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30/04/2014

Polizia di Stato. Europeo

C'è chi si sorprende perché Renzi, Alfano e il capo della polizia Pansa condannano duramente l'ovazione con cui i poliziotti del Sap hanno accolto tre dei quattro “colleghi” che avevano ucciso Federico Aldrovandi. Ma come? Con una faccia organizzano la “tonnara” del 12 aprile o gli sgomberi durissimi di molte occupazioni (non solo abitative) e con un'altra stigmatizzano l'esaltazione della violenza omicida di alcuni poliziotti?

Non c'è contraddizione. Chi si stupisce non ha ancora compreso la “novità” rappresentata dal governo Renzi come terminale fedele dell'Unione Europea.

Sappiamo per lunga esperienza diretta quanto i governi di questo paese – in linea generale democristiani, anche quando ci sono stati ministri dell'interno “ex comunisti”, come Giorgio Napolitano – abbiano sempre mediato con l'anima fascista delle “forze dell'ordine”; quella certificata fin dal primo dopoguerra, quando gli ex partigiani furono “licenziati” e Guido Leto, regista dell'Ovra fascista, “riabilitato” come direttore tecnico delle scuole di polizia nell'Italia repubblicana. Una mediazione tra la fedeltà a governanti visti con qualche sospetto in quanto “democratici” e la tolleranza verso “eccessi” di violenza esibiti da singoli poliziotti o da interi reparti (la Celere non è mai cambiata, da Scelba in poi). Tolleranza che si è tradotta sempre in impunità totale, sia sul piano giudiziario che delle carriere.

Sul versante militare si tratta della stessa mediazione stabilita con pezzi di blocco sociale “reazionario” sul piano politico e improduttivo su quello economico (clientele, appalti, criminalità organizzata, ecc), indispensabile per creare consenso sociale al tempo del mondo diviso in due. Un blocco sociale rimasto intatto anche quando – dopo il crollo del Muro – era diventato palesemente un costo inutile.

Sappiamo che Berlusconi e gli ex fascisti di An hanno capitalizzato e tutelato questi interessi, e naturalmente anche quelli di “forze dell'ordine” refrattarie a far proprie le regole di comportamento di un paese liberale. La presenza di La Russa e Gasparri al congresso del Sap, nonché all'applauso per gli assassini di Aldrovandi, non è una coincidenza sfortunata.

Ma oggi comanda l'Unione Europea. C'è un nuovo ordine, con altre regole. È un ordine che ha problemi enormi di consenso sociale a causa della crisi e che deve quindi disporre della “forza” necessaria a reprimere ogni manifestazione conflittuale.

Contemporaneamente, però, questa “forza” deve dismettere ogni comportamento “spontaneo” o “eccedente”, che può solo mettere in imbarazzo un ordine che deve descriversi come “democratico” nel mentre scardina gli istituti della democrazia parlamentare e rappresentativa.

Anche le varie polizie italiane, insomma, devono “diventare europee”.

Non mancano, nell'Unione Europea, modelli di riferimento più “presentabili”. Dai bobbies inglesi ai flic francesi possono arrivare esempi di durezza repressiva senza pari, ma anche senza sbavature “individuali”. E quindi – dicono all'unisono il capo del governo e quello della polizia – basta con i poliziotti che ammazzano disgraziati a casaccio, poveri cristi che “danno in escandescenze” per qualcuno dei tanti problemi che colpiscono un'umanità senza più prospettive e speranze, ma che non hanno mai rappresentato un problema per l'ordine. Solo poliziotti capaci di garantire l'autocontrollo potranno “legittimamente” reprimere le manifestazioni di conflitto sociale.

Solo una polizia (e una magistratura) attenta alle regole formali può ambire a sostituire “la politica” nella relazione con i problemi sociali. Come si va sperimentando in queste settimane a Roma.

Questo era andato a dire Pansa ieri mattina al congresso del Sap. “Nuove regole d'ingaggio”, decise dall'alto, centralizzate, unitarie su tutto il territorio, contro nemici individuati e segnalati. Basta camminare sugli “zaini” umani quando ti viene in testa, sì alle “tonnare” e alle mazzate. Ma nella misura e nelle forme decise in sede governativa.

Una “ripresa di controllo” della polizia che – hanno subito dopo dimostrato dirigenti e iscritti al Sap – sembra incontrare più di una resistenza.

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Libia a mano armata, assalto al Parlamento. È la guerra per bande


Caos. Uomini armati hanno fatto irruzione nell’aula del ‘Congresso generale nazionale’, il Parlamento libico a Tripoli. Si stava votando per designare il nuovo premier. Durante la sparatoria diverse persone sono rimaste ferite. Secondo alcuni testimoni, i deputati si sarebbero salvati fuggendo.

Notizie poche e per giunta confuse. Uomini armati ieri nel tardo pomeriggio hanno fatto irruzione nella sede del Congresso generale nazionale, il Parlamento libico, a Tripoli ferendo numerose persone. Secondo la BBC le milizie armate sarebbero vicine a uno dei candidati alla premiership libica, ma non viene specificato quale. L’Aula stava votando per designare il nuovo premier dopo le dimissioni-fuga di Abdullah al Thani, dimissionario dopo solo 5 giorni in carica e dopo attentato.

Mancano al momento dettagli sugli avvenimenti. In mattinata nessuno dei sette candidati audaci rimasti in corsa era riuscito a superare la soglia del 50% dei voti, e al momento dell’interruzione violenta della seduta era in testa l’imprenditore Ahmed Mitig con 67 voti, ma lontano dai 120 necessari per diventare premier. La scelta reale era e resta tra l’imprenditore 40enne di Misurata Ahmed Mitig, e l’accademico di Bengasi, Omar Al Hassi. Ma non si litiga sui nomi ma sulla tribù.

Da Misurata o da Bengasi, il futuro primo ministro sostituirà Abdullah al Thani, che il 13 aprile ha annunciato le sue dimissioni dopo solo 5 giorni in carica. A metterlo letteralmente in fuga fu un attentato contro lui e la sua famiglia, per fortuna fallito. Comunque anche il futuro premier, se il Parlamento potrà votarlo, resterà in carica solo per pochi mesi, fino alle elezioni di una vera Camera dei rappresentanti, organismo che sostituirà il Congresso generale nazionale del dopo Gheddafi.

Il General National Congress avrebbe dovuto terminare le proprie funzioni lo scorso febbraio, ma con un atto che ha suscitato molte proteste e perplessità, è stato prorogato di un anno il suo mandato in attesa che vangano indette le prossime elezioni. Il tempo per un ipotetico accordo su cui stanno lavorando numerosi mediatori tra le kabile, le tribù che dovranno spartirsi potere, prestigio e soprattutto petrolio. Tripoli, Bengasi in Cirenaica e il deserto. Tre spinte contrapposte verso la disgregazione.

Nei giorni scorsi era iniziato il processo ad alcune delle figure di punta del deposto regime. Il 27 aprile, Sayf Gheddafi, figlio del colonnello, vi ha partecipato in videoconferenza da Al-Zintan dov’è detenuto. Imputato tra gli altri l’ex direttore dei servizi segreti Abdallah al-Sanusi. Parzialmente rientrata la crisi petrolifera in Cirenaica. Nel porto di Al-Zuwaytina è in corso il passaggio di consegne dai separatisti alle forze di sicurezza nazionali. Riattivazione dello scalo ancora incerta.

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Dall’Ucraina alle Filippine


di Manilo Dinucci

Il presidente Obama e la sua squadra per la sicurezza nazionale, guardando al di là della crisi ucraina, sono impegnati a «forgiare una versione aggiornata della strategia della guerra fredda per contenere la Russia». Lo fanno sapere funzionari dell’amministrazione, specificando che l’obiettivo su cui si concentra il presidente è «isolare la Russia di Putin recidendo i suoi legami economici e politici col mondo esterno». Il primo passo è ridurre sempre più, fino a interromperla, la fornitura di gas russo all’Europa per sostituirlo con quello fornito soprattutto da compagnie Usa sfruttando i giacimenti medio orientali, africani e altri, compresi quelli degli Stati Uniti che si preparano a esportare gas liquefatto ricavato da scisti bituminosi.

Qui Washington scopre le carte.

Il margine di superiorità economica degli Stati Uniti su scala globale si sta sempre più riducendo. La Cina è salita al secondo posto mondiale con un pil in forte crescita già pari alla metà di quello Usa, seguita da Giappone e Germania, e il pil complessivo dei 28 paesi della Ue ha superato quello degli Stati Uniti.

Per conservare la supremazia economica, essi si basano sempre più sul settore finanziario, in cui mantengono un netto vantaggio, e sulla capacità delle loro multinazionali di conquistare nuovi mercati e fonti di materie prime.

A tale scopo Washington getta sul piatto della bilancia la spada della propria superiorità militare e di quella della Nato sotto comando Usa. In tale quadro rientrano la demolizione sistematica, con strumenti militari, di interi stati (Jugoslavia, Libia e ora Siria) e l’annessione tramite la Nato di tutti quelli dell’ex Patto di Varsavia, più due della ex Jugoslavia e tre dell’ex Urss. Anzi quattro, perché l’Ucraina era già di fatto sotto controllo Nato prima della crisi. Bastava aspettare le elezioni del 2015 per avere in Ucraina un presidente che avrebbe accelerato il suo ingresso ufficiale nell’Alleanza.

Perché allora la decisione, presa a Washington, di organizzare il putsch che ha rovesciato il presidente eletto Yanukovich (tutt’altro che ostile all’Occidente), insediando a Kiev gli esponenti più ostili alla Russia e ai russi della Crimea e dell’Ucraina orientale? Evidentemente per spingere Mosca a reagire e dare il via alla strategia di isolamento. Cosa non facile: la Germania, ad esempio, è il maggiore importatore di gas russo e verrebbe danneggiata da una interruzione delle forniture.

Washington ha però deciso di non aspettare i governi europei per imporre alla Russia sanzioni più dure. Ha già l’ok di Roma (la cui «fedeltà» è nota) e si sta accordando con Berlino e altre capitali. Obiettivo strategico è quello di un fronte antirusso Usa-Ue, consolidato da un accordo di libero scambio che permetterebbe agli Usa di accrescere la loro influenza in Europa.

Stessa strategia nella regione Asia/Pacifico, dove gli Usa puntano al «contenimento» della Cina. Questa, riavvicinatasi alla Russia, esercita un crescente peso su scala non solo regionale ma globale e può vanificare le sanzioni contro Mosca aprendole ulteriori sbocchi commerciali ad est, in particolare per le esportazioni energetiche.

A tale scopo il presidente Obama ha appena effettuato una visita ufficiale in Asia. Il Giappone, però, ha rifiutato di firmare l’accordo di libero scambio che avrebbe aperto il suo mercato ai prodotti agricoli statunitensi. In compenso, le Filippine hanno concluso con Washington un nuovo accordo decennale che permette agli Usa di accrescere la loro presenza militare nell’arcipelago in chiara funzione anticinese.

Dove non può il dollaro, può la spada.

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Nuvole nere a Milano. E non solo

Un lettore milanese ci descrive l'aria che tira nella “capitale economica” del paese, tra fascisti in piazza, business dominante e istituzioni complici.

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Queste giornate pre e post 25 aprile sono state decisamente segnate dall’ipocrisia e dalla concessione al peggio. L’apice è stato raggiunto con l’ennesima parata di saluti romani e inni nazi fascisti per le vie di Milano. Poco conta il numero degli adepti rosso bruni e camice nere riverniciate. Sono sempre troppi e pericolosi per l’ideologia che portano, per le minacce che portano e per essere pronti all’uso contro comunisti e antifascisti e classe operaia in genere.

Ma tant’è. Quasi ci siamo abituati. La parata per Ramelli è uso dei fascisti per ribadire che ci sono.

Eppure non ci dobbiamo abituare ma rispondere con la presenza in piazza e il nostro continuare a fare politica, quotidianamente a fianco alle lotte, ribadendo i giusti punti di riferimenti della Resistenza (tradita), dell'uguaglianza, libertà e giustizia sociale. Ricordando che la lotta di liberazione fu per ridarci l’autodeterminazione dall’occupante e per rilanciare la lotta di classe contro il profitto che sfruttò i regimi fascisti e nazisti contro le lotte popolari. Le risposte ci sono state. Ma, per contro altare, sono state proprio le istituzioni locali e, in particolare il sindaco Pisapia, che procedono a equiparazioni inaccettabili. L’ultima in senso cronologico è la partecipazione del sindaco alla commemorazione mattutina di Ramelli. Atto dovuto dice. Ci si chiede verso chi. Verso i camerati? Verso una pacificazione non richiesta? Perché il punto non è la morte di Ramelli. Sarebbe fin troppo facile chiedere a Pisapia: perché Ramelli si, Varalli e Zibecchi no?  E Dax?

No non ci aspettiamo da Pisapia equidistanza. Non la vogliamo. Anzi oramai anche chi ci credeva non si aspetta più molto. La bella faccia ha mostrato il lato vero. Ogni giorno si assiste a sfratti e politiche che di sociale non hanno nulla. E le posizioni politiche sono quelle della coalizione che lo supporta nel governo della città. Le autogiustificazioni sono il naturale comportamento che copre la totale assenza nel supporto dei lavoratori e delle famiglie. Doveva essere il cambiamento ma ha rappresentato la continuità.

E così si erge a sostegno di una pace contro gli imbecilli. E qui andiamo all’intervento fatto in consiglio comunale l’indomani del 25 aprile. Chiama imbecilli equiparando ancora lo striscione di Forza Nuova nel giorno della Festa della Liberazione con chi in piazza sosteneva la causa palestinese contro i simboli di morte sionisti. Le iniziative antifasciste sono viste come momenti di tensione e dimentica che in Cimitero Maggiore ormai i fascisti di Lealtà e azione si contrappongono al quartiere e agli antifascisti.

Milano risponde come può. Nel suo insieme la città è addormentata dalla Movida e dalle iniziative per l’Expo 2015. Per non dimenticare la cementificazione e lo scempio quotidiano. Quartieri sempre più poveri contrapposti a quartieri sempre più ricchi. Case popolari contro grattacieli e boschi verticali.

Tante le iniziative in questi giorni. Contro i fascisti. Contro i sionisti. Contro l’equidistanza delle istituzioni. Lo stesso 25 aprile la stragrande maggioranza del corteo portava i valori della lotta: contro la Tav, contro il Jobs act, l’imperialismo, contro il massacro dei palestinesi.

Ci si prova tutti i giorni. Ci proveremo anche domani. Sappiamo che le nuvole nere a Milano le portano i fascisti. Ma anche chi volutamente dimentica la storia, fa finta che tutto sia passato e sia tutto uguale e giorno dopo giorno concede spazi a tutto ciò che non serve ai lavoratori, alle loro lotte e alle loro conquiste compresi i valori del 25 aprile.
Giosta

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Iraq - Elezioni presidenziali al via

Dopo un attentato a Baghdad (foto AP)
Tra attentati a raffica, undici anni dopo l’invasione americana e la Seconda Guerra del Golfo, milioni di iracheni oggi sono chiamati a un voto che da un lato potrebbe rivelarsi fondamentale per il futuro del loro Paese e dall’altro farlo precipitare definitivamente in una nuova guerra civile.

Un voto che mette in luce la realtà di un Paese che possiede enormi riserve di petrolio in grado di assicurare un futuro di sviluppo e di benessere ai suoi abitanti e che invece riesce a coprire solo il 50% dei bisogni energetici nazionali, a cominciare dall’elettricità, e che non offre servizi essenziali come una efficace distribuzione dell’acqua nei centri abitati. Dove finiscono le ingenti entrate frutto dell’esportazione di greggio ben pochi lo sanno. Certo anche nelle casse delle multinazionali del petrolio che “aiutano” il Paese nell’estrazione dell’oro nero.

Ieri il premier sciita Nuri al Maliki, duramente contestato dalla minoranza sunnita, ha lanciato un appello agli elettori affinché vadano in massa alle urne  per scegliere i 328 deputati del nuovo Parlamento. Maliki, al potere dal 2006, chiede un terzo mandato. In un’intervista alla televisione al Iraqia si è detto sicuro di poter trovare le intese per formare una maggioranza basata “sull’unità dell’Iraq e la rinuncia al settarismo”.

Un impegno davvero ambizioso di fronte alla frammentazione del panorama politico, che vede sciiti e sunniti divisi anche al loro interno e che renderà necessarie lunghe trattative per riuscire a formare il nuovo esecutivo. Senza dimenticare che l’Iran per un verso e l’Arabia Saudita per l’altro faranno sentire la loro pesante influenza su qualsiasi sviluppo politico iracheno.
 
Oggi ci saranno 800 mila agenti di polizia e soldati a presidiare i seggi elettorali ma ben pochi credono nella loro capacità di tenere sotto controllo il paese. Anche nelle ultime ore sono stati numerosi gli attacchi dei gruppi qaedisti contro gli sciiti e le forze di sicurezza. Almeno 88 i morti da domenica scorsa, che portano ad oltre 3 mila il totale delle vittime dall’inizio dell’anno. La provincia dell’Anbar, altre zone del Paese e persino alcuni quartieri della capitale Baghdad restano fuori dal controllo delle forze di sicurezza governative.

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Repubblica Centrafricana dimenticata

Foto di Federica Iezzi
E’ un piccolo paese dell’Africa centro-occidentale, la Repubblica Centrafricana. Nell’ex colonia francese da oltre un anno imperversa una guerra tra milizie islamiche e milizie cristiane. Si contano migliaia di persone mutilate a colpi di machete, ad opera di uomini che usano violenza per sopravvivere. Sconvolte le vite di civili che ancora oggi portano sui loro corpi segni di violenza e di barbarie.

La guerra di religione è esplosa quando i Séléka, ribelli musulmani, a marzo dello scorso anno, hanno rovesciato il governo di François Bozizé e insediato Michel Djotodia, primo presidente musulmano a guidare il Paese, a maggioranza cristiana.

Le milizie di Djotodia hanno via via incrementato le proprie fila con la presenza di soldati jihadisti di Ciad e Sudan. I combattenti islamici dopo aver assunto il controllo del territorio centrafricano hanno irrobustito vigorosamente i numeri di violenze e saccheggi indiscriminati. Loro bersagli principali: civili di religione cristiana e strutture come chiese e ospedali. Hanno dato alle fiamme centinaia di villaggi, torturando, stuprando le donne e uccidendo gli uomini della popolazione a maggioranza cristiana.

Si schierano così contro i Séléka le truppe anti-balaka, a maggioranza cristiana. Si tratta di gruppi esistenti, a livello locale, dal 2009, organizzati per difendere i civili da aggressioni e soprusi. Il risultato di tanta brutalità è una spirale infinita di rappresaglie, mutilazioni, genocidi e pulizie etniche.

All’inizio dell’anno il parlamento della Repubblica Centrafricana ha nominato presidente ad interim Catherine Samba-Panza.

Lo scorso dicembre l’ONU ha dato mandato alla Francia per un intervento militare, destinato a ristabilire l’ordine nel Paese. 1600 soldati francesi, a sostegno della Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine (MISCA), formata da 3.600 soldati, indirizzata a salire a 6000. L’ultima missione di stabilizzazione, denominata MINUSCA, autorizza il dispiegamento di 10.000 soldati e 1.800 agenti di polizia, a partire dal prossimo settembre, che subentreranno alle unità militari del MISCA. Obiettivi: la protezione dei civili e l’allestimento di corridoi umanitari, in modo sicuro e senza ostacoli.

La Repubblica Centrafricana fin dalla sua indipendenza nel 1960 ha vissuto fasi politiche tormentate, tra regimi totalitari e colpi di stato. Le prime elezioni politiche in cui Ange-Félix Patassé diviene presidente sono datate 1993. Da allora instabilità, fino al colpo di stato, 10 anni dopo,  in cui il generale François Bozizé prende il controllo del governo. Bozizé rimane il capo indiscusso del Paese fino alla comparsa dei soldati mercenari Séléka.

Oggi le milizie cristiane hanno il controllo di tutte le principali strade del Paese. A rischio la minoranza musulmana della popolazione centrafricana, per l’ondata inarrestabile di omicidi, maltrattamenti e abusi, che sta costringendo intere comunità a lasciare il paese.


Centinaia e centinaia i morti. Solo nell’ultima settimana 600. Sono circa 750 mila gli sfollati interni, 250 mila rifugiati nei paesi confinanti, su una popolazione che non supera i quattro milioni.

Non si arresta l’arrivo nella Repubblica Democratica del Congo (nelle località di Zongo, Libenge e Gbadolite), nel Camerun (a nord nelle località di Mbaimboum e Touboro e nella regione orientale di Lolo) e nel Ciad (nei pressi della località di Bozoum) dei centrafricani in fuga dal quartiere fantasma PK12 (Point Kilométrique 12).

La Repubblica Centrafricana è scivolata prima nel caos, poi nella pulizia etnica dei musulmani. Il genocidio è stato solo schivato, obbligando i civili di fede islamica a fuggire in massa, per mettersi in salvo oltre i confini del Paese.

A Bangui piove senza tregua per giorni. La sera c’è un serrato coprifuoco. Le amministrazioni non funzionano più, banche e stazioni di rifornimento aprono solo un paio d’ore di mattina presto, le scuole sono chiuse. Nelle panchine seminate sulle strade e vicino le università non siedono più studenti che aspettano gli autobus ma giovani soldati che imbracciano kalashnikov.

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Valeva la pena spendere due parole in più sulle responsabilità Francesi nella faccenda, ma trattandosi di una schematica cronaca, la "dimenticanza" ci può stare.

Libano - I lavoratori scendono in piazza


Decine di migliaia di impiegati del settore pubblico e insegnanti di scuola hanno manifestato stamane nelle strade di Beirut chiedendo al Parlamento di approvare una legge che aumenti i salari. La manifestazione in corso è una delle più grandi proteste di lavoratori avvenute negli ultimi anni nel Paese dei cedri. Lo striscione di apertura del corteo recitava: “Sì all’emendamento dei salari... grazie ai profitti delle banche e del settore immobiliare, la lotta al contrabbando, e alle tasse sulle strutture costiere”.

Il Comitato di Coordinamento dell’Unione (UCC) – una coalizione di associazioni e scuole del settore pubblico – ha chiesto alle scuole pubbliche e private e agli uffici governativi di osservare una giornata di sciopero per protestare contro i bassi salari che i lavoratori percepiscono.

L’UCC chiede al Parlamento libanese di approvare una legge che aumenti gli stipendi del 121% senza però che questo rialzo dei salari comporti contemporaneamente un aumento di tasse sui beni di prima necessità. Finora i parlamentari non sono riusciti a far passare la legge a causa delle profonde differenze tra i vari partiti. Il motivo principale della discordia è dove reperire i fondi necessari a finanziare questa legge il cui costo è stimato in un 1.6 miliardi di dollari. Alcuni politici libanesi hanno suggerito di aumentare l’IVA, proposta inaccettabile per altri perché andrebbe a pesare soprattutto sulle classi più svantaggiate.

Su questo punto è molto chiaro Mahmoud Haidar, capo dell’associazione dei lavoratori del settore pubblico che rientra nell’UCC. In una conferenza stampa convocata ieri, Haidar ha dichiarato: “non accetteremo di lottare per i nostri diritti a scapito dei poveri”. La soluzione per Haidar è semplice: “i fondi si devono trovare imponendo tasse alle strutture costiere e ai profitti bancari e immobiliari”.

Il corteo di lavoratori si è mosso alle 11 locali presso la Banca Centrale del Libano ed è sfilato vicino alla Camera del Commercio e dell’Industria sciogliendosi in piazza Riad al-Solh (nei pressi del Parlamento). La scelta degli organizzatori di attraversare le zone più ricche della capitale libanese non è stata casuale: l’obiettivo è stato quello di fare pressioni sulle classi agiate del Paese affinché contribuiscano alla proposta di aumento salariale.

Oggetto della rabbia dei manifestanti è stato soprattutto Riad Salameh, il governatore della Banca Centrale del Libano. Salameh ha più volte ribadito che l’aumento dei salari causerà inflazione e aggraverà il deficit statale “a livelli allarmanti”. Secondo il governatore, gli aumenti andrebbero pagati in un periodo di cinque anni così da non pesare sul Tesoro. Ma l’UCC si oppone fortemente a qualunque aumento spalmato nel corso degli anni.

Molti settori libanesi hanno espresso solidarietà alla proposta dell’UCC. L’associazione dei trasporti aerei ha annunciato che l’aeroporto internazionale di Beirut non sarà operativo dalle 11 alle 13 di domani. Gli insegnanti delle scuole pubbliche e private hanno minacciato di non correggere gli esami finali se non passerà la proposta di legge. Ad unirsi allo sciopero di oggi anche i lavoratori della fabbrica di cementi Holcim.

Le proteste dovrebbero continuare anche domani. Accanto ai lavoratori aeroportuali anche la Confederazione Generale del Lavoro (GLC) ha dichiarato che continuerà a manifestare mercoledì mattina. Il capo del Ghassan Ghosn ha detto ai giornalisti che il governo e i parlamentari sono obbligati ad ascoltare le istanze dei lavoratori pubblici.

Tuttavia secondo gli osservatori e gli analisti locali la proposta salariale dell’UCC sarà snobbata a livello istituzionale almeno momentaneamente. L’attenzione di molti politici e parlamentari è ora posta sull’imminente elezione presidenziale.

Obama dalle Filippine stringe l’assedio attorno a Pechino


Tra ampie misure di sicurezza e preceduto dalla firma di un importante accordo di natura militare, il presidente degli Stati Uniti è arrivato ieri nelle Filippine per l’ultima tappa del suo viaggio di otto giorni in Asia, iniziato in Giappone e proseguito poi in Corea del Sud e in Malesia. A vigilare sulla presenza dell’inquilino della Casa Bianca i corpi speciali dell’esercito e un vero e proprio stato d’assedio, con il divieto assoluto di manifestare di cui hanno fatto le spese alcune centinaia di dimostranti di sinistra e antimilitaristi che sono stati letteralmente spazzati via dalla polizia.

Ad accogliere Obama la firma di un importante Accordo esteso di cooperazione per la difesa; il segretario alla Difesa di Manila, Voltaire Gazmin, e l’ambasciatore Usa Philip Goldberg hanno siglato un trattato che concede alle truppe di Washington, navi e aerei compresi, l’accesso nelle basi militari filippine. Formalmente Manila non concede agli Stati Uniti la possibilità di aprire proprie basi militari nel suo territorio, e l'Enhanced Defence Cooperation Agreement ha una durata di ‘soli’ dieci anni. La Costituzione filippina proibisce la presenza permanente di militari stranieri sul suo territorio e per questo si è utilizzata la formula della "presenza a rotazione" per indicare la temporaneità di un ritorno dei militari Usa nel paese.

Ma si tratta comunque di un risultato molto importante per le mire statunitensi in Estremo Oriente, dopo che tra il 1991 e il 1992, sull’onda di un referendum popolare, il governo filippino aveva chiuso le numerose basi militari di Washington nell’arcipelago ex colonia statunitense.

Un nuovo fondamentale passo all’interno della strategia statunitense di militarizzazione del Pacifico e di accerchiamento della Cina che sfrutta i timori di Manila per la crescente pressione cinese su aree esterne dell’arcipelago che Pechino rivendica. Le Filippine da tempo cercano sostegno internazionale per le loro dispute territoriali con i cinesi, che riguardano in particolare le isole Spratly e lo Scarborough Shoal.

Con un’ipocrisia che abbiamo imparato a conoscere, Obama ha più volte ribadito che nessuna grande nazione dovrebbe approfittare di quelle più piccole. “Le dispute devono essere risolte pacificamente, senza intimidazioni o pressioni – aveva detto Obama in Malesia -. Tutte le nazioni devono rispettare le regole e le norme internazionali”. Un messaggio rivolto non solo a Pechino, ma anche alla più lontana Mosca riguardo alla situazione ucraina.

Obama, del resto, qualche giorno fa a Tokio ha esplicitamente evocato uno scenario di guerra, affermando che siccome le isolette disabitate controllate dal Giappone ma rivendicate dalla Cina – le Senkaku/Diaoyu - cadono sotto il trattato bilaterale di alleanza difensiva, se la Cina dovesse attaccare Tokio le forze armate degli Stati Uniti interverranno a difesa di quelle nipponiche. E non si tratta certo solo di una diatriba simbolica. Negli ultimi due anni il fazzoletto di mare conteso è stato presidiato e pattugliato da navi della guardia costiera di Tokio e Pechino e anche i cieli sovrastanti sono continuamente attraversati dai velivoli militari dei due contendenti. A novembre poi la tensione è ulteriormente salita quando il governo cinese ha stabilito una zona di identificazione sullo spazio aereo sopra il tratto di mare conteso. Il governo nazionalista giapponese inoltre ha dato via libera al riarmo del paese, al rafforzamento militare del suo esercito e per la prima volta negli ultimi decenni ha dato il via alla realizzazione di una base radar sull’isola di Yonaguni, a 150 chilometri delle isole Senkaku/Diaoyu, contando sull’appoggio di Washington e sull’ombrello militare statunitense nell’area.

Ma al nazionalista Abe, che ha rinsaldato l’alleanza militare con Washington ma si è rifiutato di firmare un trattato di libero scambio di fondamentale importanza per gli Stati Uniti, Obama è andato a dire che deve smetterla di provocare inutilmente gli altri alleati nella regione. Ad esempio con i discorsi negazionisti sui crimini nipponici che oltre a far arrabbiare i nemici cinesi offendono e inquietano anche gli amici di Seul. L’aggressività di Abe rappresenta un problema non da poco per Washington; basti pensare che la presidente della Corea del Sud, Park Gyun Hye, da quando è stata eletta due anni fa, si rifiuta di parlare anche solo al telefono con Abe e i suoi ministri. E non è un caso che Obama ha deplorato le continue visite del premier giapponese al sacrario di Yasukuni, dove sono sepolti numerosi criminali di guerra giapponesi, ed ha definito la vicenda delle “donne di conforto” – migliaia di donne deportate e costrette a prostituirsi al fronte a beneficio delle truppe del Sol Levante – uno dei più crudeli crimini commessi durante il Secondo Conflitto Mondiale.

Le inimicizie tra i suoi alleati, oltre alle pretese egemoniche di Tokio, rappresentano un ostacolo non indifferente al progetto di un accordo di libero scambio che coinvolga tutti i Paesi che si affacciano sul bacino del Pacifico (Trans-Pacific Partnership, Tpp) e che darebbe un’enorme boccata d’ossigeno alle multinazionali USA in un ampio territorio dove ormai a farla da padrone sono le aziende giapponesi da un lato e quelle cinesi dall’altro. Un accordo di libero scambio costituirebbe un’opportunità senza precedenti non solo per le industrie automobilistiche e tecnologiche di Washington, ma anche per le multinazionali dell’agro-alimentare, soprattutto in Giappone, dove l’import di prodotti alimentari è sottoposto a un regime fiscale sfavorevole per garantire ai produttori locali una quota di mercato più ampia. Ma finora il nazionalista Abe ha detto no e anche la presidente sudcoreana non sembra particolarmente entusiasta dell’apertura del suo mercato interno ai prodotti e alle merci americane.

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F-35: volano i costi Promesse e inganni a colpi di polemica


Renzi starebbe lavorando alla riduzione degli F35: da 90 a 45. Forse Sì, ma quest’anno No. Il Presidente Napolitano e la lotta partigiana: “non c’era spazio per un’aspirazione inerme alla pace”. La ministra Pinotti rinvia e Gino Strada ricorda i 9 milioni di italiani senza soldi per le cure.


Massima confusione per minima chiarezza. Potrebbe essere questa la formula per calcolare la verità attorno al pasticcio dei caccia bombardieri F35. Ha provato a capirci qualcosa il bravo Massimo Lauria che sul sito di Repubblica-RSera e su PopOff ha condotto una sua inchiesta. Prima lui sui fatti senza farci condizionare dalle opinioni. Sappiamo che è il programma militare più costoso della storia. Sappiamo che c’è poca chiarezza e trasparenza. Sul punto le citazioni si sprecano, con la stupore che non esisterebbero contratti scritti su quanti aerei dovremmo acquistare, che esistono contratti per lotti separati sui quali è posto il segreto. Strano, davvero strano quel presunto segreto.

Pacifisti schierati, aviatori preoccupati. Per le stesse relazioni tecniche americane l’F35 è un aereo con diversi difetti di progettazione. E costi da missione spaziale: stratosferici. Il governo annuncia di cancellare 153 milioni di euro dal programma della Lockheed Martin. Applausi, salvo accorgersi della presa in giro. Si tratterebbe di rinunciare a un F35 e qualche bullone in più, visto che il costo di un singolo caccia si aggira intorno ai 140 milioni di euro. Stando ai dati del Dipartimento di Stato americano, ancora oggi non è possibile stabilire il costo esatto di quei velivoli. Massimo Lauria scrive di 14-15 miliardi di euro. Senza i costi di gestione per aereo, con circa 50 miliardi nel futuro.


In ballo c’è anche la revisione complessiva della nostra Difesa su cui si attende l’ormai leggendario Libro della ministro Roberta Pinotti. Stabilire le nuove linee strategiche della parte militare per sapere che aerei ti servono. Al momento l’operazione pare muoversi all’incontrario: stiamo per comprare delle Ferrari in fase di collaudo senza sapere ancora se l’Italia ha deciso di partecipare ai Gran Premi di Formula 1, o alla marcia longa, a piedi. Dubbi anche in casa Pd. Il gruppo Dem in commissione Difesa alla Camera, come voterà sull’indagine conoscitiva del Parlamento sui sistemi d’arma. Dal ministero Difesa si punta a rinviare a fine anno, in attesa della rivelazione Libro bianco.

Più delicata per ruolo la posizione espressa dal Presidente Napolitano, con cenni polemici in andata e di ritorno. Occasione 25 aprile, la Resistenza, che fu “una mobilitazione armata” perché “non c’era spazio per un’aspirazione inerme alla pace; l’alternativa era tra un’equivoca passività e una scelta”. Napolitano non ama quelle che definisce “nuove pulsioni antimilitariste” e da esse non è amato. Insiste sui processi di integrazione militare a livello europeo. Il Quirinale non esclude, pare di capire, la necessità di tagli, ma sulla base di un progetto. Torno il Libro Bianco ed esce fuori “la spesa produttiva”. Non tagliare qualsiasi cosa a prescindere, conferma la ministro Roberta Pinotti.


Un’impostazione che non coincide esattamente con quella pensata dal gruppo Pd in Commissione Difesa alla Camera, con un documento molto deciso sui tagli agli stanziamenti per F-35 e altri programmi militari. I deputati Pd si riuniscono il 6 maggio per preparare il voto in commissione, previsto il 7 maggio. Ora al sottosegretario Delrio la ricerca di una mediazione tra i piani del governo e quelli del Parlamento. Governo sollecitato da Obama a sostenere la Difesa. Il Parlamento vuole voce in capitolo sulle spese militari, grazie a una modifica alla legge sulla Difesa che dà al Parlamento la facoltà di bloccare, ridimensionare o sostenere un programma sui sistemi d’arma.

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29/04/2014

La pesante aria di Roma

Nella Capitale tira aria pesante. Contro le occupazioni di case e gli spazi sociali occupati, ormai da mesi è in corso una offensiva a tutto campo. Da un lato magistratura e organi di polizia stanno procedendo con decine di provvedimenti giudiziari, dall’altra gli uffici tecnici delle varie amministrazioni stanno producendo ingiunzioni di pagamento, ordinanze di chiusure e provvedimenti restrittivi per le attività sociali, ricreative, di funzionamento e di autofinanziamento degli spazi sociali.

Sospinti da una martellante campagna stampa dei due giornali locali legati ai palazzinari, rispettivamente il Messaggero per Caltagirone e il Tempo per Bonifaci, la Procura della Repubblica di Roma e la Prefettura hanno dichiarato guerra agli spazi e alle abitazioni occupate.

Il Tempo ha curato un vero e proprio “dossier” delle occupazioni selezionandole tra “politiche” e sociali. Lo stesso quotidiano riferisce che ci sono circa 60 inchieste giudiziarie sulle occupazioni, da quelle “tradizionali” per furto di energia elettrica a quelle più pesanti per “associazione a delinquere a fini di estorsione”. Sulle occupazioni incombono gli sgomberi, che, alla luce di quanto accaduto alla Montagnola o allo studentato occupato "Godot", non lesinano affatto le maniere forti da parte della polizia.

L’inchiesta balzata agli onori delle cronache, quella condotta dal Pm Tescaroli, ha tirato dentro anche la”politica” e il Comune di Roma. E qui la vicenda si sta facendo più pesante per le conseguenze politiche oltre che giudiziarie.

I gruppi consiliari della destra e i quotidiani legati ai costruttori sono partiti alla carica contro l’attuale vicesindaco di Roma, Luigi Nieri, accusato di aver fatto quello che un qualsiasi amministratore dovrebbe fare per cercare soluzioni di fronte alle emergenze sociali che si presentano in un’area metropolitana come Roma.

Nieri (Sel) tra l’altro, viene dalla storia dei movimenti sociali a Roma, in particolare dalla lotta per la casa e quelle territoriali. Una storia politica e una sensibilità che lo hanno portato ad essere intercettato dalla magistratura mentre discute per telefono le possibili soluzioni dopo gli sgomberi coordinati di due occupazioni di case (Centocelle e Tuscolana) e dello spazio sociale “Angelo Mai”.

Il segnale inviato è chiaro e pesante. La “politica” deve farsi da parte e rinunciare al suo ruolo di mediazione tra le contraddizioni sociali e i diritti di proprietà (privati o pubblici che siano). A gestire la situazione devono rimanere solo i “tecnici” (in questo caso magistrati e poliziotti) che procedono secondo i parametri di una “legalità” che però lascia la gente senza casa in mezzo alla strada, gli edifici vuoti a degradare, le scuole chiuse a marcire, i territori e la città senza risposte né vita sociale.

La linea dura scelta dalla Procura e dal Prefetto (entrati ripetutamente in contrasto con la giunta comunale proprio sulle soluzioni) sta procedendo come un bulldozer e invita esplicitamente la politica a ritirarsi nella sfera dell’amministrazione e della governance,  piuttosto che in quella della mediazione tra interessi diversi che è funzione propria della “politica”.

L’incombente attuazione del Decreto Salva Roma (rinominato da molti “Ammazza Roma”) rovescerà sulla vita e le esigenze sociali della capitale il medesimo spirito dei diktat che hanno messo in ginocchio la Grecia. Privatizzazioni dei servizi municipali, dismissioni, svendita ai privati del patrimonio pubblico, “messa a profitto” di ogni attività civile e sociale nella città.

Gli speculatori e i palazzinari, i fondi di investimento stranieri e la grande distribuzione gongolano. Loro “sanno come mettere a valore una città”, i suoi spazi, i suoi flussi di vita e relazioni sociali, ridisegnando completamente la mappa geografica, urbanistica e sociale di un’area metropolitana che non conta solo sui più di tre milioni di residenti ma anche – e soprattutto – sugli undici milioni di turisti/consumatori che ogni anno piovono su Roma.

E’ dentro questa destrutturazione/ristrutturazione dell’area metropolitana di Roma che, a fianco dei blitz, degli sgomberi e delle denunce contro i movimenti sociali, si sta realizzando una normalizzazione dall’alto anche della sua vita sociale. Come? Ad esempio mettendo in ginocchio le attività autogestite esistenti.

Lo storico Centro di Cultura Popolare del Tufello, uno scantinato occupato in un quartiere popolare fin dagli anni Settanta che si è visto arrivare una richiesta di pagamenti arretrati per 240mila euro. Lo Scup a San Giovanni è sotto sfratto da parte di una società legata alla Lega delle Cooperative. In queste settimane è toccato all’Osteria del centro sociale Corto Circuito che si è vista mettere i sigilli perché non ha i permessi di somministrazione di alimenti e bevande, poi ad un altro spazio sociale storico, quello della Casa della Pace di Testaccio (attiva fin dal 1984 all’ex Mattatoio) che ha visto piovere uno dietro l’altro ingiunzioni e sospensioni delle attività ricreative (in particolare gli spettacoli) da parte della Questura e del Comune.

Un’aria pesante quella che si sta respirando a Roma. Un’aria del tutto conseguente a quella che si respira in Italia e nell’Europa dominata dai diktat dell’Unione Europea. Gli interessi popolari dovrebbero rassegnarsi alla subalternità e la politica rinunciare alla sua funzione per lasciare il campo solo alla governance dei tecnici, i quali non devono in alcun modo rispondere alle domande o al consenso sociale, in tutti i sensi.

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Sanzioni contro la Russia, contrasti tra Stati Uniti e Ue

Alla fine le annunciate nuove sanzioni per punire Mosca a causa della sua reazione al colpo di stato filoccidentale a Kiev sono arrivate. Ieri il governo di Washington ha annunciato di aver inserito nella lista nera sette funzionari russi, tra i quali il numero uno del colosso energetico Rosneft, Igor Sechin, e ben 17 imprese legate alla cerchia del presidente russo Vladmir Putin.

Tra quelle sanzionate ci sono la banca Rossiya, le società dell’oligarca Gennady Timchenko, uno dei proprietari di Gazprom, e quelle dei fratelli Arkady e Boris Rotenberg, uomini di fiducia del presidente russo e amici d'infanzia di Putin.

Oltre a Sechin, nella lista nera entrano il vice capo dell'amministrazione del Cremlino Vyacheslav Volodin e il vice primo ministro Dmitry Kozak. L’annuncio del nuovo inasprimento dei rapporti con Mosca è stato fatto da Manila, dove il presidente statunitense era in visita per aumentare il controllo statunitense in Estremo Oriente in funzione anticinese e, indirettamente, anche antirussa. Obama ha anche deciso un giro di vite nei controlli sulle esportazioni verso la Russia di materiali cosiddetti “dual use”, che cioè possono essere utilizzati anche per scopi militari e non solo civili.

Anche i 28 Paesi che fanno parte dell’Unione Europea hanno trovato un accordo per imporre sanzioni ad altri 15 soggetti tra russi e ucraini facendo salire a 48 il numero di individui interessati dalle sanzioni europee. "Altre 15 persone responsabili di azioni che minano o minacciano l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza saranno colpite con il divieto di ingresso e il congelamento dei loro beni nell'Unione europea", si legge nel comunicato diffuso da Bruxelles. Ma si tratta di sanzioni più soft, come restrizioni nella concessione dei visti o il congelamento dei beni.
Provvedimenti simili sono stati adottati anche dal Canada nei confronti di due banche e di nove personalità russe.

Apparentemente il fronte occidentale sembra compatto nell’escalation contro Mosca e contro alcuni esponenti della comunità russofona dell’Ucraina. Ma secondo molti analisti, e anche secondo il New York Times, in realtà Stati Uniti e Unione europea sarebbero in serio disaccordo sulle sanzioni e sul comportamento da tenere nei confronti di Mosca.

"Finora Obama ha scelto di restare vicino agli europei per mantenere un fronte indiviso - si leggeva ieri sul Nyt - anche a scapito di sanzioni più punitive e risposte più rapide alle provocazioni del Cremlino. Ma alcuni dentro e fuori l'amministrazione Obama sostengono che gli Stati Uniti dovrebbero agire unilateralmente, se necessario, secondo il presupposto che gli europei seguiranno". Insomma Washington starebbe accelerando e inasprendo l’escalation commerciale e militare contro la Russia nel tentativo di condizionare le autorità dell’Unione Europea che non sono contrarie ad un aumento delle sanzioni, ma che vorrebbero seguire una linea più soft e graduale per non interrompere del tutto i rapporti con Mosca. E la differenza di approccio si è vista nel numero e nell’entità delle misure annunciate nelle ultime ore da Washington e da Bruxelles.
Anche perché molte aziende europee stanno cercando di minimizzare l’effetto delle sanzioni contro la Russia. D’altronde, scrive il New York Times, le banche e le aziende europee sono molto più esposte all'economia russa di quelle statunitensi. I dati parlano da soli: gli scambi commerciali fra l'Unione Europea e la Russia nel 2012 erano pari a 370 miliardi di dollari, mentre quelli fra Washington e Russia ammontavano a soli 26 miliardi di dollari.
Secondo il quotidiano statunitense le importanti relazioni commerciali spingono le aziende europee a tentare di frenare le sanzioni e di bypassarle, «rendendo così difficile per i leader americani ed europei arrivare a un pacchetto di misure che possa influenzare il comportamento di Mosca in Ucraina». Dall'annessione della Crimea da parte della Russia, le compagnie energetiche, gli esportatori, i maggiori utilizzatori di gas naturale russo e gli investitori con quote in aziende russe hanno invitato alla cautela perché, a loro avviso, le «sanzioni non colpiscono solo la Russia ma anche l'Europa nel suo intero».

Secondo gli analisti economici Mosca e i suoi alleati nel settore privato stanno conducendo una campagna separata per assicurarsi che le relazioni di lunga data esistenti con aziende europee siano mantenute anche nel caso in cui il Cremlino ordinasse una azione militare nelle regioni orientali dell’Ucraina.
All’ultima tornata di sanzioni il governo russo ha reagito preannunciando una «risposta dolorosa» ma in realtà ha puntato a sminuire l’effetto delle nuove misure punitive. Il numero uno di Rosneft, Sechin, ha ad esempio assicurato che le sanzioni «non danneggeranno le collaborazioni con i nostri partner stranieri». «Prendo gli ultimi passi di Washington - ha detto - come un apprezzamento per l’efficienza del nostro lavoro. Allo stesso tempo assicuriamo i nostri azionisti e i nostri partner, inclusi quelli americani, che questa efficienza non calerà e la nostra cooperazione non ne risentirà».
La multinazionale petrolifera Bp ha d’altronde già fatto sapere che ignorerà le sanzioni imposte a Sechin. Il colosso petrolifero britannico ha affermato che non bloccherà gli affari in corso con i russi e ha confermato i suoi investimenti in Rosneft, di cui possiede circa il 20% del capitale.
Di fatto, secondo alcuni analisti europei e russi, le sanzioni statunitensi contro Mosca in realtà tenderebbero a penalizzare le multinazionali e le aziende dei paesi dell'Unione Europea, cercando di condizionarne l'espansione a vantaggio delle concorrenti statunitensi.

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E' sempre più evidente che l'UE abbia fatto il passo più lungo della gamba complici un rinnovato avventurismo ma anche una sostanziale incapacità a delineare chiari obiettivi, anche di breve periodo, nel proprio scacchiere d'interessi.
In ottica banalmente analitica, almeno dai tedeschi ci si poteva aspettare qualcosina di più. Fino ad ora, invece, si è vista una scadente riedizione, giusto un po' più garbata, del consueto pessimo modo di muoversi americano.

Ultima colata alla Lucchini: la parola ai lavoratori

Si sta concludendo, in questi giorni, e probabilmente per sempre, l’attività delle acciaierie di piombino, uno storico stabilimento le cui origini possono essere fatte risalire alla fine dell’800 con la costruzione dei primi impianti per la produzione dell’acciaio e, per dimensioni, il secondo polo siderurgico italiano.

La chiusura di questo stabilimento fa registrare la perdita di un altro pezzo del comparto produttivo del paese, mostrando ancora una volta l’incapacità di fare industria nella competizione globale dei capitalisti italiani che, incapaci di reggere la concorrenza della siderurgia Cinese e Tedesca (in un circolo vizioso di sfruttamento in cui  gli operai sono spesso messi di fronte alla scelta tra un peggioramento delle condizioni di lavoro e la perdita del lavoro stesso con la chiusura delle fabbriche) si limitano a spremere quel che rimane delle aziende del paese con la complicità della politica e dei governanti; andando solamente ad ingrossare le bolle finanziarie come quella che poi è scoppiata nel 2008 e quella che sta gonfiando attualmente.

Mentre il capitale fa i suoi giochi di prestigio che fanno fiorire la ricchezza dal nulla, ma anche dallo smantellamento delle fabbriche e dalla distruzione di posti di lavoro, gli operai lavorano in condizioni sempre più disastrose e vivono nell’incertezza sul proprio futuro.

Intervista ad un operaio addetto al treno rotaie nello stabilimento siderurgico.

Come si lavorava alla Lucchini?

Era un posto di lavoro molto tranquillo, mai in vita mia ho lavorato in un luogo dove potevo permettermi di guardare film, giocare e fare le grigliate coi colleghi durante i turni. Da un certo punto di vista era fantastico, un ambiente conviviale e divertente, con i classici personaggi assurdi del mondo operaio su cui fiorivano leggende e scherzi tra colleghi, nel complesso molto umano e non alienante. Dal punto di vista produttivo era però uno sfacelo, c’erano sprechi in ogni cosa: lavoratori senza alcuna formazione spesso impiegati in mansioni inutili, capireparto raccomandati e nullafacenti, mezzi di lavoro obsoleti o di pessima qualità. Ogni cosa non strettamente inerente alla produzione siderurgica veniva appaltata a ditte esterne con enorme spreco di denaro: per farti un esempio, se bisognava spostare qualcosa da una parte all’altra dello stabilimento bisognava chiamare una ditta appaltatrice in quanto i camion dell’azienda o non erano funzionanti o non venivano utilizzati.

Raccontami un po’ la vicenda che ha portato alla chiusura.

Tutto secondo me è cominciato con l’acquisto della fabbrica nel 2005 da parte dei russi della Severstal, uno dei più grandi gruppi mondiali dell’acciaio, capitanato dall’oligarca Aleksej Mordašov. A quei tempi la crisi economica non era ancora scoppiata e l’acciaio vendeva bene, i russi hanno spremuta l’azienda fino in fondo, facendo produrre il massimo possibile e spendendo il minimo. Fino a quando, nel 2011, con l’avanzare della crisi e la necessità sempre più pressante di fare sostanziosi investimenti per continuare la produzione, se ne sono elegantemente sfilati lasciando la fabbrica con un debito di 700 milioni di euro.

Ora la Lucchini è in mano alle banche creditrici che l’hanno affidata in amministrazione straordinaria al commissario Piero Nardi con il compito di “sistemare” l’azienda, in modo da renderla appetibile per un compratore. Il compito è però molto difficile a causa della situazione ormai degradata dell’azienda ma comunque mi sembra che manchi anche la volontà di portarlo a termine. In questi anni di amministrazione straordinaria la Lucchini è andata sempre più in sfacelo, i suoi conti sono peggiorati e la produzione è diventata sempre più scadente, tanto che, qualche tempo fa, abbiamo inviato una nave di rotaie in Turchia che è stata rispedita al mittente in quanto i pezzi erano tutti difettati o comunque di pessima qualità.

Insomma in queste condizioni sarà molto difficile trovare il tanto sospirato acquirente che rilevi l’azienda mantenendo la produzione e i posti di lavoro.

Impossibile, nonostante l’accordo statale degli ultimi giorni e la farsa dell’altoforno acceso in bianco (cioè che brucia solo carbone coke senza metallo perché è finito, non ne hanno più) fino al 30 Maggio, giorno di chiusura della presentazione delle offerte vincolanti. Infatti i 250 milioni messi a disposizione da stato e regione nella speranza che aiutino a indorare la pillola per un investitore non sono niente: sono solo una goccia nel mare di investimenti che andrebbero fatti per fare un serio piano industriale. Quell’altoforno che stanno tenendo acceso è finito, è da rifare completamente da nuovo e la gran parte degli altri impianti è da sistemare o ammodernare.

In queste condizioni gli unici acquirenti possibili sono quelli interessati ai pochi comparti dell’azienda ancora produttivi come i laminatoi o, al massimo, al proseguimento della produzione su scala più ridotta con l’impianto di un forno elettrico come nella proposta della ditta indiana Jsw. L’unico a fare una proposta di acquisto di tutta l’azienda, senza esuberi e mantenimento di tutta l’area a caldo, è stato l’arabo ma fin da subito mi era sembrato un gambler.

Chi è l’arabo? In che senso un gambler ?

Un truffatore, un personaggio losco. Ti racconto tutta la storia che secondo me è meravigliosa. Praticamente il sindaco di piombino Gianni Anselmi avrebbe contattato un ex caporeparto della Lucchini, Renzo Capperucci, che, dopo aver lavorato in giro per il mondo come set manager e consulente nella costruzione di impianti siderurgici, adesso è in pensione a Piombino. Il Capperucci, cresciuto nell’azienda ma ormai con contatti in tutto il mondo, ha a cuore le sorti dello stabilimento e convince un magnate giordano – che, a suo dire, non ha mai investito nell’acciaio ma è innamorato della Toscana – che la Lucchini è un affarone. Il manager della società Msc, Khaled al Habahneh, ha promesso mari e monti: acquisto di tutta l’area industriale con un piano di rimodernamento degli impianti, spostamento di parti della lavorazione e bonifica dell’area della fabbrica più interna alla città con costruzione di un albergo di lusso, un centro congressi e delle villette. Un lavoro colossale con una spesa di tre miliardi di euro.

Quando è venuto fuori che l’arabo faceva solo promesse senza poi impegnarsi realmente e la società Msc del capitale dichiarato di tre miliardi ne aveva in realtà solo mezzo sono incominciati a nascere dubbi. L’arabo pensava di poter chiudere l’affare in fretta, senza essersi reso conto, inizialmente, di essere nel mezzo di una gara di acquisto, probabilmente nella speranza di riuscire ad intascare qualche centinaio di milioni messi a disposizione dalla comunità europea e dallo stato italiano per poi sparire col malloppo. Qualche indagine sul suo passato in cui si è scoperto che si è fatto tre anni di galera per truffa e commercio di metanfetamine negli USA tra il 2001 e il 2004 ha evidenziato che Khaled è un uomo dai pochi scrupoli e di non specchiata onestà. Gli organi di informazione della destra sono ovviamente andati a nozze con la vicenda dell’amministrazione locale Pd che si fa fregare da un avventuriero finanziario mediorientale.

Prima parlavi di un aggravamento della situazione della fabbrica nel periodo di amministrazione speciale, quali interessi, secondo te, hanno portato a questo?

In fabbrica gira voce che il commissario speciale Paolo Nardi, già amministratore delegato della fabbrica nel periodo parastatale, sia un uomo legato alla lobby italiana dell’acciaio, cioè i gruppi siderurgici del Nord Italia come Duferco, Feralpi e Marcegaglia con cui ha collaborato durante la sua carriera. Questi punterebbero alla definitiva morte dell’industria piombinese in modo da poterne acquistare per un tozzo di pane i bocconi migliori e prenderne il posto sul sempre più stretto mercato dell’acciaio.

Qual’è stato il ruolo dei sindacati?

In fabbrica sono presenti tutti e tre i sindacati confederali CGIL,CISL e UIL con le rispettive divisioni metalmeccanici, si sono mossi in modo unitario e coordinato, ma troppo tardi, solo adesso si sono davvero mobilitati, coi riflettori puntati sulla fabbrica per assistere allo show della sua morte. Raccogliendo qualche briciola per gli operai in modo da garantirgli un più morbido atterraggio nel mondo della disoccupazione, ma soprattutto garantirsi visibilità televisiva e notorietà pubblica. Le richieste di mantenimento della produzione e dei posti di lavoro sono ad oggi irrealizzabili, quando, ancora pochi anni fa esistevano le possibilità e i soldi non hanno mai alzato la testa per costringere i padroni a fare un vero piano industriale che garantisse un futuro alla fabbrica. I sindacati si sino resi  in tal modo complici del protrarsi della situazione di speculazione da parte dei capitalisti e di continua incertezza sul proprio futuro per gli operai che ormai va avanti da anni.

L’ultima splendida iniziativa da parte della CGIL è stato l’appello al Papa da parte degli operai, la cui risposta è stata tanto apprezzata dal presidente della regione Enrico Rossi, sembra più che altro un affidare la soluzione del problema alla divina provvidenza.

Ci sono state iniziative autonome da parte degli operai?

Praticamente nessuna. Una delle poche è stato lo sciopero della fame nei giorni di Pasqua e Pasquetta eseguito sugli scalini dello stabilimento dall’operaio Paolo Francini. Tra noi colleghi il gesto individualista non è stato molto apprezzato; come del resto non è molto apprezzato il personaggio che, consigliere comunale Sel a Castagneto Carducci, cavalca l’onda di interesse per le vicende legate alla chiusura delle acciaierie per portare avanti la propria carriera politica. La Lucchini è diventata la tribuna elettorale (le elezioni europee sono alle porte) e il palcoscenico di tutti, da Beppe Grillo a Renzi, dal Papa ai sindacati.

Manca, tra gli operai, una coscienza sindacale, per non parlare di una coscienza politica o di classe. C’è stato un forte ricambio generazionale nell’acciaieria, quasi tutta la vecchia guardia di operai che aveva vissuto il periodo delle lotte e rivendicazioni sindacali è andata in pensione, sostituita da giovanotti senz’arte né parte, immigrati meridionali e disperati di vario genere, perché nessuno vuole più lavorare alla Lucchini. Nessuno che ne ha appena la possibilità vuole lavorare in questo stabilimento dove il lavoro è fatto male, i macchinari obsoleti e pericolosi nel loro utilizzo, le norme di sicurezza trascurate e il futuro ogni giorno più incerto.

Il 24 è stato firmato un accordo di programma per Piombino. Cosa prevede?

L’accordo mette a disposizione 250 milioni di euro provenienti dalla regione e dallo stato, fondi che verranno impiegati per la bonifica del territorio, l’ampliamento del porto dove saranno dismesse le navi della difesa e il rifacimento della bretella che collega il porto di Piombino alla superstrada Aurelia. Tutti lavori di contorno che non vanno a toccare la questione dello stabilimento siderurgico che, in mancanza di un investitore privato chiuderà definitivamente e le promesse di Rossi di riattivazione dell’impianto entro due o tre anni saranno parole al vento.

Per gli operai della Lucchini sarà garantito un lavoro in queste opere di bonifica con contratti di solidarietà, posticipandone ancora per un po’ la disoccupazione, mentre per i quasi 2000 lavoratori dell’indotto ci sarà solo la cassa integrazione.

Come te la vivi l’imminente fine della fabbrica preannunciata dall’ultima colata di acciaio fuso?

Male. Ormai da anni ci troviamo in una situazione di precarietà insostenibile e snervante, il nostro posto di lavoro in preda alle imponderabili vicende del libero mercato, non sai fino a quando avrai un lavoro, non sai se ti pagheranno il tfr (giacché parte di quei soldi li hanno utilizzati per far andare avanti l’azienda negli ultimi tempi) e non puoi fare progetti sul tuo futuro.

Ogni tanto al lavoro dico ai colleghi: “Non sentite una sensazione strana, come di essere su una barca alla deriva?”, ma molti sembrano non capire tanto sono assuefatti allo stato di cose. La cosa paradossale è che mentre la barca sta andando a sbattere sugli scogli tutti fanno finta di niente, i capi pretendono di far andare avanti la produzione e mantenere gli stessi ritmi lavorativi facendo fare agli operai anche lavori completamente inutili.

Mi sento in una situazione irreale, assurda. Ormai spero che quest’agonia finisca presto per poter andare a fare il pizzaiolo.

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Sembra di rivedere una storia già vissuta qualche anno prima e qualche chilometro più a nord, a Genova, dove (forse) è finita soltanto parzialmente meglio, fermo restando la desertificazione industriale di quello che un tempo fu vertice di spicco della produttività industriale nazionale.

Rivolta antinucleare a Taiwan, governo blocca quarta centrale


E’ stata una vera e propria rivolta antinucleare quella che ha attraversato nei giorni scorsi le città di Taiwan, in particolare la capitale Taipei.

E, cosa che non succede spesso, la protesta ha sortito alcuni effetti, visto che dopo la manifestazione di decine di migliaia di persone che domenica hanno sfilato nel centro della capitale il governo taiwanese ha deciso di bloccare la costruzione del quarto impianto nucleare dell’isola. D’altronde un enorme corteo – circa 130 mila partecipanti contrari alla costruzione di nuovi impianti atomici – aveva già sfilato a marzo sempre a Taipei.


In una situazione di forte tensione, dopo un sit-in nella notte di sabato e un nuovo raduno nella mattinata davanti al palazzo presidenziale, i dimostranti hanno rotto i cordoni della polizia e occupato Chung-shiao West Road, l’autostrada urbana a otto corsie, bloccando completamente il traffico urbano. "Se i cittadini oggi si lamentano del traffico, devono prendersela col presidente Ma Ying-Yeou" ha detto un'attivista alla stampa. Ma poi la polizia ha tentato di sloggiare con la forza centinaia di manifestanti che di notte continuavano il blocco del traffico e l'occupazione dell'autostrada urbana, e oltre ai manganelli contro i dimostranti sono stati usati anche gli idranti, ma senza grandi risultati. Molti i dimostranti feriti e quelli arrestati.

Alla fine la determinazione degli antinuclearisti ha costretto nella serata di domenica il governo e il partito di maggioranza Kuomintang (nazionalista) a un cambio di rotta rispetto alla centrale in costruzione nei sobborghi della capitale, conosciuta come ‘Nuke 4’.


Il portavoce del partito di governo, Fan Chiang Tai-chi, ha affermato che “d’ora in poi ogni iniziativa di utilizzo commerciale del nucleare, sarà decisa da un referendum”. Riguardo all’impianto contestato, Fan ha anche segnalato alla stampa che “saranno effettuati controlli di sicurezza e successivamente il reattore sarà chiuso e utilizzato come deposito e il secondo sarà invece sospeso”. La decisione di sospendere i lavori è stata presa durante un incontro "di emergenza" fra i 15 sindaci del Kuomintang, il governo centrale e alcuni giudici, convocati per fornire un parere sulla questione.

I leader dei manifestanti hanno annunciato nuove azioni di protesta anche oggi, in contemporanea con il dibattito parlamentare sull’impianto di Lungmen, il più controverso nella storia del nucleare civile del paese. Alcuni dimostranti antinuclearisti sono riusciti a penetrare all'interno dell'aula parlamentare e insieme ad alcuni deputati dell'opposizione sono riusciti ad interrompere la seduta.

Iniziata nel 1999 e con un costo finora di 10 miliardi di dollari, la centrale conosciuta come 'Nuke 4' ha visto fin dall’inizio l’opposizione degli ambientalisti e degli antinuclearisti locali, un’opposizione cresciuta negli ultimi due anni dopo il gravissimo incidente nella centrale giapponese di Fukushima.

Condizioni ambientali problematiche accomunano i due paesi e il timore che terremoti e tsunami possano provocare avarie ai reattori è molto alto. Tuttavia, le necessità energetiche hanno spinto i governi a perseguire un uso crescente dell’energia atomica. I tre reattori attualmente in funzione forniscono il 20% dell’elettricità utilizzata ai quali i due reattori di Lungmen avrebbero aggiunto un ulteriore 10%. Ma negli ultimi anni è stato forte anche l’incremento dell’energia ottenuta da fonti rinnovabili, soprattutto tramite l’eolico e il solare.

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Angry chair


Afghanistan al voto. I signori della guerra diventano ‘Warlord’


Il classico bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Dipende dai punti di vista. 7 milioni su 12 al voto, il 60% di chi ne aveva diritto. E’ un buon risultato o hanno vinto i Taleban che hanno combattuto le elezioni? Opinioni variabili ma la scelta che conta è quella prossima del Presidente e amici

L’attacco Taleban contro la pratica miscredente del voto e quella infernale della democrazia ha colpito il Paese nelle due settimane precedenti al voto. Stragi a Kunduz, Jalalabad, Maimana.

Inoltre nuclei di militanti hanno ucciso nell’Hotel Serena della capitale otto persone fra cui il giornalista afghano della France Press Sardar Ahmad e a Khost la giornalista tedesca dell’AP Anja Niedringhaus e ferito gravemente la sua collega Kathy Gannon portando a 32 il numero dei giornalisti uccisi nel Paese.

Comunque le elezioni - primo turno - ci sono state e stanno fornendo qualche indicazione non facile da tradurre nelle attenzioni occidentali. Questioni politiche ma soprattutto etniche.

Supporter del candidato alle presidenzaili Abdullah Abdullah
I dati indicano in testa Abdullah Abdullah, già Ministro degli Esteri, leader dell’Alleanza del Nord ed esponente del Jamat-e-Islami a prevalenza tajika, con il 44, 9% dei voti.

Abdullah ha indicato come eventuale suo vice il pashtun Mohammed Khan legato all’ala politica Hezb-e-Islami.

Con il 31,5% dei voti segue Ashraf Ghani Ahmadzai, già funzionario della Banca Mondiale e in Afghanistan Ministro delle Finanza e responsabile della transizione, il processo con cui la coalizione internazionale trasferisce la responsabilità militare agli afghani.

Ghani ha scelto come eventuale vice Presidente Abdul Rashid Dostum, noto ‘Signore della guerra’, leader della comunità uzbeka, fondatore del Partito Jumbesh-e-Milli, con un bacino elettorale stimato in 3 milioni di voti.

Con solo l’11,5% dei voti è Zalmai Rassoul, per 8 anni consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente uscente Hamid Karzai e dal 2010 al 2013 suo Ministro degli Esteri.

Al quarto posto con 7,1% si è piazzato il fondamentalista Abdul Rasul Sayyaf, noto per avere invitato nel Paese Osama bin Laden.

Il candidato Presidente Ashraf Ghani Ahmadzai
I candidati sostenuti dal presidente uscente Karzai, Ghani e Rassoul, sono al momento battuti da Abdullah, che fu già antagonista di Karzai nelle elezioni del 2009 e con il quale rifiutò il ballottaggio accusandolo di brogli.

Rimane comunque incerta la posizione di Abdullah per la sua etnia tajika che potrebbe alienargli molti voti della parte pashtun della popolazione che è maggioritaria.

Proprio per la sua etnia Abdullah non è accettato dal potente “Signore della guerra” o - come va di moda chiamarli ora - “Warlord” Gulbuddin Hekkmatyar, leader del partito radicale Hezb-e-Islami, che ha presentato un “candidato di disturbo”, ed è pronto a sostenere Ghani pur di non averlo come Presidente, posizione che da 200 anni è occupata dai pashtun.

Il “Warlord” e candidato vicepresidente Abdul Rashid Dostum
Chiunque uscirà vincitore dalla competizione presidenziale dovrà misurarsi con gli alleati americani e la NATO perché Karzai non ha firmato il Trattato bilaterale di sicurezza con gli USA da cui dipende la presenza dei soldati stranieri anche dopo la fine del 2014.

Sono contrari alla firma del Trattato sia i Taleban sia il “Warlord” Gulbuddin Hekkmatyar. Tutte gli altri candidati e formazioni politico-tribali si sono espressi a favore.

Il trattato prevede:

1) La permanenza per 10 anni di un contingente di 8-12 mila soldati;

2) La missione NATO di addestramento delle Forze Afghane Resolute Support, sulla quale anche l’Italia ha dato la disponibilità;

3) 4 miliardi di dollari all’anno per finanziare le Forze di Sicurezza afghane di 350 mila uomini;

4) 16 miliardi di dollari di aiuti civili fino al 2016 stabiliti dalla Conferenza di Tokyo del 2013.

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Grossi numeri in ballo...

Ucraina ad elastico. Nuove sanzioni Usa e gli arbitri sospetti


I ribelli rilasciano uno degli osservatori dell’Osce trattenuti, la Casa Bianca annuncia nuove sanzioni contro la Russia. Diplomazia della paranoia. L’Ue pedissequa segue Washington, Mosca si arrabbia, si arrabbiano i ribelli filorussi dell’est e guadagnano spazio a Kiev le formazioni Nazi

Già la scelta della parole rischia di schierarti. Gli osservatori dell’Osce trattenuti dai separatisti filorussi nella città di Sloviansk. Altri li stanno chiamando “ostaggi” e “prigionieri”. E non è semplice questione stilistica. Comunque, uno di loro, gli osservatori Osce, è stato rilasciato. Uno svedese. I ribelli filorussi insistono ad accusare il gruppo di osservatori di essere spie della Nato, ma la Svezia non fa parte dell’alleanza, dicono a Sloviansk per mantenere il punto e assieme dare un segno. Uno dei drammi in questa vicenda sono i troppi a lanciare segnali che spesso fanno a pugni tra di loro.

“Nuove sanzioni contro persone vicine a Putin”, alza il tiro la Casa Bianca. Le nuove sanzioni contro Mosca riguarderanno presto le persone più vicine al presidente russo Vladimir Putin. Ovviamente gli Stati Uniti attraverso il presidente Obama ora in Malesia chiedono all’Europa di fare squadra. Dalla Bruxelles pre elettorale, imbarazzati cenni di consenso obbligato. Accusa reiterata, la Russia non avrebbe rispettato l’accordo di Ginevra mentre, sempre secondo Washington e Kiev, ci sarebbero prove che Mosca stia incoraggiando attività destabilizzanti nell’est e nel sud dell’Ucraina.

Brandelli di vecchia Guerra fredda riesumati dal passato o nuove tentazioni? Non c’è risposta certa. Il New York Times intanto ci dice che le “Sanzioni riaprono la caccia al presunto tesoro di Putin”. Una caccia che, secondo il quotidiano americano andrebbe avanti da 15 anni senza risultati. Una delle società descritta come legata a Putin è Gunvor Group, di cui uno degli azionisti, l’uomo d’affari Ghennadi Timchenko viene indicato come una delle persone più vicine a Putin. Assieme a lui verrebbero colpiti con sanzioni anche sette funzionari governativi russi e ben 17 aziende.

Ovvia ed immediata la replica di Mosca. “Le sanzioni Usa contro la Russia non resteranno senza risposta, ci sono gli spazi per farlo. Naturalmente risponderemo e siamo certi che gli effetti di questa risposta saranno dolorosi per Washington”, ha detto il viceministro degli esteri russo Serghiei Riabkov. Sul campo, in Ucraina, violenze per oggi sottotraccia. Dopo l’attentato al sindaco di Kharkiv ora in gravi condizioni, occupata una sede della polizia a circa 60 chilometri a nord di Donetsk, e scambi di colpi d’arma da fuoco all’aeroporto di Kramatorsk tra ribelli e truppe ucraine.

Da qui al 25 maggio, primo turno elettorale per l’elezione del nuovo presidente la parti interessate a alzare il livello dello scontro hanno buon gioco. Probabile vincitore, se non sarà guerra a dare sostegno agli estremisti, sarò Petro Porochenko, l’oligarca che ha sostenuto la Maidan di Kiev. Poroshenko, imprenditore e Re del cioccolato è dato al 48,4%, appena sotto la soglia per vincere già al primo turno. In un possibile secondo turno, il 15 giugno, gli ucraini dovrebbero scegliere tra Poroshenko e Yulia Tymoshenko, l’ex premier ed ex detenuta che voleva bombardare Mosca e uccidere Putin.

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La schizofrenia sta prendendo sempre più piede, soprattutto da parte occidentale. E' evidente che le cose - la crisi internazionale - vadano molto peggio di quanto possa comprendere anche chi è avvezzo alla realtà peggiore.

Cambogia: imprenditori chiedono al governo di impedire gli scioperi

Nel tentativo preventivo d'impedire una nuova ondata di manifestazioni dei lavoratori prevista per questa settimana, l’Associazione cambogiana delle manifatture dell’abbigliamento ha chiesto al governo di Phnom Penh di impedire gli scioperi nelle aree economiche speciali della città orientale di Bavet.

Definendo “illegali” le azioni di protesta dei dipendenti, l’associazione padronale ha segnalato al governo la propria delusione per l’inattività contro gli scioperi e la mancanza di efficaci misure preventive. Preoccupazione è stata espressa dagli imprenditori per la possibile estensione delle proteste ad altre zone industriali se non ci saranno interventi ufficiali e immediati.

La comunicazione degli imprenditori segue uno sciopero che la scorsa settimana ha bloccato numerose aziende manifatturiere dell’abbigliamento e delle calzature a Bavet, motivato del mancato versamento dei 50 dollari per lavoratore promessi dalle aziende ai dipendenti se non avessero aderito a uno sciopero nazionale proclamato dai sindacati legati all’opposizione politica nei giorni immediatamente successivi il Capodanno cambogiano a inizio aprile.

Il presidente dell’Unione collettiva del movimento dei lavoratori, uno dei sindacati anti-governativi che guidano scioperi e manifestazioni, ha confermato la protesta per questa settimana se non ci saranno concessioni salariali da parte degli imprenditori.

Da tempo i lavoratori iscritti ai sindacati indipendenti (poco meno del 20% del totale), sono in agitazione per ottenere un aumento del salario garantito mensile dai 100 dollari attuali a 160 dollari, appoggiandosi anche all’opposizione politica che preme per le dimissioni del governo frutto delle elezioni dello scorso luglio considerate truccate dai partiti esclusi dal potere.
Una situazione, comunque, che sta creando serie difficoltà a un’industria del valore di 5,5 miliardi di dollari all’anno e che impiega oltre 600.000 dipendenti in un migliaio di aziende.

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L’Egitto della pena di morte

Il pianto disperato di madri, mogli, sorelle sembra non potere nulla di fronte alla decisione della Corte di Minya che sentenzia morte. Seicentottantatre volte. Oppure sì, perché magari dopo la condanna capitale seguirà la tramutazione in ergastolo, com’è accaduto al precedente gruppo d’imputati della Fratellanza. Delle 529 condanne, “solo” 37 dovrebbero vedere la forca. Ma dietro questa crudele rappresentazione della giustizia, dei processi che li precedono, con una sorta di pantomima della magistratura che più che valutare i fatti emana un verdetto già scritto, c’è il volto dell’Egitto a una dimensione votato a ribadire la statica immutabilità del potere. Chi decide l’ennesima condanna di massa per 683 egiziani, colpevoli (tutti?) di aver ucciso uno o dieci agenti di polizia, durante la carneficina subìta il 14 agosto 2013 da parte delle forze della repressione, segue un preciso copione politico. Un programma stilato e pattuito da mesi che va a incasellarsi negli eventi precedenti e in quelli che seguiranno. Questi processi al capro espiatorio di ogni male, delle sciagure, delle molte carenze dell’attuale Egitto hanno un nome unico: fratello musulmano. Tale nome, il credo politico che lo circonda, gli ideali e gli errori, le contraddizioni e le sue storture devono scomparire dall’orizzonte del Paese che militari e tradizionalisti vogliono rilanciare. Coi petrodollari di Riyad e il benestare dell’ondivaga Washington che abbraccia e soffoca alleati a ritmi schizofrenici.

E’ il modello d’Egitto dell’ultimo trentennio che torna potente, riproponendo l’ingombrante bagaglio di terrore interiore, seminato nella misera vita dei sobborghi rurali che si rincorrono fin dentro al cuore del Cairo. E’ il sorriso bonario e falso di istituzioni avvizzite nel vizio di corruzione e malaffare definiti interesse nazionale. E’ un Paese - la più grande nazione araba - che sotterra ogni afflato di libertà e dignità, che assieme alla richiesta di pane e lavoro, aveva scatenato la rabbia e le speranze di Tahrir. Tutto, ormai da tempo, disperso nel vento, assieme alle migliaia di martiri, alle decine di migliaia di arrestati, ai divieti e alle minacce tornati imperiosi per il bene della patria. Che s’allargano, avvinghiano nella rete giornalisti, oppositori d’ogni sorta, non risparmiando quelli della prim’ora come il movimento “6 Aprile”, ferreo avversario della Fratellanza, finito anche lui fuorilegge. Della legge che la magistratura sta scrivendo per nostalgici desideri d’un passato a misura d’imperialismo. Alla faccia del balbettante panarabismo delle compiacenti comparse d’un post-post nasserismo. E se Badie, il leader spirituale della Confraternita, senza aspettare il parere del Grand Mufti (che la Corte può ignorare) raccomanda l’anima ad Allah felice del sacrificio, il partito di Abol-Fotouh (Strong Egypt) si scaglia contro le sentenze di morte. Incurante di quel che seguirà. Lo fanno anche i salafiti di Al-Nour, solitamente attenti al calcolo delle opportunità. Mentre un pezzetto di mondo si risveglia dal torpore: s’uniscono alla protesta verbale anche le associazioni per i Diritti Umani e il segretario delle Nazioni Unite, scioccati dall’anomalia in cui versa il Paese che a breve darà ad Al-Sisi la legittimità dell’urna. E il nuovo raìs da neopresidente, magari dispenserà grazie ai condannati, portando la pacificazione in un Egitto politicamente desertificato.

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Consumi ancora in calo, senza freni

Contrordine, benpensanti! A 24 ore esatte dalla diffusione di notizie ottimistiche sull'evoluzione della crisi specificamente italiana - tutte fondate su un indicatore effimero come la "fiducia" (che risente fisiologicamente del contesto comunicazionale esistente) - l'Istat arriva a contraddire in radice gli "scopritori dei fili d'erba della ripresa" (vedi l'editoriale de La Stampa di oggi).

A febbraio, infatti, secondo i dati elaborati dall'Istituto nazionale di statistica, l'indice destagionalizzato delle vendite al dettaglio (valore corrente che incorpora la dinamica sia delle quantità sia dei prezzi) registra una diminuzione rispetto al mese precedente (‑0,2%). Nella media del trimestre dicembre-febbraio 2014, l'indice registra una flessione dello 0,4% nei confronti dei tre mesi precedenti. E meno male che c'è qualche "filo d'erba", altrimenti chissà cosa dovevamo registrare...

Di più. Nel confronto con gennaio 2014, diminuiscono sia le vendite di prodotti alimentari (-0,1%) sia quelle di prodotti non alimentari (-0,2%). A conferma del fatto che la gente stringe la cinghia sia sul cosiddetto "superfluo" (anche non tutto il "non alimentare" può esser classificato tale), sia sull'indispensabile.

In un anno, dunque, l'indice grezzo del totale delle vendite segna una flessione dell'1,0%. Un dato secco che certifica un andamento quasi costante nei quattro trimestri, tutti al ribasso. Anche in questo caso, variazioni tendenziali negative si registrano sia per le vendite di prodotti alimentari (-1,0%) sia - a maggior ragione - per quelle di prodotti non alimentari (-1,2%).

La calata dei consumi riguarda sia la grande distribuzione (-0,5%), sia le imprese del piccolo commercio (-1,6%).

Nei primi due mesi del 2014 l'indice grezzo diminuisce dello 0,9% rispetto allo stesso periodo del 2013. Le vendite di prodotti alimentari segnano una flessione dello 0,7% e quelle di prodotti non alimentari dell'1,2%.

Aspettate la verde prateria, non c'è problema...

Il rapporto completo dell'Istat.

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Il regime del salario 2: Naspi, ovvero del triste tramonto del welfare

C’era una volta il progetto di mettere al lavoro l’intera società italiana senza eccezioni e senza possibilità di sottrazione. Nel 2001 l’allora ministro Maroni in un celebre libro bianco proponeva una «società attiva e una nuova qualità del lavoro». Dopo quasi 15 anni di lotte e di resistenze quel progetto sembra oggi realizzarsi grazie al nuovo regime del salario che il governo Renzi sta progressivamente instaurando. Sarebbe perciò quanto mai sbagliato leggere le politiche del lavoro del nuovo governo come la trovata estemporanea e vagamente populista di un decisionista allo sbaraglio. Non si tratta nemmeno della truffa di un giocoliere più abile di altri. Non basta cioè denunciare l’ingiustizia o la furbizia dell’imbonitore, affinché i truffati si rendano conto dei loro diritti violati. Tutte queste misure sono invece il compimento di un processo e pretendono di registrare lo spostamento dei rapporti di forza che è oramai avvenuto all’interno della società italiana ed europea. Il regime del salario che il governo sta imponendo mira a stabilire le condizioni grazie alle quali la coazione del lavoro investa anche il non lavoro, stabilendo una paziente disponibilità a una nuova occupazione, in altri termini all’occupabilità. Questo regime del salario non punta a una salarizzazione dell’intera società, non fa cioè corrispondere un salario certo a un lavoro sicuro, esso stabilisce piuttosto le basi di un’incertezza generalizzata che investe tanto il salario quanto il reddito, facendo di quella stessa incertezza il solo e unico criterio di giustizia.

La logica dell’attività legislativa del governo in materia di lavoro è quella dei due tempi: in primo luogo, il decreto legge sui contratti a tempo determinato acausali e sull’apprendistato votato il 23 aprile alla Camera formalizza il lavoro precario full time e spiana la strada alla riforma degli ammortizzatori sociali, preparata dalla compiuta precarizzazione del lavoro. Come abbiamo mostrato a proposito dei voucher, la precarietà viene assunta come un dato della prestazione lavorativa non modificabile e che strutturalmente non si vuole modificare. Il problema che il lavoratore-voucher come ogni altro lavoratore si trova di fronte è come gestire la propria occupabilità, cioè la propria non occupazione tra un lavoro e l’altro. Tra i progetti del nuovo governo con una prospettiva di medio periodo c’è perciò e inevitabilmente una generale riforma degli ammortizzatori sociali che comprende tanto una riforma degli istituti che hanno il compito di gestirne l’organizzazione, quanto un diverso sistema di assicurazione contro la disoccupazione. Una nuova indennità di disoccupazione, chiamata Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego), andrebbe a sostituire Aspi e mini-Aspi introdotte dalla riforma Fornero, in direzione di una loro maggiore inclusività. Questo sarebbe l’orizzonte strategico capace di chiudere definitivamente la connessione tra posto di lavoro e reddito da lavoro, come salario sia diretto sia indiretto. 

La Naspi verrà erogata in base alla personale carriera contributiva, tanto in termini di entità, quanto in termini di durata. Rispetto alle precedenti indennità, si prevede di estendere il numero dei mesi in cui può essere calcolato l’ammontare dei contributi versati, aumentando così il bacino di lavoratori che possono soddisfare i requisiti di accesso. Così come per le Aspi, l’indennità si può ricevere per la metà dei mesi lavorati. Sarà inoltre introdotto un massimale di tempo di erogazione per i titolari di lunghi periodi di contribuzione e sarà estesa agli iscritti alla Gestione separata, ma non alle partite Iva. In generale, la Naspi è presentata come un’indennità pressoché universale proprio perché mirerebbe a includere anche quei precari che, pur versando i contributi, non riuscivano a soddisfare i requisiti per accedere alle precedenti indennità. 

La nuova Aspi dovrebbe unificare in un’indennità onnicomprensiva tutte le precedenti tipologie di sostegno al reddito dei disoccupati, che saranno quindi tutte legate alla risoluzione del rapporto di lavoro: mobilità, sospensioni, cassa in deroga, mobilità in deroga scompaiono. La cassa integrazione in deroga, introdotta nel 2009, è stata massicciamente utilizzata durante la crisi per intervenire in situazioni ad hoc ed è stato uno dei principali strumenti per la gestione delle ricadute della crisi economica, che ha spento sul nascere le tensioni sociali e politiche. Non a caso tanto Confindustria quanto i sindacati confederali non sono favorevoli ai tagli previsti a questa forma di intervento pubblico. Questi ultimi hanno attivamente gestito la crisi attraverso gli enti bilaterali, che sono stati una sorta di palestra per sperimentare le politiche attive dell’occupabilità. Da questo punto di vista, ben oltre le preoccupazioni democratiche, lo stesso accordo sulla rappresentanza sindacale altro non è che la registrazione di un patto per la futura gestione congiunta delle politiche attive del lavoro, nelle quali godere dei servizi offerti da un «sindacato riconosciuto» promette di abbreviare i tempi di passaggio tra lavoro e non lavoro e viceversa. Il passaggio dalla cassa integrazione in deroga alla Naspi segna perciò il passaggio dall’emergenza della crisi alla gestione «normale» della precarietà quotidiana. 

Una differenza tra Naspi e cassa integrazione in deroga è che la prima è pagata dai contributi versati e la seconda dalla fiscalità generale. Il fare affidamento sulle quote di contributi viene presentato come un’armoniosa condivisione di responsabilità tra lavoratori e imprese. Non sempre è evidente che tutte le politiche attive di sostegno all’occupazione sono consistite negli ultimi anni in pesantissimi sgravi contributivi per le aziende, che hanno concorso a prosciugare le casse dell’Inps. D’altra parte per i lavoratori, in particolare precari, i contributi rimangono altissimi. Per esempio gli iscritti alla Gestione separata, che vengono solo parzialmente inclusi nel godimento dell’indennità Naspi (le partite IVA non avendo una busta paga non possono dimostrare quanti mesi hanno lavorato e soddisfare quindi i requisiti per accedervi) versano contributi molto alti. Nel nuovo regime del salario ogni indennità sarà quindi pagata a caro prezzo, per di più secondo un ferreo calcolo monetario di ciò che si può ricevere in base a ciò che si è versato che rende il salario l’unica misura tanto del lavoro quanto del non lavoro.

Inoltre, la Naspi oltre a essere legata alla cessazione dell’attività lavorativa, si distingue dalla cassa integrazione in deroga soprattutto per il fatto di essere individualizzata. L’assistenza pubblica sarebbe legata non più al rapporto di lavoro con un determinato padrone, ma alla storia contributiva, anche in diversi luoghi di lavoro, del singolo lavoratore. In questo modo, la mobilità del lavoro viene considerata parte integrante della sua gestione pubblica. In caso di crisi aziendale il collettivo operaio sarebbe immediatamente rotto, perché ognuno sarebbe obbligato a seguire il destino che è già scritto nella sua storia contributiva. Questa individualizzazione si lega ai discorsi e ai progetti sulla riqualificazione dei disoccupati e sulla gestione della mobilità tra un lavoro e l’altro. Secondo le parole del ministro Padoan, il programma è: «meno sicurezza sul posto di lavoro, più sostegno al reddito». All’assicurazione pubblica contro la disoccupazione deve perciò accompagnarsi una responsabilità pubblica nel mettere di nuovo al lavoro, nella maniera più efficiente possibile, chi il lavoro lo ha perso. È nell’ottica di una mobilità lavorativa diventata ormai strutturale che sono pensate le proposte di riforma degli istituti che gestiscono il sistema degli ammortizzatori sociali. L’Inps continuerebbe a occuparsi della riscossione dei contributi, mentre una nuova Agenzia Nazionale per l’Occupazione dovrebbe gestire l’erogazione delle indennità economiche e le politiche attive per l’impiego, cioè la riqualificazione dei disoccupati, attraverso monitoraggio, formazione e collocamento. Non a caso nelle proposte iniziali di reddito minimo contenute nel jobs act alla ricezione di prestazioni assistenziali doveva corrispondere l’accettazione del lavoro o del corso di formazione proposto. Quel che rimane è che, esaurita la Naspi, si potrebbe ricevere un’indennità economica concessa però in presenza di conclamata povertà. Tanto nell’organizzazione dell’occupabilità, quanto in eventuali forme di reddito della povertà, ciò che conta è che il percorso di riattivazione lavorativa diventi cogente. Alla disponibilità sempre più richiesta nei luoghi di lavoro, corrisponde una disponibilità anche nel passaggio da un lavoro a un altro. Si vede così che quando viene nominato il reddito si intende la disoccupazione e, allo stesso tempo, un’obbligatoria disponibilità al lavoro. Non è diverso in Germania, dove i centri per l’impiego forzano i minijobbers ad accettare qualsiasi lavoro si presenti e possono punire il rifiuto con il taglio dell’assegno mensile di disoccupazione. Il reddito non è un risarcimento per i diritti sospesi o negati, ma viene sempre inteso come necessario supporto alla totale disponibilità lavorativa. Contro queste forme di workfare, i sostenitori di un reddito incondizionato pensano che questo possa aumentare il potere dei lavoratori nel contrattare le proprie condizioni di lavoro e accrescere la loro possibilità di scegliere il lavoro. Il problema, però, è che la direzione della doppia gestione pubblica e privata del lavoro si muove verso una combinazione di sostegno al reddito ed estrema precarizzazione. La richiesta di reddito sembra così assecondare piuttosto che contrastare la precarizzazione crescente del lavoro e non in direzione di una più libera scelta. Al pubblico si chiede il reddito, mentre nei luoghi di lavoro il ricatto rimane immutato, i salari bassissimi, la mobilità aumentata dal fatto di avere un cuscino di assistenza pubblica sul quale i precari possono assestarsi in attesa del prossimo lavoro. 

La riforma degli ammortizzatori s’inserisce così in un percorso di lunga durata che si compone della costruzione di un destino individuale che intreccia, da una parte, un lavoro frammentato con la sua dote salariale e, dall’altra, un sostegno al reddito in mancanza di lavoro dato a condizione di impegnarsi ad attivare la propria occupabilità, per impedire che la forza lavoro si presenti in massa per far valere la sua forza. Prima di lottare per nuovi sistemi di welfare comunque immaginati, si tratta quindi di comprendere cosa è, e cosa non è più il welfare attuale. Esso è sempre meno il terreno su cui viene risarcita la condizione sociale del salariato, intendendo in questo modo la condizione complessiva di chi è costretto a lavorare per riprodursi. Non è cioè la garanzia per tutti quei servizi e quelle prestazioni che il salario non può garantire, perché non è più il segno di un potere sociale acquisito. Sembra quasi che, assieme agli Stati nazionali che lo avevano inventato e sostenuto, stia tramontando la stagione più che secolare del welfare. Con una violenta sincronizzazione, i sistemi di welfare si stanno omogenizzando su scala globale per garantire semplicemente la riproduzione della forza lavoro. Ciò comporta che questa sincronizzazione si presenti in altre aree del pianeta come un riconoscimento di prestazioni e servizi finora sconosciuti. In questo modo, sul piano globale, si stabilisce una sorta di illusione progressiva del welfare, che lo connette con lo sviluppo, il salario e il potere statale. Si dovrebbe invece registrare che come terreno di lotta quello del welfare rimane sostanzialmente nazionale, mettendo in discussione il fatto che le lotte contro il salario debbano puntare a riproporre o a conservare ciò che è possibile ottenere sul piano nazionale. Una volta individuato il legame tra incertezza del salario e destrutturazione del welfare, la lotta contro il salario e il comando sul lavoro esercitato anche attraverso forme di reddito dovrà essere capace di ostacolare la produttività globale dell’incertezza e intaccare il regime del salario che su questa fa leva.

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Questo e il precedente articolo hanno descritto con precisione chirurgica che le odierne classi dominanti si muovono (e stanno ottenendo risultati eclatanti) nella direzione di rendere il "capitale umano" come la variabile più indipendente ed ottimizzata all'interno dell'accumulazione capitalista.
Siamo dunque di fronte a tempi in cui lo sfruttamento schiavista pre-industriale si fonde definitivamente con l'ottimizzazione produttiva garantita dalle macchine.
Si tratta di uno scenario sociale, ormai sempre più reale, che va ben oltre la distopia della fantascienza più spinta degli ultimi 40 anni.