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30/01/2014

La lenta morte dell'Iraq

Questa mattina un gruppo di uomini armati ha attaccato un ufficio del Ministero dei Trasporti, a Nord di Baghdad, prendendo in ostaggio alcuni civili. Secondo il Ministero dell'Interno, almeno sei uomini armati hanno preso d'assalto l'edificio. L'esercito è stato subito schierato fuori di esso. Secondo la tv di Stato, tre miliziani sarebbero stati uccisi, ma gli altri restano barricati dentro la struttura.

Per ora non giunge alcuna rivendicazione, ma sono molti coloro che imputano l'operazione all'ISIL, lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, gruppo vicino ad Al Qaeda e sempre più radicato sia nel Paese che negli Stati vicini, Siria in testa, dove controlla alcune comunità a Nord.

La presa di ostaggi di questa mattina è l'ennesima dimostrazione delle profonde divisioni settarie che da due anni insanguinano l'Iraq, mai pacificato dopo l'occupazione militare statunitense del 2003 e il successivo ritiro delle truppe di Washington nel dicembre 2011. Il governo sciita di Al Maliki è da tempo impegnato nella repressione delle comunità sunnite, sia a livello politico che economico, provocando così una vera e propria ribellione in molte aree del Paese, da parte di comunità che accusano Baghdad di una volontaria marginalizzazione della minoranza.

Un simile clima si traduce in scontri e attentati quotidiani, per lo più portati avanti da gruppi islamisti e qaedisti: ormai ogni giorno, da mesi, il Paese è costretto a seppellire decine di vittime di un conflitto interno che solo in parte è dovuto al contagio settario della vicina Siria. Questa mattina alcune bombe sono esplose vicino ad un mercato a Baghdad, uccidendo sei persone e portando il bilancio delle vittime del solo mese di gennaio a 909 morti (un bilancio tre volte più alto di quello del gennaio 2013).

La risposta del governo continua ad essere la repressione: secondo l'associazione Human Rights Watch, le autorità hanno condannato a morte per impiccagione almeno 151 persone nel 2013, 129 nel 2012 e 68 nel 2011.

La tensione resta alta soprattutto nella regione sunnita di Anbar, al confine con la Siria e fronte caldo fin dai tempi di Saddam Hussein, che a gennaio è stata teatro di un durissimo scontro tra l'ISIL e le forze governative, sostenute da alcune tribù locali. Epicentri della battaglia sono la città di Fallujah, in parte occupata dalle forze qaediste, e quella di Ramadi.

E se la risposta statunitense alla crisi irachena è l'invio nelle prossime settimane di elicotteri Apache, la comunità internazionale sta esortando Baghdad a avviare un processo di riconciliazione politica interna, con l'obiettivo di marginalizzare i gruppi jihadisti. In vista delle elezioni del 30 aprile, però, Al Maliki preferisce sfoderare i muscoli e lanciare operazioni militari contro i miliziani armati, cercando di accaparrarsi voti sventolando la minaccia qaedista alla sicurezza e alla stabilità del Paese.

Una stabilità che non è stata mai raggiunta dopo la caduta del regime di Saddam, con le nuove autorità irachene impegnate a radicare il loro potere politico ed economico a scapito della minoranza sunnita. La corruzione ha raggiunto livelli allarmanti, a dimostrazione della politica clientelare imposta dal governo Al Maliki, più attento ai propri interessi che a quelli di un Paese intrappolato nel limbo di un settarismo che sta scivolando sempre più velocemente nella guerra civile.

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