi versi, più grave di quella – già recentemente esplosa in modo clamoroso – al Monte dei Paschi di Siena.

Una “questione morale” coperta da anni attraverso una strategia “del coinvolgimento di tutti” che ha portato a una distribuzione diseguale delle risorse, con il rischio adesso di confondere gli episodi più gravi con quelli secondari, al punto da non far capire a quanto ammonti il vero “buco” tra Banca e Fondazione: si parla di 934 milioni di euro di deficit per la sola Fondazione.

Era il ramo assicurazioni quello verso il quale erano dirottati i fondi e creato l’enorme deficit: una distrazione vera e propria di risorse che alla fine venivano orientate sui patrimoni personali dei protagonisti.

Il “coinvolgimento di tutti” però garantiva briciole e silenzio generalizzato.

Tanto è vero che un patto di sindacato composto da Coop Liguria, Coopsette, Gavio e Bonsignore sosteneva Berneschi e il suo vice Alessandro Scajola, fratello dell’ex-ministro attualmente agli arresti.

S’interroga Gad Lerner, in un suo articolo apparso oggi su Repubblica e titolato significativamente “E la cupola dei banchieri svuotò la cassaforte di Genova”, sull’esistenza proprio di una “cupola degli affari” “garantita da un tacito patto territoriale fra Claudio Scajola, plenipotenziario del Ponente Ligure anche attraverso le reti delle Camere di Commercio, e il presidente di sinistra della Regione Claudio Burlando, senza dimenticare le necessità dell’arcivescovo, Bertone o Bagnasco che fosse” e pone su questo un punto interrogativo, cominciando a rispondersi con un: ” troppo facile”, avanzando di seguito la teoria di una spartizione della fetta più grande della torta da parte di un gruppo di imprenditori raccolto attorno al “cerchio magico” di Berneschi.

In particolare viene chiamato in causa l’ex-presidente della Fondazione Carige, l’industriale dolciario Flavio Repetto che finanziava anche la romana casa di produzione cinematografica e televisiva Lux di proprietà della famiglia Bernabei: ed è per l’interessamento proprio verso quest’attività che sono arrivati guai grossi per l’ex-segretario di stato Tarcisio Bertone, già cardinale arcivescovo della Superba.

Un intreccio, dunque, tra finanza cattolica, politica d’alto bordo, cooperative: il frutto di quella politica del “coinvolgimento di tutti” che aveva trasformato la Carige in una sorta di “camera di compensazione” nella gestione di un potere molto articolato, dal quale “la cupola” di Berneschi trovava il suo alimento.

In una regione come la Liguria nella quale fra l’altro il livello di infiltrazione mafiosa nell’economia reale è sempre stato giudicato molto alto e, negli ultimi tempi, in sicura crescita.

Fin qui, però, si è soltanto tentato di descrivere un meccanismo.

Se si procede nell’analisi in maniera più approfondita è il caso di vedere come stanno sul serio le questioni dell’economia di Genova e della Liguria.

Esaurita la fase dello scambio tra aree ex-industriali e speculazione edilizia che aveva caratterizzato il primo grande scandalo di “Tangentopoli” (quello legato nel 1983 al nome di Alberto Teardo) è terminato anche, con una serie impressionante di incompiute, il periodo della costruzione delle grandi infrastrutture destinate a cambiare il volto della Città e della Regione: dalla Gronda, al Terzo Valico al raddoppio della Ferrovia tra Finale e Andora. Tutti fallimenti della gestione Burlando che, nel frattempo, non ha saputo far altro che riempire di cemento i porticcioli, a Ponente come a Levante.

Quella dei porti turistici è stata una politica emblematizzata dal clamoroso fallimento della società che avrebbe dovuto completare il porto di Imperia, proprio la città del già supercitato Scajola.

Intanto il territorio restava devastato, senza alcuna salvaguardia e l’elenco delle alluvioni che nel corso di questi anni hanno causato disastri immani a causa dell’incuria, è lungo un chilometro: Genova città, Cinque terre, estremo Ponente ed estremo Levante.

Così come, dalla vicenda Tirreno Power di Vado Ligure e all’area di Cornigliano il rapporto tra lavoro e ambiente presenta risvolti del tutto drammatici, la bonifica delle aree di ACNA e Stoppani appare ancora di là da venire e, via via, tutti i settori produttivi sono andati in crisi: è di oggi la questione della Piaggio di Sestri Ponente, è durissima la lotta per mantenere in piedi Fincantieri. Anche il famoso high-tech mostra la corda: si parla di esuberi in Esaote (e ci sono già stati scioperi), Ericsson appena insediata nella sede degli Erzelli ha cominciato a licenziare e per quel che riguarda Ansaldo, Finmeccanica pare coltivi sempre al di là delle apparenze progetti di dismissione, la vicenda Ferrania appare ormai del tutto senza prospettiva.

Un quadro che sembra eufemistico giudicare “difficile” in una Genova e in una Liguria dal tasso di anzianità molto alto e afflitta da una fortissima disoccupazione.

Nessuno, a Genova come a Savona e nel resto dell’area centrale ha investito su di un’inversione di rotta e sull’intervento nelle attività produttive. I forzieri della grassa borghesia già mercantile e commerciale ormai composta soltanto da rentier sono rimasti ricolmi di denaro.

Il massimo ente bancario della Regione (non dimentichiamo che si trova nella sua orbita anche la Cassa di Risparmio di Savona) ha sviluppato, in una maniera molto particolare (se le indagini che hanno portato all’arresto di Berneschi ma non solo, confermeranno ciò che sta emergendo) il meccanismo dilagante della più negativa finanziarizzazione dell’economia.

Si è distrutta l’industria, terziarizzato il territorio (devastandolo), coperto di cemento ogni spazio disponibile, lasciata via libera ai grandi inquinatori (prima fra tutte Sorgenia di De Benedetti) in un intreccio perverso che oggi sta venendo clamorosamente a galla.

Una regione privata di identità, ridotta a un ruolo del tutto marginale sul piano politico, economico, sociale.

Certo: ci sono gli affari personali di Berneschi, ma le responsabilità politiche come potranno essere accertate e colpite?

Un interrogativo grande come una casa in una Regione dove le sole presenze di una qualche “combattività sociale” sono ormai soltanto quelle delle Unioni dei Senza Lavoro e di nuclei operai sempre più sparuti e ridotti sulla difensiva.

Una regione di pensionati e di giovani disoccupati nella quale il potere, politico ed economica, sembra proprio essere stato ristretto all’interno di una convivenza all’interno del vertice di una Banca, attraverso la quale si elargivano elemosine a tutti e si trattenevano per pochi grandi fortune.

Una triste storia per quella che fu uno dei vertici del “triangolo industriale”, punto di riferimento dello sviluppo economico, industriale, sociale, politico nel periodo della grande fatica della ricostruzione dalle macerie della guerra.

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30/05/2014

Banca d'Italia. Persi un milione di posti di lavoro in sette anni. La recessione c'è ancora

Sembra quasi una “berlusconata” al contrario ma molto, molto più seria. Siamo passati infatti dalle promesse di 1 milione di posti di lavoro alla loro scomparsa nei sette anni della crisi. A documentarlo è il governatore della Banca d'Italia che, ogni 31 maggio, tiene la sua relazione annuale al paese.

''La recessione si è riflessa pesantemente sul numero degli occupati e quindi sui redditi delle famiglie. Tra il 2007 e il 2013 l'occupazione è scesa di oltre un milione di persone, quasi interamente nell'industria; è anche diminuito il numero medio di ore lavorate" ha detto Visco nella relazione. "Il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato rispetto al minimo toccato nel 2007, al 12,7 per cento dello scorso marzo. L'offerta di posti di lavoro tornerà a salire solo lentamente; di norma la prima variabile a reagire all'incremento della produzione è il numero di ore lavorate per addetto''.

Visco ha rilevato inoltre che ''Non va sottovalutato il rischio che un ulteriore allungamento della durata della disoccupazione - e ve ne sono segni in particolare nel Mezzogiorno e tra i giovani - intacchi le abilità e competenze individuali e le allontani da quelle richieste dalle imprese''. ''In passato, recessioni profonde - ha osservato - si sono associate ad ampie ristrutturazioni del sistema produttivo che hanno dato luogo all'introduzione di nuove tecnologie e modelli organizzativi che risparmiano lavoro''. Il rapporto tra investimenti lordi e pil - ha concluso - è sceso di 4 punti percentuali dal 2007, portandosi nel 2013 al 17 per cento, il minimo dal dopoguerra''. Il credit crunch vi ha concorso, ma ''è soprattutto dalla diffusa incertezza sulle prospettive di crescita della domanda e sull'orientamento delle politiche economiche che dipendono rinvii e riduzioni dei piani di ristrutturazione e di ampliamento della capacità produttiva'' .

Sul fronte industriale il governatore ha messo in luce che ''molte imprese italiane hanno saputo difendere, in alcuni casi aumentare, le loro quote sui mercati esteri; è tornata in attivo la bilancia corrente, anche al netto degli effetti del ciclo. Ma la caduta dell'attività rivolta all'interno - ha sottolineato Visco - è stata drammatica: nel complesso la produzione industriale si è contratta di un quarto''. ''Nell'ultimo trimestre del 2013, mentre le esportazioni - ha concluso - erano quasi tornate ai livelli della fine del 2007, i consumi delle famiglie erano ancora inferiori di circa l'8 per cento, gli investimenti del 26, con una perdita di capacità produttiva nell'industria dell'ordine del 15 per cento''. Un modo sibillino di ammettere che la recessione è tutt'altro che superata.

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Grillo deve “dimettersi”?

Si stanno levando molte voci che chiedono le “dimissioni” di Beppe Grillo (ho visto una dichiarazione in questo senso anche di parlamentari del M5s o ex del movimento), anche in questo blog ci sono interventi che vanno in questo senso e qualche autorevole amico me lo ha scritto in una mail privata. Tutti, più o meno, ricordano la frase con cui Grillo diceva che si sarebbe ritirato se non avesse “vinto”. Bene, allora discutiamone.

In primo luogo: dimettersi da cosa? Grillo non ha cariche formali nel M5s, non ne è il segretario. Per cui la richiesta di dimissioni può significare solo che deve smettere di parlare e magari chiudere il suo sito. Mi sembra una richiesta eccessiva, che non si può fare neanche al leader più sconfitto del sistema solare: ma, allora, fatte le dovute proporzioni, uno come Veltroni cosa avrebbe dovuto fare? Per non dire di Paolo Ferrero.

Allora, come prima cosa mi pare sia il caso di “prendere le misure” di questo risultato elettorale. Una sconfitta, l’abbiamo definita dal primo momento e senza giri di parole, ma c’è sconfitta e sconfitta e non tutte le battaglie perse sono Waterloo. Nel nostro caso il bicchiere non è mezzo pieno e mezzo vuoto, ma neppure del tutto vuoto. Diciamo così: è vuoto per i due terzi, ma c’è pur sempre un terzo pieno.

Certamente nessuno degli obiettivi è stato raggiunto (affiancamento o superamento del Pd, conquista di almeno una regione) e non solo non c’è stata alcuna avanzata del M5s oltre il 25%, ma si sono persi circa tre milioni di voti, scendendo al 21%. E questa è la parte “reale” della sconfitta. Poi c’è un “effetto ottico” che la ingigantisce: l’inaspettata e fortissima avanzata del Pd. Non c’è dubbio che questa sia una “vittoria del sistema” che si è compattato intorno ad un partito, ma è una vittoria che va un po’ relativizzata.

In primo luogo perché quel 40% avviene in elezioni dove l’astensionismo è cresciuto di 17 punti in un anno, ma è del tutto presumibile che, come nel passato, la gran parte degli astenuti poi torneranno a votare nelle politiche ed i conti occorrerà rifarli. E mi sembra molto difficile che il Pd mantenga il 40% anche con il rientro degli astenuti delle europee.

In secondo luogo, Renzi ha potuto giovarsi di una straordinaria rendita di posizione: la destra frazionatissima e in forte calo (è passata dai 10 milioni di voti della coalizione dello scorso anno, ai poco più di 8 milioni e mezzo di oggi), il centro montiano e la lista Giannino (che sommavano quasi il 12%) si è polverizzato ed è privo di qualsiasi espressione politica credibile, l’estrema sinistra è in difficoltà (che, infatti, ha ceduto un buon 1,3% della sommatoria di 5,45% di Sel e Rc). Il Pd, di fatto, aveva un unico avversario nel M5s che aveva contro tutti gli altri partiti. E, come abbiamo detto dall’inizio, Renzi ha vinto perché ha limitato al minimo le sue perdite verso l’astensione e gli altri partiti ed ha ingoiato sano sano il centro montiano, aggiungendo qualcosa da Foza Italia e dal M5s. In qualche modo si è ripetuto quanto accadde nel 1976, quando il Pci sembrava dover sorpassare una Dc in crisi: la cosa terrorizzò i moderati che fecero quadrato intorno alla Dc che si riprese e tenne a bada il Pci.

In Italia questo genere di sfide premiano sempre i moderati e conservatori al potere ed il M5s è caduto nella trappola. Quindi, più che vittoria del Pd dovremmo parlare di confluenza del centro montiano nelle sue fila.

Veniamo, invece, al terzo di bicchiere pieno del M5s: in primo luogo, è un movimento giovane che conferma un notevole grado di radicamento elettorale mantenendo i 4/5 della sua originaria percentuale. In secondo luogo, se ha subito la perdita dei circa 3/8 dei suoi elettori, è vero che, nella maggior parte, essi non si sono indirizzati verso altri partiti (direi circa 5-600.000 al Pd e 150-200.00 alla Lega), ma verso l’astensione. Abbiamo detto che l’incremento delle astensioni in questo tipo di elezioni dipende, più che da una disaffezione verso il partito precedentemente votato, da una disaffezione verso le istituzioni europee, per le quali serve poco votare. Questo vale per tutti, anche per il M5s. Il che non annulla certamente la flessione, ma la attenua nel suo significato potenziale.

In terzo luogo, il Movimento mantiene un forte peso nell’elettorato più giovane, il che è sempre un elemento di vantaggio sugli altri, non fosse altro che per ragioni demografiche.

Ma, soprattutto, il trionfo odierno di Renzi non è affatto definitivo ed irreversibile – come si è detto – e la “rendita di posizione” che oggi ha premiato lui, in prospettiva premia il M5s, restato unica opposizione consistente. Il centro (intendendo per esso quello montiano o di Casini) è dissolto, la destra, allo stato dei fatti, è in calo e soprattutto disunita, collocata parecchi punti sotto il Pd, la Lista Tsipras ha avuto un successo di cui ci rallegriamo, ma non ha dimensioni che possano impensierire il Pd ed, in caso di elezioni con l’Italicum, si troverebbe nella situazione di scegliere fra entrare in coalizione con il Pd o il M5s o sparire (per ora mi pare che la soglia dell’8% sia ampiamente fuori della sua portata).

Di fatto il M5s resta l’unico contraltare numericamente credibile al Pd.  Tutto questo considerato, mi pare che si possa parlare di una battaglia persa, ma non di una guerra persa. La guerra continua e il M5s resta l’unica forza capace di aprire la strada ad un cambiamento del sistema politico. Che poi ci riesca o no dipenderà dalla sua capacità politica, ma oggi è l’unico ad avere le carte sufficienti per provarci.

Questo, però, implica un immediato cambio di passo: il M5s ha sbagliato soprattutto nel sottovalutare le resistenze ambientali e la reazione del sistema. Insomma: non penserete che le classi dominanti stiano ferme ad aspettare di essere rovesciate? Chiedetevi perché Ferrara festeggia a cocaina o il “Giornale” dedichi il titolo di apertura ai grillini asfaltati, mentre non avrebbero nulla di cui gioire per i propri risultati elettorali. E’ evidente che battere il M5s era l’obbiettivo di tutti, prima ancora che superarsi fra di loro. Il potere non permette di essere sfidato senza reagire.

Il che significa che battere il sistema non è una gita fuori porta o una scaramuccia: è una guerra di lunga durata, nella quale bisogna mettere in conto anche le sconfitte parziali, alle quali occorre reagire serrando le fila e rivedendo tattica e strategia. E qui si vede di che pasta è fatto un movimento e la gente che lo compone.

Il M5s deve tenersi lontano dalle opposte derive della chiusura settaria e del “rompere le righe”. Gli serve una riflessione profonda, senza pregiudizi ma senza autolesionismi, una impennata di orgoglio, ma senza arroccamenti autocelebrativi o giustificazionismi.

In questo quadro, va posta la questione di Grillo e delle sue “dimissioni” (chiamiamole così): servono al M5s? Io credo di no. Se Grillo si ritirasse oggi il M5s non reggerebbe e sarebbe, appunto, il rompete le righe. La coda suonerebbe alle orecchie dei suoi elettori come un “ammainabandiera” ed il riconoscimento pieno di una sconfitta definitiva. Trasformerebbe una battaglia persa in una guerra persa.

Capisco che molti aspettano esattamente questo, ma faccio presente qualche inconveniente di questa scelta. Le strade che si aprirebbero sarebbero solo due: o la ripresa della destra come alternativa al Pd o (se la destra non si riprendesse) oppure l’assenza di qualunque alternativa al Pd che correrebbe da solo. La seconda sarebbe una “democrazia popolare” dell’est Europa di cui nessuno (spero) senta la nostalgia, la prima sarebbe esattamente il contrario di quello che vorremmo per toglierci definitivamente il Caimano dalle scatole, sarebbe la sua ennesima resurrezione. Capisco che questo possa risultare allettante per i berlusconiani, ma per gli altri? In secondo luogo, faccio notare che, nell’ondata eurocritica attuale, il M5s è l’unico che si collochi a sinistra del blocco europeista, anche se ha rapporti con l’Ukip (che, peraltro, non è un gruppo fascistoide come il Fn, Obbik, ecc.). E sinora è proprio il M5s ad aver evitato che la protesta si canalizzasse a destra in Italia. Quanti auspicano la scomparsa del M5s, sono in grado di garantire che questo non finisca per alimentare cose assai meno accettabili?

Dunque, è bene che il M5s resti e riprenda la sua lotta, pur se con aggiustamenti e rettifiche necessari. E se vogliamo che il M5s resti, occorre che Grillo e Casaleggio restino dove sono e continuino ad avere il loro ruolo. E che Grillo continui ad essere il “frontman” del movimento con le sue caratteristiche espressive. A proposito: c’è chi si fa beffe di questa mia frase, chiedendomi se debba continuare ad esprimersi “come uno scaricatore di porto”. Io intendevo dire che essendo un comico abituato alla satira politica continui a far questo, quanto poi agli “scaricatori di porto”, cosa abbiamo contro i portuali? Io ricordo che quelli di Genova, i leggendari camalli, ebbero un ruolo determinante nella caduta di Tambroni, cosa di cui, credo, gli si debba esser grati. Ma capisco che nei salotti e nelle terrazze di un certo livello il bon ton faccia premio sulla militanza democratica.

Tornando al discorso precedente: Grillo e Casaleggio restino dove sono, ma facciano spazio anche ad altri, che il movimento abbia una immagine più ricca e collegiale, dimostri di non essere più solo i suoi due fondatori. E che i grillini mettano da parte gli ottimismi eccessivi: il sistema c’è, è forte e si difende, non ci si facciano illusioni e non si pensi di vivere solo di rendita degli errori degli avversari.

Il M5s deve rafforzare la sua immagine di forza politica propositiva capace di tradurre la sua spinta antisistema in obiettivi parziali, concreti e perseguibili. La strada è ancora lunga e il M5s ha preso una battuta d’arresto, ma non una sconfitta definitiva.

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A Rami Hamdallah incarico di formare governo Fatah-Hamas

Il premier incaricato Rami Hamdallah
Il dado è tratto. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen ha affidato oggi a Rami Hamdallah, premier uscente del governo di Ramallah, l’incarico di formare il primo esecutivo palestinese di unità nazionale dal 2007 a oggi, dando così seguito all’accordo di riconciliazione nazionale raggiunto lo scorso 23 aprile dal suo partito, Fatah, con il movimento islamico Hamas. Accordo fortemente contestato dal premier israeliano Benyamin Netanyahu che, facendo riferimento al non riconoscimento di Hamas dello Stato di Israele, ha interrotto i negoziati con Abu Mazen.

I ministeri del nuovo governo palestinese sarebbero 19, con la possibilità che un ministro abbia la titolarità di più dicasteri.  L’esecutivo è provvisorio e formato in buona parte da tecnici. Il suo scopo è  quello di indire nuove elezioni legislative e presidenziali entro la fine del 2014. Nonostante ciò Fatah e Hamas hanno trovato il tempo e la forza di litigare sul ministero degli esteri. Il movimento islamico non sarebbe d’accordo sulla permanenza nell’incarico dell’attuale ministro Ryad Al Malki, che invece Abu Mazen intende riconfermare al fine di inviare “messaggi rassicuranti” a Stati Uniti ed Europa.

Faisal Abu Shahla, un dirigente di Fatah, ha assicurato che già nelle prossime ore sarà comunicata la lista dei ministri, poiché le parti coinvolte stanno lavorando per eliminare gli ultimi ostacoli. Un portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, al contrario ha dichiarato che potrebbero essere necessari “diversi giorni” per annunciare il nuovo governo.

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New Orleans, dove non esiste più la scuola pubblica

A New Orleans l'istruzione non è più pubblica. La città della Louisiana è la prima negli Stati Uniti a non avere più sul suo territorio neanche una scuola statale. L'ultima, la Benjamin Banneker Elementary, ha chiuso i battenti mercoledì scorso. Qui adesso dominano le charter school, istituti scolastici privati finanziati solo in parte dallo Stato, un'alternativa al sistema pubblico e - solo teoricamente - a quello privato. Nate 20 anni fa in Minnesota, oggi le charter school sono presenti in 42 Stati su 50 e nel distretto della Columbia sono frequentate dal 44% degli studenti.

La diffusione di queste scuole a New Orleans è aumentata dopo l'uragano Katrina, che nell'agosto del 2005 l'aveva messa in ginocchio. Prima del suo passaggio le charter erano poche: le strutture pubbliche erano le più diffuse, anche se considerate tra le peggiori del Paese. Dopo Katrina, lo Stato ha deciso di prendersi carico di 102 scuole su 117 e di metterle sotto il controllo del Recovery School District, un organismo pubblico che da sempre ha guardato al settore privato, favorendone gli investimenti nel campo dell'istruzione.
Ma poi l'ente pubblico ha incoraggiato in ogni modo l'iniziativa privata nel settore dell'educazione con la scusa che l'urgenza era favorire il rapido ritorno degli studenti sui banchi.
Da allora la “riforma bianca” è proseguita, e i risultati sembrano aver premiato le charter school: prima del cataclisma, la percentuale di completamento delle high school da parte degli studenti era al 54%, nel 2013 è stata del 77%; inoltre, il 57% degli studenti ha ottenuto la sufficienza in matematica e lettura, nelle prove statali, contro il 23% del 2007.

Certo non mancano le critiche, rivolte soprattutto alla evidente ingerenza di aziende e filantropi “interessati” nella gestione degli istituti, tanto che secondo un sondaggio il 41% dei cittadini della città si è detto contrario allo smantellamento del sistema pubblico.

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Nuovo inquilino, stessi vicini, vecchi problemi. Narendra Modi sullo scacchiere internazionale.

Politica estera e rapporti di confine saranno tra i protagonisti dell’agenda politica di Narendra Modi. Il nuovo Primo Ministro indiano eredita una complessa rete di relazioni spesso tossiche e immobili da anni. Lo scenario è complesso e la sua gestione comporta un difficile equilibrismo tra mantenimento delle promesse elettorali, pressioni interne, interessi nazionali e diplomazia internazionale.

Da New Delhi, Daniele Pagani
Il vicino scomodo per antonomasia è il Pakistan. I rapporti tra le due nazioni non sono mai stati  semplici: quattro guerre in meno di sessant'anni e migliaia di vittime civili in un conflitto mai risolto sulla sovranità territoriale del Kashmir. Il background politico di Narendra Modi non sembrerebbe il più adatto alla pacificazione: tradizionalmente antipakistano, durante la guerra del Kargil, nel 1999, era solito accusare a gran voce il governo di Islambad di collaborazione con le milizie irregolari kashmire, indicandolo come unico responsabile del conflitto. Rimane storica la sua visione su una possibile cessazione delle ostilità: “non daremo loro riso e pollo, ma risponderemo ai proiettili con le bombe”.

Le relazioni indo-pakistane sono congelate dal novembre 2008, quando una serie di attentati perpetrati dal gruppo Lashkar-e-Taiba (LeT) – letteralmente “l'esercito dei puri” – causò 166 morti a Mumbai. LeT è anche la principale responsabile di un ventennio di attentati nella regione del Jammu e Kashmir. Lo scontro tra i due governi ruota soprattutto intorno al ruolo del potente servizio segreto pakistano, lo Inter-services Intelligence (ISI) (qui un mio articolo) che, per dichiarazione della stessa dirigenza di LeT, ha più volte procurato fondi ed armamenti per il mantenimento dei loro campi di addestramento nel Kashmir pakistano.

Modi sembrerebbe intenzionato a trovare una soluzione definitiva al problema. Quale non è ancora chiaro. Per “rompere il ghiaccio diplomatico” ha deciso di invitare alla cerimonia di insediamento il Primo Ministro del Pakistan, Nawaz Sharif, come membro della South Asian Association for Regional Cooperation (SAARC). L'invito è un'evidente mossa diplomatica volta a sondare il terreno e mettere la palla in campo avversario: un'alta carica pakistana, prima di uscire dal paese per motivi diplomatici, deve sempre consultarsi (leggi, fare una prova di forza - ndr) con lo Stato Maggiore dell'esercito. Aver accettato l'invito potrebbe suggerire o la capacità di Sharif di superare il tradizionale ostracismo dei militari verso l'India o una mossa strategica per evitare di essere il primo ad inasprire i rapporti.

In questa relazione l'Afghanistan diventerà una pedina fondamentale e potrebbe trasformarsi in un terreno su cui delocalizzare le tensioni. Gli U.S.A. stanno completando il piano per il ritiro delle truppe, ed entro massimo un anno il controllo del paese passerebbe alle forze armate locali. L'India sta investendo economicamente nella ricostruzione afgana: un ottimo affare sia dal punto di vista economico che geopolitico. L'Afghanistan, infatti, è terreno di tradizionale influenza pakistana ed inserirsi nel suo tessuto economico e politico potrebbe rivelarsi strategico. Non è affatto scontato, però, che ISI ed esercito pakistano restino passivi di fronte a questo processo e non decidano di avvalersi di organizzazioni paramilitari islamiche per destabilizzare l'avanzata indiana.

Se realmente intenzionato a pacificare i rapporti, Modi, sebbene forte di una solidissima maggioranza parlamentare, dovrà gestire le spinte interne dei quadri del Bjp, tradizionalmente avversi al Pakistan ed ai musulmani in generale. Sottovalutare gli equilibri di partito ed il dissenso interno potrebbe rivelarsi rischioso e rovinare i suoi ambiziosi progetti di governo.

Vicino meno scomodo ma comunque problematico è la Cina, con la quale restano aperte diverse questioni territoriali. La più spinosa controversia coinvolge lo stato indiano dell'Arunachal Pradesh, un territorio che Pechino rivendica come Tibet meridionale. Narendra Modi, durante la campagna elettorale, non ha mancato di specificare la sua posizione in materia: “l'Arunachal Pradesh è parte integrante dell'India e lo rimarrà sempre. Non esiste potenza che ce lo possa portare via. La Cina dovrebbe frenare la sua politica espansionistica e muoversi per stringere accordi bilaterali con l'India per la pace, il progresso e la prosperità di entrambe le nazioni”.

Ad oggi nessuno dei due governi ha intenzione di rivedere la propria posizione. Il governo indiano ha optato per un incremento della presenza lungo la linea di confine, prevedendo lo stanziamento di circa 80 mila militari e la creazione di particolari nuclei con il compito di sorvegliare le attività cinesi al confine (qui un mio articolo).

Narendra Modi, nonostante non sembri intenzionato ad abbandonare il progetto di militarizzazione dei confini, si è sempre dimostrato ammiratore della Cina, soprattutto dal punto di vista economico. Da Cheif Minister del Gujarat ha visitato Pechino almeno tre volte, invitando grandi compagnie cinesi ad intraprendere investimenti agevolati nello stato. Considerando che il commercio con la Cina rappresenta l'8,7 per cento del commercio internazionale indiano, c'è una buona probabilità che i due stati mantengano un atteggiamento propagandistico in materia di confini, e optino per amplificare i rapporti commerciali. Nondimeno, allo stato attuale, una guerra dichiarata e guerreggiata sembra essere un'ipotesi del tutto irreale che non converrebbe a nessuno.

In questo scenario c'è un terzo attore, lontano ma importante: gli Stati Uniti. Il governo americano  sembrerebbe avere un grande interesse nella costruzioni di un rapporto privilegiato con Modi. L'India, se dissolvesse parte delle sue barriere verso gli investimenti esteri, rappresenterebbe un'ottima opportunità per multinazionali e banche di investimento americane affannate dalla crisi.

Agevolazioni fiscali, prezzi convenienti, salari bassi, assenza di sindacati, classe media in rapida espansione ed un enorme mercato interno rappresentano gli ingredienti perfetti del neo liberismo in salsa statunitense.

Non è solo l'economia ad interessare il Dipartimento di Stato, ma anche la strategia. Abbandonare un Afghanistan tutt'altro che pacificato significa lasciare una grande incognita nello sviluppo del Paese e del teatro dell'Asia centrale. Dopo anni di mal ricambiato supporto logistico e monetario al Pakistan, è comprensibile che l'amministrazione Obama desideri identificare un alleato più stabile ed affidabile con cui sorvegliare gli sviluppi futuri.

Per ora l'imprevedibilità di Narendra Modi rimane l'unica variabile che accomuna i calcoli internazionali. Bisognerà vedere, soprattutto attraverso le nomine dei ministri, quali sono le reali intenzioni del nuovo Primo Ministro. Quanto i suoi proclami fossero propaganda e quanto dichiarazioni di intenti.

Da New Delhi, Daniele Pagani

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29/05/2014

TrueCrypt chiude perché insicuro, usate Microsoft Bitlocker

"Attenzione: usare TrueCrypt non è sicuro perché potrebbe contenere problemi di sicurezza irrisolti". Si apre con questa frase minacciosa la pagina del famoso progetto dedicato alla crittografia: il progetto è morto, ufficialmente in concomitanza con l'abbandono di Windows XP da parte di Microsoft. È stata pubblicata la versione 7.2 del programma per decrittare i file attualmente protetti e facilitare il passaggio a Bitlocker.

Gli sviluppatori suggeriscono infatti di usare Bitlocker, lo strumento di crittografia integrato in Windows, come alternativa. Un vero e proprio terremoto nel mondo della sicurezza, perché TrueCrypt per anni è stato un vero e proprio punto di riferimento, un faro nella notte per chi naviga alla ricerca della migliore privacy.

Ancora più sorprendente è che si consigli di usare Bitlocker: il prodotto Microsoft non ha vulnerabilità note, ma c'è sempre il tema della collaborazione con la NSA e delle backdoor collocate ad arte in tutti i programmi. Ipotesi, illazioni o fatti concreti? Non si può affermare con certezza assoluta, ma nel mondo degli esperti IT in generale si preferiscono altre strade.

La pubblicazione non ha nulla a che vedere con l'audit di sicurezza sullo stesso TrueCrypt. Gli studi per la ricerca di backdoor nascoste non sono ancora terminati, ma per il momento non sono emerse criticità rilevanti. Forse i risultati ancora da pubblicare sono talmente compromettenti da aver spinto a questa scelta radicale? Improbabile, ma nemmeno questa ipotesi si può escludere.

Non è chiaro quindi quali siano i problemi di sicurezza irrisolti segnalati sulla pagina di TrueCrypt; si è speculato che sia stato compromesso il sito stesso, e sostituito l'eseguibile della versione 7.2 con un trojan. Un'ipotesi difficile da dimostrare al momento, ma non si può escludere che tutta la pagina sia una vera e propria trappola.

I gestori di SourceForge, tuttavia, non hanno rilevato segnali di violazioni sulla pagina in questione - il che sarebbe stato del tutto possibile considerato il recente annuncio relativo proprio all'aggiornamento del servizio. Per sicurezza, comunque, meglio evitare di scaricare TrueCrypt 7.2, almeno per ora.

"C'è qualcosa di molto insolito nel codice della 7.2", scrive infatti un utente del forum di Neowin, "che ho installato in un ambiente VM protetto. Sta facendo cose strane con la rete… non credo che questo file sia legittimo… non ho mai visto Truecrypt usare connessioni in passato".

L'eseguibile è firmato con le chiavi di TrueCrypt ma può solo decrittare, non viceversa. Sono inoltre state cancellate le versioni precedenti dai repository ufficiali - ma su GitHub si trovano comunque (grazie Mach00!). Può essere un elaborato tentativo di truffa quindi, ma anche il risultato di pressioni legali sugli autori di TrueCrypt - un po' com'è accaduto a quelli di Lavabit. Non si può escludere che TrueCypt 7.2 sia effettivamente l'ultima versione ufficiale, pubblicata solo per facilitare il passaggio a Bitlocker, come recita la pagina ufficiale.

Riassumendo: TrueCrypt chiude e consiglia di passare a Bitlocker - almeno per chi usa Windows. Ci sarebbero problemi di sicurezza, e la risposta è una nuova versione del software che si comporta in modo anomale. Sembra che ci sia un mistero da risolvere: secondo voi che è successo?

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Sta storia puzza non poco.
Chi lavora nella sicurezza informatica farebbe bene a tenersi stretta la versione 7.1a in attesa di un auspicatissimo fork, possibilmente sotto licenza GNU-GPL. 

Barrel of a gun


Dietrofront sulla Tav Torino-Lione. Non servirà per le merci, ce lo chiede l’Europa

Completo, segreto, silenzioso dietrofront. Oltre ad avere quasi dimezzato i finanziamenti alla Tav Torino-Lione, l’Unione Europea ha messo nero su bianco di non farci passare le merci e di utilizzare invece per queste lo storico traforo del Frejus. Ma proprio il trasporto delle merci doveva essere la pietra angolare della Tav. E’ stupefacente venire a conoscenza di informazioni ufficiali così importanti e che riguardano così da vicino la spesa pubblica italiana con oltre un anno di ritardo e solo perché le ha rese disponibili on line qualche giorno fa la testata francese Reporterre. Eppure…

Antefatto. Il traforo ferroviario del Frejus fra Italia e Francia (per i francesi: traforo del Mont Cenis) risalirà pure ai tempi di Cavour, ma è stato ammodernato due anni fa ed è in grado di trasportare anche gli autocarri caricandoli a bordo dei vagoni ferroviari; è usato ben al di sotto delle sue potenzialità; il traffico merci fra Italia e Francia attraverso il Frejus è in netto calo dal 1997 circa, mentre sembrava in aumento all’inizio degli Anni '90, quando l’Unione Europea ha cominciato a parlare della necessità di costruire un nuovo corridoio ferroviario.

In questo scenario vanno collocate le rivelazioni di Reporterre, che ha messo on line un documento ufficiale firmato da Laurens Jan Brinkhorst, il coordinatore per conto della Commissione Europea del “progetto prioritario 6″, ovvero del costruendo corridoio ferroviario da Lione alla frontiera ucraina. Il corridoio doveva andare dall’Atlantico a Kiev, ma in Ucraina (con rispetto parlando) non sanno neanche cos’è un treno ad alta velocità; il Portogallo ha già detto da tempo di no ed ora silenziosamente anche la Spagna si è defilata. Il documento firmato da Brinkhorst è il rapporto annuale d’attività 2012-13 ed è datato ottobre 2013.

Vi risparmio l’educata esposizione di Brinkhorst sul pieno marasma ad Est di Trieste. Per quanto riguarda specificamente la Torino-Lione, il suo rapporto – redatto in francese – dice che nel gennaio 2013 si è svolta l’ultima riunione della “plateforme du corridor Lyon-Turin”. O per lo meno: si è svolta l’ultima riunione prima della redazione del rapporto annuale. La “plateforme” riunisce i soggetti italiani, francesi e dell’Ue coinvolti nella Tav; il summit
était centrée sur la ligne historique et le rôle qu’elle pouvait jouer comme axe ferroviaire principal entre la France et l’Italie. Les participants sont convenus de la nécessité de réactiver la ligne existante pour qu’elle devienne l’axe ferroviaire principal pour le transport des marchandises entre la France et l’Italie. Le point de vue partagé est l’impossibilité politique de proposer la construction d’une nouvelle ligne sans avoir entrepris tous les efforts possibles pour rétablir la ligne existante comme artère principale de transport après les travaux d’élargissement du tunnel ferroviaire Fréjus/Mont Cenis
Ovvero: la riunione si è occupata della linea ferroviaria storica (quella dei tempi di Cavour e da poco ammodernata) e del ruolo che essa potrebbe avere come asse principale fra Italia e Francia. I partecipanti hanno convenuto sulla necessità di riattivare la linea già esistente affinché diventi l’asse principale del trasporto merci fra Italia e Francia. Il punto di vista condiviso è l’impossibilità politica di proporre la costruzione di una nuova linea senza intraprendere tutti gli sforzi possibili per ripristinare la linea esistente come la principale arteria di trasporto dopo i lavori di ampliamento del Fréjus-Mont Cenis.

Di questo importantissimo dietrofront emerso durante la riunione della “plateforme” finora non è saputo assolutamente nulla. Comunque la Francia ha già ufficialmente rimandato a dopo il 2030 (leggi: alle calende greche) il raccordo fra la rete ferroviaria nazionale e il tratto internazionale della Tav Torino-Lione: un tunnel sotto le Alpi di circa 60 chilometri il cui costo è stimato in 8,78 miliardi di euro, per il 58% a carico dell’Italia – così ha stabilito l’accordo con la Francia – anche se la galleria ricade solo per il 20% in territorio italiano.

L’Italia insiste che il tunnel è prioritario. Ma visto che ora l’Europa dice di non farci passare le merci, per quanti viaggiatori è prioritario andare da Torino a Lione risparmiando un’ora – solo un’ora – di tempo? E voi spendereste tutto quel denaro pubblico per accontentarli?

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Iraq - Il giorno più insaguinato negli ultimi sette mesi: 74 morti


Quello di ieri sarà ricordato come il giorno più insaguinato degli ultimi sette mesi per l’Iraq, già teatro nell’ultimo anno di una ripresa della guerra civile, figlia dell’occupazione americana. Gli attacchi registrati ieri in tutto l’Iraq hanno provocato la morte di 74 persone. Negli ultimi mesi sono morti migliaia di civili iracheni a causa di bombe e attacchi, portati a termine da jihadisti e qaedisti sunniti, che hanno preso di mira in particolare gli sciiti. Colpite anche le forze di sicurezza.

L’attentato più devastante è avvenuto ieri a Kadhimiyah, un quartiere settentrionale di Baghdad dove un kamikaze si è fatto saltare in aria uccidendo almeno 16 persone e ferendone 52. Altri 20 morti sono stati causati da tre bombe a Amin, Sadr city e Jihad. I rimanenti in attacchi in varie località, tra le quali Mosul, una delle aree più violente del paese.

La particolarità di questi ultimi attentati è che sono stati compiuti durante le ore serali, quando gli abitanti di Baghdad e di altre città escono per passeggiare o per andare ai caffè e i ristoranti. Sino ad oggi gran parte degli attacchi sono stati compiuti al mattino e al pomeriggio.

Le ultime violenze coincidono con i tentativi dei vertici politici di stringere alleanze in vista della formazione di un nuovo governo, che il controverso primo ministro uscente Nuri al Maliki intende continuare a guidare, anche senza una chiara maggioranza.

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L’offensiva di Kiev conquista territorio ma rischia ½ Ucraina


La frattura tra la popolazione ucraina filo europea e filo russa, con l’escalation delle guerra si sta facendo insanabile. Con l’elezione del nuovo presidente Petro Poroshenko nessun passo in avanti nel dialogo tra Kiev e ribelli. Ormai parlano solo le armi. USA e Russia restano fredde e distanti.

«Questa non è una nuova guerra fredda». Barak Obama lancia il messaggio nel pieno marasma dei nazionalismi ucraini sperando che nonostante la tempesta in corso giunta al destinatario. Mosca non dà ancora segnale di ricevuto ma occorre tempo per valutare e decidere se e cosa rispondere. Obama ha poi fatto il furbo dichiarando che la linea degli Usa sulla crisi ucraina è quella di “agire insieme agli alleati e alla comunità internazionale”. Tradotto, certi vizietti da croce uncinata sono eredità europee e non nostre. E l’Unione europea, grande assente diventa di colpo colpevole a metà.

Sull’altro fronte, in Ucraina, il leader dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, Denis Pushilin, promette, “Non combatteremo fino alla fine, ma fino alla vittoria”. Concetto ribadito dal premier Alexander Borodai. Sul campo di battaglia è guerra non di parole. Caccia militari sorvolano Donetsk, ci racconta l’inviato dell’ANSA. Raffiche di mitragliatrici si sono sentite anche nei pressi della sede dell’Sbu, i servizi segreti ucraini, secondo quanto riferiscono testimoni oculari. La sede si trova nei pressi del palazzo dell’amministrazione, occupata dai separatisti. Guerra casa per casa.


Precipita dunque la situazione nella città stretta nell’assedio dalle forze militari ucraine che hanno intimato ai ribelli separatisti di andare via o verranno “colpiti con precisione”. Una minaccia che ieri si è trasformata in bagno di sangue. Almeno 100 gli uccisi nella battaglia per l’aeroporto della città, dilagata presto nei quartieri residenziali limitrofi. Gli scontri sono arrivati a lambire la stazione centrale, a due passi dalla zona degli alberghi affollati di giornalisti stranieri e di civili in cerca di rifugio. Le autorità della Repubblica di Donetsk hanno confermato il coprifuoco dalle 20 alle 6.

Il Cremlino, senza ancora rispondere ad Obama sulla ‘Non Guerra Fredda’ esprime il timore che l’uso della forza nell’est ucraino porta la crisi ad un “vicolo cieco” dopo il quale sarà sempre più difficile organizzare il dialogo tra Kiev e le regioni separatiste. Di fatto, chi sperava che le elezioni presidenziali ucraine si svolgessero in un clima di pace o quantomeno di cessate-il-fuoco, si è sbagliato di grosso. Così come si è sbagliato chi riteneva che la scelta di un nuovo presidente avrebbe stemperato gli animi e portato a più miti consigli sia il governo di Kiev che i separatisti dell’Est.

Ma cosa vuole il nuovo presidente Poroshenko? E dove vuole arrivare il governo dei nominati di Kiev? Contraddizioni a raffica. Duro e puro il vice premier Vitaly Yaryoma promette guerra “Fino a quando non un solo combattente di auto-difesa resterà sul territorio dell’Ucraina”. Il candidato Presidente Poroshenko aveva promesso dialogo con le Repubbliche ribelli. Divenuto Presidente, ora non vede ragioni per interrompere l’attacco su Donetsk e che l’operazione si doveva dimostrare “più efficace”. Meschini calcoli elettoralistici o qualche strategia da parte del navigato oligarca?


Mosca aveva annunciato che avrebbe accettato i risultati delle elezioni e si era detta disponibile a impegnarsi in un dialogo con il vincitore, ma per il momento resta alla finestra a osservare le mosse di Kiev. Non rassicuranti. Dopo il bagno di sangue all’aeroporto di Donetsk, le cose si complicano. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov respinge qualsiasi ipotesi d'incontro con Poroshenko. E la palla torna a Washington. La dottrina Obama dice che l’intervento armato esterno è giustificato quando un regime attacca la popolazione civile delegittimando automaticamente la propria sovranità.

Così è accaduto con Gheddafi in Libia, con Assad in Siria e con Yanukovich in Ucraina. Quesito sottolineato dall’analista di LookOut: se Kiev attacca anche la popolazione filo-russa e Washington non condanna tali azioni, anzi, le sostiene, cosa significa? O gli USA considerano i russi di Donetsk o di Odessa cittadini di serie B o la dottrina Obama non convince e la politica estera americana diventa non credibile. Date le premesse, quanto è credibile un negoziato tra Poroshenko, Obama e Putin? E che ruolo per la latitante Unione Europea, orba volontaria su quel che accade in Ucraina?

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Nasce l’Unione Economica Eurasiatica tra Russia, Kazakistan e Bielorussia


Putin è arrivato oggi ad Astana, capitale del Kazakistan, per firmare l'accordo per l'Unione Eurosiatica, un nuovo spazio economico tra alcune delle repubbliche dell'ex Unione Sovietica che diventerà operativo dal 1 gennaio del 2015. Il documento – un evento geopolitico non secondario - verrà siglato dal leader russo, dal presidente della Bielorussia Lukashenko e da quello del Kazakistan Nazarbayev al termine dei colloqui odierni. I tre paesi, si legge in una nota emessa dal Cremlino, intendono ''garantire la libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e della forza lavoro e condividere una politica comune nelle aree chiave dell'economia: energia, industria, agricoltura e trasporti''. Oltre alla Russia, alla Bielorussia e al Kazakistan, a giugno all’interno dell'Unione economica euroasiatica entrerà anche l'Armenia mentre il Kirghizistan dovrebbe farlo entro la fine dell'anno.
La nuova unione economica, diretta a creare un baluardo contro l'influenza di Stati Uniti e Unione Europea in Asia, è stata definita di natura ‘epocale’ dal presidente russo. "Oggi abbiamo creato un centro di sviluppo economico potente e attraente, un grande mercato regionale che mette insieme 170 milioni di persone", ha detto Putin che nel 2005 definì il dissolvimento dell'Unione sovietica ''il peggior disastro geopolitico'' del ventesimo secolo. "La nostra Unione ha enormi riserve di risorse naturali, inclusa l'energia, che rappresenta un quinto delle riserve di gas mondiale e il 15% di quelle petrolifere".
Immancabile è venuto anche un riferimento alle vicende ucraine da parte dei leader dei paesi promotori dell’iniziativa. «Abbiamo perduto dei partecipanti per strada - ha detto ad Astana il presidente della Bielorussia, Aleksandr Lukashenko -. Sono sicuro che presto o tardi le autorità ucraine capiranno dov'è il loro destino».

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Cala ancora l'occupazione nelle grandi imprese

L'occupazione continua a crollare anche nelle grandi imprese, che teoricamente dovrebbero reggere un po' meglio la concorrenza globale. A marzo 2014 l'occupazione - al lordo dei dipendenti in cassa integrazione guadagni (Cig) - segna una flessione dello 0,1% rispetto a febbraio. Al netto dei dipendenti in Cig si registra invece una variazione nulla (tradotto: se si calcolano i lavoratori messi in cig come ancora "operativi" allora non c'è stata variazione; chiaro che si tratta di un semplice "pudore statistico").

Nel confronto con marzo 2013 l'occupazione nelle grandi imprese diminuisce dell'1,0% al lordo della Cig e dello 0,7% al netto dei dipendenti in Cig. Su base annuale, dunque, il calo è consistente anche seguendo lo schema "pudico".

Il numero di ore lavorate per dipendente (al netto dei dipendenti in Cig) diminuisce, rispetto a marzo 2013, dello 0,1%, segno di una diminuzione degli ordinativi anche superiore a quella compensata tramite la cig.

A dimostrazione poi del carattere falso dell'affermazione per cui il problema dell'economia italiana sarebbe "l'alto costo del lavoro", la retribuzione lorda per ora lavorata  registra un aumento di appena lo 0,8% rispetto all'anno precedente (meno del tasso di inflazione ufficiale).

Considerando la sola componente continuativa, infatti la retribuzione lorda per dipendente aumenta, rispetto allo stesso mese dell'anno precedente, dello 0,6%. Di rinnovare i contratti, infatti, non se ne parla più.

Il rapporto completo dell'Istat.

Le serie storiche.

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