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26/02/2014

“Accordo sulla rappresentanza”, per rompere la Costituzione

“Tempi bui”, “dittatura”, “monopolio della rappresentanza”, “golpe”, “incostituzionale”. Non sono parole leggere, quelle che si alzano nel convegno dedicato all’analisi dell’”accordo sulla rappresentanza” siglato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il 10 gennaio. Specie se a pronunciarle sono costituzionalisti democratici di altissimo livello (Gianni Ferrara, Gaetano Azzariti, Marco Pivetti) e giuslavoristi altrettanto considerati (Carlo Guglielmi del Forum diritti lavoro, Pierluigi Panici della Consulta legale Fiom), sindacalisti Usb e Cgil (dell’area “Il sindacato è un’altra cosa”, che ha presentato un documento alternativo a quello della Camusso).

Difficile del resto non accorgersi che la condizione materiale dei lavoratori e l’inquadramento legale del loro rapporto con le imprese (quelle che vengono chiamate sinteticamente “regole del mercato del lavoro”) è al centro assoluto delle “riforme strutturali” imposte dall’Unione Europea, nonché delle politiche economiche dei governi degli ultimi venti anni. Nessuno escluso, ricordando che il “pacchetto Treu” fu varato dall’esecutivo di Romano Prodi e con i voti anche di Rifondazione.

Ma oggi siamo di fronte ad un salto di qualità, ad una svolta storica. E viene spontaneo il parallelo con i “golpe” per antonomasia, quelli sudamericani degli anni ’60 e ’70, sotto l’egida della Cia, che immancabilmente cominciavano con l’eliminazione dei giuslavoristi.

I nostri amici che fanno questo mestiere in Italia oggi non corrono lo stesso rischio “fisico”, fortunatamente. Ma la materia stessa del loro lavoro viene a questo punto radicalmente assottigliata, fatta quasi scomparire.

Il “testo unico sulla rappresentanza” punta infatti a raggiungere gli stessi obiettivi del “patto di Palazzo Vidoni” – quello del 1925, con cui il regime fascista assegnava alle “corporazioni” il “monopolio della rappresentanza” degli interessi di lavoratori e imprese – seppure con strumenti diversi, là dove il fascismo si imponeva con la spada.

«La Confederazione generale dell’industria riconosce nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici… Tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le Organizzazioni dipendenti della Confederazione dell’industria e quelle dipendenti della confederazione delle corporazioni. In conseguenza le commissioni interne di fabbrica sono abolite e loro funzioni sono demandate al sindacato locale, che le eserciterà solo nei confronti della corrispondente Organizzazione industriale»

Il testo del 10 gennaio s'impone con una tenaglia di disposizioni interconnesse univocamente orientate a “ridurre”, “semplificare”, “impedire”, “evitare” la manifestazione di qualsiasi livello di conflittualità sui posti di lavoro. Impedendo la presenza – oggi e soprattutto in futuro – di qualsiasi organizzazione differente da quelle “firmatarie” dell’accordo originario.

Peggio ancora. Vuole perseguire questo obiettivo aggirando quanto disposto dalla sentenza 231 della Corte Costituzionale (quella che ha fatto rientrare la Fiom negli stabilimenti Fiat), facendo finta di volerne rispettare le indicazioni. “Una presa per i fondelli”, la definisce Panici.

Vediamone i meccanismi, dunque.

Guglielmi individua la distinzione introdotta dallo stesso “testo unico” tra organizzazioni “firmatarie” dell’accordo (Cgil, Cisl, Uil) e “aderenti” (tutte quelle che ne accetteranno le regole). Alle prime è riconosciuta la “titolarità esclusiva” a partecipare alla stipulazione dei contratti nazionali, alle seconde viene magnanimamente concessa la presenza in quella aziendale.

In più, dovranno superare il 5% nella media ponderata tra iscritti e votanti per le Rsu. In più ancora dovranno aver firmato i contratti precedenti. Non si tratta di condizioni fra loro alternative (in quel caso sarebbe stato scritto “o” questo “o” quello), ma contemporanee. Quindi impossibili da possedere. Un sindacato diverso da quei tre – quindi “non firmatario” – può infatti avere più del 5%, ma non aver firmato il precedente contratto, e quindi resta privo della “titolarità” ad avere propri delegati nelle Rsu o nelle Rsa. Un sindacato nuovo, anche se raggiungesse il 100%, sarebbe comunque escluso per lo stesso motivo; quindi diventa inutile fondarne altri. Insomma: quei tre hanno il monopolio perenne e nessuno potrà mai sostituirli.

In più, viene sanzionato il diritto di sciopero. Ovvero un diritto costituzionale che appartiene ai singoli lavoratori, un diritto universale “indisponibile”, che può essere “regolato” nelle forme di esercizio – e lo è già, in un senso molto restrittivo – ma non sanzionato. Anche qui il meccanismo è complicatissimo, tanto da poter far dire che non è “certa” la sanzione per il singolo lavoratore. Però viene ammessa la sanzione – “anche economica” – per i sindacati e i delegati, ed è semplice constatare che lo sciopero non viene mai fatto da un singolo; il diritto è infatti individuale, ma viene sempre esercitato in forma collettiva. Scioperare, insomma, presuppone un’organizzazione. Vecchia o nuova, non importa. Sanzionare l’organizzazione che dichiara sciopero è insomma anche un modo di impedire che i singoli possano scioperare. A meno di non sconfinare in quella condizione per cui tutti i lavoratori si ribellano al di fuori delle organizzazioni esistenti, scioperando in barba alle regole. Condizione limite, come si vede. Che storicamente si è verificata poche volte, e soltanto in regimi dittatoriali. Appunto.

In più ancora, emerge un’altra novità: la “sanzione economica”. In pratica, se lo sciopero viene riconosciuto “illegittimo” (per di più da una “commissione arbitrale” composta dai soli “firmatari”, ovviamente contrari), viene erogata una “multa” più o meno pesante. Ma essendo i contratti di lavoro (di qualsiasi livello) dei semplici “patti tra privati”, si apre in questo modo la strada alla possibilità che le imprese avviino delle cause per “risarcimento del danno” subito con lo sciopero. Non è fantascienza. Nell’Unione Europea è già avvenuto con le vertenze Viking, Laval, British Airways, che assumevano personale “straniero” per sostituire quello “indigeno” – coperto dai contratti nazionali – pagandolo anche un quinto del salario contrattuale. La Corte Europea ha riconosciuto in quei casi “prevalente” il cosiddetto “diritto di stabilimento” su quello di sciopero, condannando i sindacati a risarcire le aziende. E quindi a chiudere i battenti. È il segnale lanciato anche in Italia con le “ammende” comminate agli autoferrotranvieri genovesi, per la fermata del novembre scorso. La lotta di classe, insomma, bisogna “potersela permettere”…

Il massimo della presa in giro, o dell’incostituzionalità, è nell’istituzione dei “collegi arbitrali”. Composti da tre rappresentanti sindacali (uno a testa per i “firmatari”: Cgil, Cisl, Uil), “equilibrati” da tre membri di Confindustria, più un “esperto” esterno di comune gradimento. Un tribunale sommario travestito da un velo di “equilibrio”. Un velo squarciato, nella giurisprudenza del lavoro, addirittura nei testi di Gino Giugni o Tiziano Treu: “le regole con cui si organizza e agisce il sindacato non si decidono mai con la controparte”. E non un dovere “morale”, ma per una ragione “contrattuale” addirittura elementare: “ogni contratto nasce da un conflitto, ma non può mai impedirne il sorgere”. Si fa un contratto, insomma, tra due interessi diversi e contrapposti, che convergono su un compromesso.

Pensate all’acquisto di una casa. Il contratto fissa prezzo e condizioni accettate da entrambi, partiti da posizioni più o meno diverse. Se il venditore o il compratore fosse privilegiato nell’atto di stabilire le regole, avremmo immediatamente prezzi che salgono arbitrariamente (nel primo caso) e in discesa (nel secondo). Le regole del contratto, insomma, devono essere fissate da un terzo – la legge – in modo da garantire entrambi (poi, certo, ci sono le disparità di “abilità” di ognuna delle due parti, ma non riguardano la fissazione delle regole).

Nel “testo unico”, invece, le regole vengono fissate da “due parti private”, che si riconoscono reciprocamente ed escludono la sopravvenienza di qualsiasi altro. Questo arbitrato, sintetizza Ferrara, “è una delega in bianco a fare quello che gli pare”.

Come può accadere? Per consuetudine tutta italiana. Qui da noi, infatti, non è mai stata data traduzione legislativa al dettato dell’art. 39 della Costituzione, che regola natura e attività dei sindacati. Ed è avvenuto per volontà dei sindacati stessi, sia di quelli “storici” (oggi “firmatari”), sia di quelli più recenti (i corporativi, prima, poi anche quelli “di base”). Perché avrebbero dovuto registrarsi (e questo non è mai stato un problema), ma soprattutto avrebbero dovuto dotarsi di uno “statuto democratico”. Ovvero strutturarsi in modo da far corrispondere i gruppi dirigenti alla volontà degli iscritti. Chiunque sia passato per Cgil, Cisl e Uil sa benissimo che non si tratta di “società scalabili”; e che, soprattutto, non intendono affatto diventarlo.

Ma proprio su questo punto diversi costituzionalisti (Azzariti è quello più esplicito) pongono la possibilità – per il sindacalismo conflittuale, a cominciare dall’Usb – di “accettare la sfida dell’art. 39”. Di configurarsi, insomma, come il primo sindacato “in norma con la Costituzione”.

La Costituzione, appunto. La sua caratteristica fondamentale, il suo carattere “progressivo”, esce fuori con la massima chiarezza proprio nel momento in cui il capitale internazionale ne pretende la dissoluzione. Suonano nella sala, e nelle orecchie, le parole di Jp Morgan contro “il modello sociale europeo” e “le Costituzioni socialiste”… dell’Europa occidentale nel dopoguerra. A partire proprio da quei “diritti dei lavoratori” che ogni capitale, in ogni epoca, vive come un limite al proprio strapotere. A partire insomma da quel fondamento materiale della “democrazia” che risiede nella possibilità di ognuno di affidare la difesa dei propri interessi a chi più gli aggrada o – al limite – di proporsi come nuovo soggetto della rappresentanza. Non a caso, ricordano in molti, il “testo unico” persegue sul terreno sindacale la stessa “semplificazione” che la legge elettorale pattuita tra Renzi e Berlusconi persegue sul piano politico. Ed anche qui in violazione aperta, consapevole, strafottente, di quanto disposto da un’altra recentissima sentenza della Corte Costituzionale, quella che ha smantellato il “porcellum” abolendo il premio di maggioranza e il divieto della preferenza.

Come la nottola di Minerva, è al suo tramonto che se ne apprezzano di più i princìpi. Quando ormai non è più uno scudo, ma “solo un pezzo di carta” che i governi agli ordini dell’Unione Europea stanno stracciando senza alcuna resistenza. Tantomeno parlamentare.

Restano aperti i capitoli “come si contrasta questa deriva?” e “come si impedisce che il testo unico diventi la norma?”. Ma non è un convegno che può rispondere a questa domande.

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