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28/03/2014

Il cruccio di Obama: le armi costano, europei datevi da fare



La crisi economica sega anche il tronco statunitense, nonostante il “privilegio imperiale” di poter stampare dollari a volontà, senza alcun rapporto né con le riserve in oro né con lo stato reale dell'economia. E lo sega fino all'anima: le spese militari.


La crisi ucraina, che proprio gli Stati Uniti hanno provocato e finanziato con 5 miliardi di dollari, ha fatto trasparire in superficie la debolezza strategica della stessa Nato e spiega ad abundantiam le ragioni della visita di Obama in Europa, e soprattutto la sua insistenza sia sulla necessità di intraprendere il “sentiero della crescita” abbandonando quello della sola “austerità”, sia sulla “tenuta” delle spese militari all'interno dell'Unione Europea.


Il quadro economico dell'impegno militare è ben riassunto in un curioso articolo del Corriere della Sera di oggi, ad opera di Luigi Offeddu. I numeri sono quelli, la tendenza anche. Ma l'intenzione “imperialista” è mascherata dall'utilizzo delle percentuali al posto delle cifre assolute, in modo da far risultare che la Russia stia “spendendo più dell'America” in armamenti.


Il trucco è vecchio quanto l'aritmetica, ma funziona sempre (vista l'ignoranza titanica del grande pubblico in materia di numeri); specie quando i tamburi di guerra cominciano a rullare. Spiega Offeddu: “Oggi gli Usa, che pagano il 72% di tutti i conti Nato, spendono in armi il 4% del loro Pil, meno della Russia (4,5%)”.


Lo scostamento percentuale è minimo (lo 0,5%), ma giustamente bisogna metterlo in relazione al Pil di entrambi i paesi. E qui il trucco viene allo scoperto: nel 2012 quello russo ammontava a 2.021 miliardi di dollari (circa 1.500 miliardi euro, più o meno il livello dell'Italia); mentre quello statunitense è arrivato a 15.680 miliardi di dollari (11.000 miliardi di euro, più o meno).


Basta dunque farsi due conti: il 4,5% di 2.021 fa quasi 91 miliardi di dollari, il 4% di 15.680 fa invece 627,2 miliardi. Insomma: gli Usa spendono sette volte più dei russi in armamenti. Non ci dovrebbe neppure esser bisogno di ricordare che – dalla caduta del muro in poi – i russi (non più “i sovietici”) hanno fatto un uso assai limitato di questa dotazione (in Cecenia, più un “mostrare i muscoli” verso la Georgia del corrottissino Shalikashvili), mentre gli Stati Uniti nello stesso periodo hanno bombardato a più riprese, quasi ogni anno, in almeno tre continenti diversi.


Anche l'ultima percentuale-simbolo del malcapitato Offeddu “negli ultimi 10 anni, Vladimir Putin ha aumentato del 79% le spese militari” viene travolta dalle stesse considerazioni. Il Pil russo, nel 2004, pesava appena 765 miliardi di dollari, meno della metà del 2012. Ne deriva che – in percentuale – la Russa ha diminuito la spesa militare, mentre è ovviamente cresciuta (del 79%, appunto) in cifra assoluta. Nel 2004 il Pil statunitense ammontava invece a 11.800 miliardi di dollari; per cui la diminuzione percentuale della spesa militare – meno 2% equivale ad una riduzione anche in cifra assoluta di circa 80 miliardi (da 708 a 627). Per colpa della crisi, non di un improvviso “pacifismo” dell'ipepotenza imperiale.


Paccottiglia propagandistica da tempi di guerra, ripetiamo.


In ogni caso è vero che – a parità di crescita (o di crisi) – i paesi della Nato sono stati costretti a ridurre la quota di ricchezza nazionale destinata agli armamenti. Finché il “prossimo nemico” era un Gheddafi o un Assad, non c'era problema. Lo scarto era così mostruoso da rendere irrilevante qualche miliardo di armi in più o meno. Se invece si “sfruculia” la Russia – mettendo al tempo stesso in allarme la Cina – allora il gioco diventa non solo molto più complesso, ma anche molto più costoso. Di qui comincia il “viaggio in Europea” e la pressione per mantenere elevata la spesa per armi (incidentalmente: “comprate 'sti cavolo di F35”, deve aver detto a Napolitano).


Ora che avete le chiavi anche “aritmetiche” di lettura, potete far voi stessi “la tara” all'articolo dell'embedded Offeddu. Dopo di che, riflettete: se sono costretti a giochini così facili da scoprire, quanto è "urgente" la pressione che sentono dietro le spalle? Quanto è vicina, insomma, una guerra vera, non il solito tiro a segno contro il rais mediorientale di turno? 

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BRUXELLES — L’ultima volta fu due anni fa, aprile 2012: ultima esercitazione congiunta fra Russia e Nato, al computer, simulazione di una difesa antimissilistica. Ma da allora, e già prima di allora, quante cose erano e sono successe. Negli ultimi 10 anni, Vladimir Putin ha aumentato del 79% le spese militari della Russia e oggi vi dedica il 4,5% del suo prodotto interno lordo. Nello stesso periodo i 28 Paesi Nato, piccoli o grandi, tagliavano alla grande i loro bilanci, incalzati dalla recessione economica. Giù le armi, almeno nei registri contabili: i militari dell’Alleanza, da 1.940.342 che erano nel 2006, sono scesi a 1.453.028 nel 2012. Il Canada ha abbattuto le sue spese militari per una somma pari al 7,6%, del Pil, l’Ungheria per l’11,9%, la Spagna per l’11.9%, l’Italia per l’10,3% (prima del presunto cambio di rotta sugli F-35). E così via.
Oggi gli Usa, che pagano il 72% di tutti i conti Nato, spendono in armi il 4% del loro Pil, meno della Russia. Secondo i dati dell’Agenzia europea della difesa e di altre fonti ufficiali, la Germania sta all’1,3% la Francia all’1,9%, l’Italia all’1,2%, e la spesa minima prevista per essere membri a pieno titolo della Nato è (sarebbe) pari al 2% del Pil nazionale. E se Mosca azzannasse di colpo un’altra Crimea, magari il bacino ucraino del Don? Lo «spread» fra i titoli di Stato, scherza un ufficiale nella sala mensa del quartier generale Nato a Bruxelles, non basterebbe a respingere i cosacchi. La Nato e il Pentagono promettono piena copertura ai Baltici e alla Polonia. Ribatte l’acre Wall Street Journal : «I tagli ai bilanci hanno reso più difficile la possibilità di adempiere ai compiti più importanti della Nato», e oggi abbiamo sul campo «forze che non sono pronte, né addestrate, né sufficientemente armate».
È per tutte queste ragioni che Barack Obama, l’altro giorno a Bruxelles, ha detto di essere preoccupato «per le spese della difesa in calo fra alcuni nostri alleati Nato». È sempre per le stesse ragioni che Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato, si è rivolto a Obama con parole che avevano il tono di un appello: «La difesa collettiva dei nostri alleati è un obiettivo primario per la Nato e io mi unisco a lei, signor presidente, nella sua richiesta di misure aggiuntive, così da rafforzare la nostra difesa collettiva: misure che includano piani di difesa aggiornati e più avanzati, esercitazioni rafforzate e spiegamenti appropriati di forze». Libera traduzione in chiaro, dal prudentissimo codice diplomatico: stiamo, state spendendo o facendo troppo poco, alcuni governi non fanno la loro parte, così ci indeboliamo mentre i nostri avversari o potenziali avversari non si distraggono e non lesinano i fondi, grazie anche ai loro gasdotti.
Eppure è da anni, prima e durante Obama, che Washington riduce il suo apporto alla Nato, forse per indurre gli alleati ad essere più generosi: verso il 1998 volavano 800 aerei militari americani nei cieli europei, oggi sarebbero più o meno 130.Lo stesso Obama ha fatto capire di recente che le spese militari americane saranno ridotte entro un paio d’anni al livello più basso dai tempi del dopoguerra, e questo significherà il quasi-digiuno per le casse della Nato. Come in una gigantesca partita a poker, 28 giocatori stanno seduti allo stesso tavolo davanti a un piatto vuoto, guardandosi di soppiatto: e ognuno, quando tocca a lui la parola, spera di cavarsela con il classico «passo», o al massimo di buttar nel piatto un innocuo «chip», la minima delle puntate. Ma questa volta, a distribuire le carte, è l’uomo del Cremlino, e nessuno sa bene quanti «jolly» si nascondano nel mazzo. I documenti della Nato disegnano bene quanto sia pesante la situazione. Come in questo caso, testuale: «Il sistema raggiungerà la sua piena capacità operativa nella prima metà del prossimo decennio». Cioè entro il 2025. E il «sistema» di cui si parla è lo scudo contro i missili balistici progettato dalla Nato per il suoi 28 Paesi membri, cioè l’arma più completa, più indispensabile e urgente di difesa .
A febbraio, nel quadro di questo progetto, ha gettato le ancore in un porto spagnolo l’incrociatore americano lanciamissili Donald Cook ; si avvale di Aegis, un sofisticato sistema radar, e con i suoi missili intercettori può individuare, tracciare e abbattere missili balistici intercontinentali (per esempio in arrivo dalla Russia, dalla Cina, dalla Corea del Nord). Secondo i progetti, al Donald Cook si aggiungeranno altri 3 incrociatori. Pattuglieranno tutto il Mediterraneo, pronti ad intervenire a fianco della Nato. Grazie anche a batterie antimissili terrestri che proteggeranno la Romania e la Polonia: nel primo caso dal 2015, e nel secondo dal 2018. La copertura totale di tutti i Paesi membri, hanno spiegato autorevoli fonti Nato, sarà un «obiettivo a lungo termine» dell’Alleanza, che garantirà «protezione piena alla popolazioni europee». Sempre che molto prima, al Cremlino, dal mazzo non salti prima fuori un altro «jolly».


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