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21/02/2014

Le illusioni di Maastricht e l’Europa reale

Sono passati ormai più di vent’anni da quel 7 febbraio del 1992, quando i paesi pionieri della Comunità europea firmavano il trattato istitutivo della nuova Europa. Nel frattempo sono cambiate tante cose, a cominciare dalla percezione del processo di integrazione. Si può dire che un ciclo si è ormai irrimediabilmente chiuso?

Sul piano storico il documento siglato a Maastricht costituiva un atto di grande valore simbolico, se non altro perché veniva adottato dopo la caduta del Muro di Berlino, l’evento politico più dirompente dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Oltre il dato formale, esso celebrava la vittoria del capitalismo e del libero mercato sul socialismo dirigista del vecchio blocco sovietico.

C’era enfasi nelle sue parti iniziali. La nuova Europa avrebbe dovuto assicurare “uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità”, “alti livelli di occupazione e di protezione sociale”, “il miglioramento del tenore e della qualità della vita” delle persone, un “elevato grado di convergenza dei risultati economici”, perfino la “solidarietà tra gli stati membri”.

Di questi macro-obiettivi non se ne è realizzato nessuno. Partiamo dal primo, “uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche”. C’è un dato che più di altri dà il senso dell’insostenibilità dell’attuale modello di integrazione europea, quello relativo agli squilibri macroeconomici che si sono venuti a creare tra i paesi della zona Euro. La forbice tra paesi in surplus e paesi in deficit si è allargata  di molto in questi anni, con la Germania che, dall’entrata in circolazione della moneta unica (2002) a tutto il 2012[1], ha accumulato saldi positivi della bilancia commerciale con i restanti paesi Ue di circa 1300 miliardi di euro, sforando sistematicamente la percentuale del 6% annuo sul Pil imposto dalla regola vigente. Insieme alla Germania altri paesi del nord, come Austria, Olanda e Finlandia, fanno registrare saldi positivi delle loro partite correnti, mentre tutti i paesi della fascia mediterranea, più l’Irlanda, presentano i propri conti in rosso (Paesi Piigs). L’Europa, in breve, è divisa ormai strutturalmente tra un centro ed una periferia, le cui dinamiche economiche seguono un andamento necessariamente asimmetrico. Stiamo parlando del contrario di “uno sviluppo armonioso ed equilibrato” delle attività economiche per come il Trattato vagheggiava.

Veniamo al secondo obiettivo, “alti livelli di occupazione e di protezione sociale”. Cifre alla mano siamo di fronte ad una situazione record per quanto riguarda i tassi di disoccupazione, che nell’intera zona euro ha raggiunto ormai la soglia del 12,1%, con quella giovanile al 24,3% (Novembre 2013). Il dato, ovviamente, non sottende una situazione di omogeneità tra i paesi dell’Eurozona. Anzi. C’è una perfida simmetria tra i saldi commerciali negativi e gli alti livelli di disoccupazione in alcuni paesi e, viceversa, tra i saldi positivi e la bassa disoccupazione in altri: al terzo trimestre del 2013 in Austria,  in Germania e in Olanda il tasso era rispettivamente del 4,8%, del 5,2% e del 7% (In aumento), mentre in Grecia ed in Spagna rispettivamente del 27,4% e del 26,7%, del 16,3% in Portogallo, del 12,7% Italia, del 12,1% Irlanda (In calo). E lo stesso discorso vale per quella giovanile.

Interessante osservare in questo quadro il trend del tasso di disoccupazione in Italia e in Germania dal 2002 (immissione dell’euro sul mercato) al 2013. L’Italia passa dal 9,1% al 12,7%, la Germania dal 9,8% al 5,2%.

In tema di “protezione sociale”, invece, non solo non si sono fatti passi in avanti, ma, per le politiche di austerity di questi anni, molte delle conquiste previdenziali, di lavoro, di welfare in generale, sono state smantellate. Dalla Grecia all’Italia, passando per il Portogallo, la Spagna e l’Irlanda, l’austerità, tra il 2008 ed il 2012, ha prodotto tagli alla spesa sociale per più di 230 miliardi di Euro. In Italia, secondo stime della Cgil, la spesa destinata ai servizi sociali è stata tagliata nello stesso periodo del 78,7%, passando dai 2,5 miliardi di Euro del 2008 ai 538 milioni del 2011[2]. Una mannaia che ha colpito principalmente i paesi più indebitati, ma che, seppure in misura minore, non ha risparmiato neanche i tedeschi.

Per il terzo obiettivo, “miglioramento del tenore e della qualità della vita” dei cittadini europei, non ci sarebbe bisogno di nessun commento. Ma qualcuno potrebbe obiettare: il peggioramento delle condizioni di vita degli europei è il prodotto della crisi, che non nasce in Europa. Ammesso che l’attuale modello di unione economica e monetaria non avesse influito direttamente sulla crisi, tutti i vincoli di bilancio imposti agli stati membri sicuramente ne hanno aggravato il decorso, innescando una spirale austerità/recessione che ancora oggi gira su se stessa, come molti economisti peraltro avevano ammonito[3]. Nel merito basta riportare l’ultimo dato fornito da Eurostat: il numero di poveri nell’Ue è passato da 6 milioni nel 2009 a 120 milioni in totale nel 2013. Di questi 18 milioni ricevono aiuti alimentari finanziati dalla Ue, mentre altri 43 milioni, tra cui tanti bambini, non riescono giornalmente a nutrirsi a sufficienza[4].

Finiamo con la “convergenza dei risultati economici”. Il quadro macroeconomico europeo, e quello dell’Eurozona in particolare, presentano, come si diceva, chiari segni di squilibro e situazioni socioeconomiche spesso agli antipodi. Non solo non si è realizzata alcuna convergenza tra le aree economiche che ne compongono lo scacchiere, ma si sono accentuate le distanze già esistenti tra di esse. Oggi l’Europa è un campo di battaglia, dove a predominare sono gli egoismi dei paesi più forti, secondo una logica mercantilista che è il contrario della “solidarietà tra gli stati membri”, quinto ed ultimo macro-obiettivo che abbiamo deciso di prendere in esame.

Doveva andare per forza così? Secondo alcuni il trattato istitutivo dell’Unione era “orientato alla crescita” e lasciava ampi margini di manovra agli stati membri per le loro politiche economiche espansive. Dunque solo con l’adozione proditoria di atti successivi si sarebbe configurata l’attuale struttura rigorista dell’Unione.[5] E’ una tesi non convincente. Come tutte le tesi che rimandando ad un presunto tradimento delle motivazioni “originarie” del processo di integrazione.

Intanto perché i criteri di convergenza vengono già fissati con il Trattato di Maastricht, poi resi più stringenti da quello di Amsterdam (1997), fino alla paranoia del Six Pack e del Fiscal Compact. In secondo luogo perché accanto al rigore, tutta l’impalcatura normativa dell’Unione è stata costruita secondo canoni “mercatisti”. Il fatto che fino ad un certo punto quella impalcatura abbia potuto convivere con sistemi di welfare avanzati si spiega soltanto con la configurazione bipolare del mondo per oltre un quarantennio. Caduto il Muro di Berlino, infatti, l’accelerazione verso l’integrazione economica e monetaria ha seguito la sua strada “naturale”, all’insegna del rigore da un lato e del liberismo dall’altro. Il tutto condito da un sistema di cambio fisso, che, impedendo operazioni di rilancio dell’economia mediante svalutazione esterna, ha imposto ai paesi membri di competere tagliando la quota salari, precarizzando il lavoro, cancellando diritti acquisiti.

Il resto è storia di questi giorni. Ci si chiede se questa Europa è riformabile. Forse, ma a condizione che si parta dalle fondamenta.

Note:
[1] Guida mercato: Germania, a cura di ICE- Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, Berlino, Gennaio 2013.
[2] Rapporto sui diritti globali, a cura di Associazione SocietàINformazione ONLUS, Ediesse, Giugno 2011.
[3] Lettera degli economisti, in Economia e Politica, 15 giugno 2010.
[4] European social statistics – 2013 edition, Eurostat pocket book, January to March 2013.
[5] Giuseppe Guarino, Un golpe chiamato euro, in Il Foglio, 13 novembre 2013.


Fonte

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