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25/01/2014

Crollano le borse, gli "emergenti" affondano


Le borse, croce e delizia della speculazione finanziaria, sono tornate a crollare. La ragioni di breve periodo indicate dai famosi e troppo ben retribuiti “analisti” recitano le frasi di rito: “preoccupazioni per la frenata cinese”, per “l'ulteriore allentamento degli stimoli monetari da parte della Federal Reserve” (il temuto tapering), “crollo delle valute dei paesi emergenti”.

Risultato finale: “una fase di correzione si va forse profilando all'orizzonte”. Tradotto per i non addetti ai lavori: il valore dei titoli azionari quotati in borsa era cresciuto troppo e adesso, per un po', cadranno.

Erano mesi che i più attenti – molto modestamente anche noi – sottolineavano come l'andamento dell'economia globale fosse decisamente schizoide: la parte “reale” (manifatturiero, servizi, trasporti, ecc.) era quasi dappertutto stagnante o in deciso calo, le borse al contrario volavano alto come mai.

Le “cause” di quella schizofrenia erano peraltro abbastanza chiare. Le banche centrali di Usa, Gran Bretagna e Giappone “pompavano liquidità” a rotta di collo nel sistema finanziario, al duplice scopo di sostenere il capitale finanziario (soprattutto le banche private) a riprendersi dopo i crolli del 2007-2009 e svalutare le rispettive monete nazionali (dollaro e yen, ma anche la sterlina), in modo da migliorarne la “competitività”. Una ricetta antica, che l'Italia aveva spesso utilizzato con grande profitto prima di essere inchiodata dalla moneta unica, ma che veniva ritenuta “sconveniente” dalla Banca centrale europea a imprinting tedesco. Risultato: per un paio di anni le economie di Usa e Giappone, ben ancorate a quella cinese (che nel frattempo accettava di lasciar rivalutare con molta cautela il yuan-renmimbi) facevano finta di crescere un pochino, mentre l'Europa lentamente si incagliava nelle sabbie della recessione.

Tutto questo gioco – chiamato dagli specialisti “guerra delle valute”, sia pure a livello non stratosferico – ha prodotto, come ogni guerra, delle vittime. Sono i “paesi emergenti” (Brasile, Turchia, Argentina, Sudafrica, India, buona parte dell'Est europeo, qualche altro paese asiatico), passati nel giro di pochissimi anni dalla crescita in doppia cifra alla stagnazione, provocata da una forte rivalutazione delle rispettive monete. Non è difficile da capire: se alcune monete svalutano (soprattutto se lo fanno quelle “di riferimento” nel mercato globale), altre si apprezzano. Il valore di cambio è infatti frutto di un sistema di vasi comunicanti, assolutamente relativi, senza alcun ancoraggio – se non puramente virtuale – a una “cosa fisica” (un tempo: l'oro).


Questa frenata spaventosa degli emergenti ha prodotto ora la sua conseguenza necessaria e indesiderata: crollano i valori delle monete relative (peso, real, rand, ecc.) perché le rispettive economie hanno bisogno di “riguadagnare” un margine di competitività. Il che implica problemi per quanti – Usa e Giappone principalmente – avevano finora fatto lo stesso. Tanto più che, soprattutto gli Stati Uniti, si trovano ora nella necessità di rallentare l'iniezione di liquidità che fin qui aveva sostenuto sia l'economia reale locale che la finanza globale. E senza liquidità “sicura”, anche la speculazione sui titoli rallenta, “prende beneficio” (ovvero vende immediatamente quel che ora ha un prezzo elevato, incassando così la plusvalenza creatasi rispetto al prezzo d'acquisto).

I problemi più grandi, a questo punto, sono però per l'Eurozona, stretta tra politiche deflazionistiche (e l'inflazione infatti si è lentamente annullata, sta per passare addirittura in negativo) e autonegazione della possibilità di immettere a sua volta liquidità. A pagare il prezzo più alto di questa trappola, com'è noto, sono state soprattutto le economie dei paesi “Piigs” (Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Cipro, ma ora anche Slovenia, Croazia, Lettonia, Francia), ma tutta l'Eurozona ha a questo punto un limite nella “moneta forte”; la quale zavorra anche quel poco di “competitività” ricavata a forza di taglia alla spesa pubblica, al welfare, ai salari reali, ai posti di lavoro e ai diritti. Tanti sacrifici per nulla. Il pericolo ha fatto fischiare le orecchie anche a Mario Draghi – decisamente più reattivo e intelligente dei suoi “tutori” germanici” – che a Davos ha finalmente ammesso che qualche rischio di deflazione esiste, ma che – naturalmente – “la Bce farà tutto quanto necessario” per combatterla. Non ha molte armi a disposizione per farlo: “stampare moneta” per deprezzarne il cambio, oppure acquistare titoli di stato dei paesi che immediatamente sono più a rischio.

La giornata di ieri ha sintetizzato tutte queste tendenze negative in un crollo generalizzato delle borse di oltre il 2% in media. Lo spread di Italia e Spagna nei confronti dei bund tedeschi ha ripreso a decollare, facendo così riemergere l'incubo di rendimenti più alti da pagare per i titoli il debito pubblico (una minaccia diretta per i bilanci statali, nel frattempo crocifissi dal “pareggio di bilancio” e nell'attesa della devastazione promessa dal fiscal compact).

Bentornati con i piedi sulla terra. La crisi è tra noi. Sei anni e mezzo (dall'agosto 2007) di politiche a là carte a favore del capitale finanziario non hanno risolto alcun problema. L'hanno solo aggravata. È questa la luce che vedevi in fondo al tunnel, mr. Monti? Beh, è davvero quella di un treno che sta arrivando in direzione opposta.

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