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31/03/2014

L'uomo dell'apparato


Non si sfugge al marketing delle ricorrenze. Ci si improvvisa persino registi pur di vendere una "merce" sul mercato della politica. Il regista è Walter Veltroni e la "merce" è Enrico Berlinguer. A trent'anni dalla morte di Berlinguer si sprecano libri, articoli, ricordi, gadget, richiami sulle tessere di partito ed ora anche un docu-film. Uno sforzo, in gran parte ad opera di un ceto politico ormai in disarmo, destinato al fallimento perché non esce dai binari, ben che vada, di una nostalgia inconcludente. Non si guarda Berlinguer alla luce politica dell'oggi ma si eleva la propria interpretazione di Berlinguer a bussola per orientarsi nell'attualità politica. Un'operazione di corto respiro, che svanirà tra qualche mese dopo la celebrazione dell'anniversario della morte.

La fulminante battuta attribuita a Giancarlo Pajetta "Berlinguer si iscrisse giovanissimo... alla segreteria del Pci" probabilmente, in modo non del tutto consapevole, individua più di tante agiografie la natura e il ruolo di un dirigente del Pci che è stato segretario del partito per dodici anni, dal '72 al '84 - cioè negli anni cruciali del conflitto di classe in questo paese - dopo esserne stato vicesegretario, con ampi poteri, nei tre anni precedenti.

Dal compromesso storico alla classe operaia che deve farsi Stato

Un uomo dell'apparato di partito investito, dopo una lotta interna senza esclusione di colpi, della missione pedagogica, più o meno riformatrice, di portare le masse all'interno di un quadro politico, istituzionale ed economico considerato nella sostanza non modificabile, non superabile. Passa poco tempo da quando Berlinguer diventa ufficialmente segretario del Pci e l’uso strumentale che fa, ai fini di politica interna, del colpo di stato in Cile (settembre '73). E' il lancio della politica del "compromesso storico" con la Democrazia Cristiana a livello nazionale e delle "larghe intese" nelle amministrazioni locali. In realtà non è il colpo di stato in Cile che modifica la linea politica del Pci. Già nel congresso del ’72 la proposta uscita era infatti quella di “un programma di rinnovamento e risanamento nazionale” che per realizzarsi richiedeva l’incontro delle tre forze principali, quella comunista, socialista e cattolica. Un disegno politico che faceva leva anche sul Patto federativo, sottoscritto lo stesso anno, dei vertici sindacali di Cgil-Cisl-Uil. La linea politica del compromesso storico, che non trova alcuna significativa opposizione interna, è perseguita con determinazione mobilitando migliaia di funzionari di partito e assegnando un valore strategico alle scadenze elettorali. L’avanzata elettorale del Pci alle amministrative del ’75 e alle politiche del ’76 sembra confermare la linea di Berlinguer ma, guardando più in profondità, mette a nudo tutto il politicismo e la subordinazione istituzionale del partito. Il conflitto sociale è visto come elemento da gestire, controllare ed eventualmente neutralizzare. Dopo le elezioni del ’76 e lo sdoganamento del Pci da parte di Gianni Agnelli, presidente della Fiat e di Confindustria, sulle colonne del Corriere della Sera la strategia berlingueriana può dispiegarsi completamente. E quindi in successione ravvicinata si ha il governo delle astensioni, delle convergenze programmatiche e infine di unità nazionale. Uno schema che vede al centro il ruolo e l’azione dei partiti e non della mobilitazione sociale, puntando a riprodurre l’alleanza delle componenti politiche che hanno dato vita alla Costituzione repubblicana. Una strategia che necessita nell’Italia della metà degli anni 70, attraversata da un turbolento conflitto di classe, di un surplus di verticismo e autoritarismo per metterla in pratica. L’ideologia berlingueriana sull’austerità, sui sacrifici necessari prefigurava la subordinazione del movimento operaio, concepito sempre dentro i confini del partito, allo Stato. Con queste premesse lo scontro con il movimento del ’77 è frontale. Per Berlinguer e il gruppo dirigente del Pci non era tollerabile che si sviluppassero forme di conflitto radicale che potevano mettere in discussione il loro ruolo e la loro collocazione istituzionale. Le lotte del movimento soprattutto a Bologna, città icona del sistema di potere del Pci e del cosiddetto modello emiliano, nei primi mesi del ’77 sono contrastate duramente facendo ricorso alla repressione ad opera degli apparati dello Stato e dell’esercito. Quel movimento sociale è definito da Berlinguer come fascista, squadrista, composto da mercenari suscitando la contrarietà perfino di Norberto Bobbio. La coppia Cossiga-Pecchioli, il primo ministro dell’interno e il secondo ministro ombra del Pci, è stata l’esemplificazione del salto di qualità della politica del compromesso storico. Più che la classe operaia che si fa Stato è lo Stato che espropria completamente la classe operaia e azzera le libertà formali in teoria garantite dalla Costituzione. Si assiste al tragico paradosso della strategia berlingueriana: per applicare completamente la Costituzione e dare vita alla seconda rivoluzione democratica dopo la Resistenza si deve far uso degli apparati dello Stato per reprimere il conflitto sociale e di classe negando gli stessi principi democratici scritti nella Costituzione. 

La svolta che non c’è stata

Nel febbraio del '78 la Conferenza di Cgil-Cisl-Uil all'Eur di Roma, preceduta da alcune interviste di Lama, segretario della Cgil, in cui dichiara: "La Cgil è pronta a impegnarsi per sacrifici sociali non formali, ma sostanziali" viene vista da Berlinguer come il passaggio decisivo verso la stabilizzazione del quadro sociale. L’idea di fondo era che i maggiori sacrifici dei lavoratori avrebbero permesso di rilanciare il processo di accumulazione del capitale necessario per gli investimenti produttivi. A questo si aggiunga il sodalizio con la Dc nel cosiddetto "partito della fermezza", contrario a ogni trattativa durante il sequestro di Moro, e le tessere del puzzle politico prefigurato nella testa di quasi tutto il gruppo dirigente del Pci sembra essere risolto. Invece è l'inizio della sconfitta della politica berlingueriana. La stagione dei governi di unità nazionale si chiude perché la Democrazia Cristiana ha avuto il tempo e le occasioni per riconsolidare le relazioni con i settori sociali di riferimento e gli apparati dello Stato, con l'azione decisiva del Pci, hanno riconquistato un margine di credibilità. In più si assiste all’emergere di preoccupanti sintomi di corruzione nelle stesse amministrazioni locali a guida Pci, il caso di Milano su tutti, e all’ascesa del craxismo nel Psi che si pone in termini concorrenziali al Pci. L'insieme di questi elementi decretano la fine dei governi di unità nazionale e il completo fallimento del compromesso storico. La supposta “diversità comunista” anche nel governo della cosa pubblica, presentata quasi fosse un tratto antropologico, si rivela ormai solo un’ideologia consolatoria. Con il peso di una grave sconfitta politica sulle spalle e un partito che sta cambiando velocemente composizione sociale, e gerarchie interne - il potere delle decine di migliaia di amministratori locali è in forte ascesa - Berlinguer si presenta, nell'autunno del 1980, davanti ai cancelli della Fiat in lotta facendo un comizio radicale, tenendo conto del personaggio, nei toni ma molto vago e ambiguo nei contenuti. E qualche mese dopo opera lo "strappo" con Mosca cogliendo l'occasione del colpo in Stato in Polonia: "Si è esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre". Non era la prima volta che Berlinguer usava il metodo di dettare la linea politica del partito attraverso le interviste ai giornali. Era già successo una settimana prima delle elezioni del giugno del '76 con un'intervista al Corriere della Sera in cui manifestava la sua preferenza per "l'ombrello della Nato" piuttosto che per il Patto di Varsavia. Un metodo che ha anticipato il comportamento di molti leader della sinistra, radicale e governativa, venuti dopo di lui. Si è sempre trattato, a suo dire come per gli altri dopo, della necessità di intervenire tempestivamente nella situazione politica. In verità si trattava del tentativo di fermare il declino del partito ormai in atto. E' in questo contesto che nasce la proposta politica dell'alternativa democratica, interpretata non da pochi anche a sinistra del Pci come una svolta. A prima vista appare come una radicalizzazione della critica al potere democristiano e socialista tutta giocata però su un piano etico (la questione morale). Nella concretezza dei fatti e dei comportamenti è invece una spinta alla razionalizzazione del quadro politico come condizione necessaria per fare una timida redistribuzione del reddito ed evocare le solite "leggendarie" riforme. Infatti non avviene alcuna svolta. Resta centrale l'idea dell'insostituibilità dei partiti realmente esistenti e delle loro relazioni reciproche come unico ambito di possibili cambiamenti. Un'ipotesi duramente smentita qualche anno dopo. Ancora una volta la concezione di Berlinguer della politica resta chiusa all'interno del sistema della rappresentanza istituzionale, i movimenti sociali e i conflitti di classe non sono mai visti come i momenti e i luoghi della trasformazione della società. La vera svolta, verso la dissoluzione del Pci, avviene nel '85, dopo la morte di Berlinguer, la sconfitta nel referendum sulla scala mobile, il forte calo di voti nelle elezioni amministrative e la convocazione anticipata del congresso che hanno l'effetto di far esplodere le contraddizioni interne e scoperchiare il vaso di pandora. La proposta politica dell'"alternativa democratica" di Berlinguer era più rivolta all'interno che all'esterno del partito. E' stata il tentativo disperato, l'ultimo, di mantenere e consolidare un assetto politico-organizzativo del partito ormai attraversato da fortissime tensioni. In altre parole, l'uomo dell'apparato di fronte crisi del partito non poteva che rispondere con gli strumenti tipici dell'apparato.

Il vintage postmoderno di Veltroni

Il recente film-documentario "Quando c'era Berlinguer" diretto da Veltroni si potrebbe liquidare con una battuta: dietro il glamour, il nulla. L'insistente ricerca dell'immagine che potrebbe creare emozione genera il fastidio di quando il gioco si fa troppo smaccato. Il film, in gran parte, con le testimonianze, i video d'epoca, i commenti fuori campo dello stesso Veltroni ruota attorno agli ultimi giorni e i funerali di Berlinguer. Come un oggetto vintage Berlinguer interessa ancora e ha un certo fascino perché sorpassato e démodé. Non c'è nulla che inquadri il periodo storico, niente sulle ragioni degli acuti conflitti sociali negli anni che hanno coinciso con la segreteria di Berlinguer. Ma questo c'era da aspettarselo. Il regista del film non ha mai brillato per profondità analitica dei fenomeni politici. Se leggerezza narrativa doveva essere avrebbe potuto, quanto meno, risparmiare allo spettatore il sermone finale di Napolitano.

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