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26/01/2014

Che succede in Argentina?


È notevole il fatto che quando la speculazione colpisce l’Italia la colpa sia… della speculazione, mentre invece se il peso argentino perde valore la colpa sia del governo di Néstor Kirchner prima e di Cristina Fernández ora. Non tutto va benissimo in Argentina (perché mai dovrebbe?) e i dati macroeconomici (il cambio peso/dollaro con il primo che ha perso il 16% del suo valore in 48 ore, l’inflazione, il rallentamento del PIL, la difficoltà a creare lavoro formale pur con una disoccupazione sotto il 7%) non sono indifferenti alla tenuta complessiva delle politiche redistributive in atto nel continente dall’inizio del secolo. In particolare la salute di Cristina, evidentemente delicata, si presta a interpretazioni tendenziose e malevole da parte di chi non vede l’ora di porre fine all’anomalia latinoamericana. Sui problemi di salute di troppi dei leader latinoamericani che hanno voltato pagina dopo la lunga notte neoliberale (le morti di Néstor e Hugo Chávez, le malattie di Lula, di Lugo, di Mujíca…) si potrebbe oramai aprire un’ardita comparazione con la malattia e la scomparsa altrettanto precoce di Lenin e augurarsi che non ci sia omologia possibile.

Va ricordato però dove siamo, in Argentina, in America e nel mondo. La realtà è che nonostante il rallentamento dell’impetuosa crescita economica di questi anni, l’Argentina e l’America latina integrazionista continuano a ridurre le disuguaglianze, un dato che stizzisce i soloni riuniti a Davos che vedono nell’America latina una testimonianza vivente della fallacia e dell’ingiustizia del modello. Rispetto alla fine degli anni ’90, probabilmente il momento di massima disuguaglianza nella storia del paese, l’indice di Gini che la disuguaglianza misura è oggi quasi dimezzato. Per il PIL e il valore del dollaro, gli unici parametri che hanno valore sul mercato mondiale, l’uguaglianza è un ingombro, un disvalore che impedisce il liberarsi degli spiriti animali del mercato e della creazione di ricchezza. Per fare solo un esempio uno dei tanti programmi del governo ha permesso nel 2013 la creazione di 85.000 imprese industriali. Un altro programma concentra gli sforzi (spesa pubblica clientelare dicono i critici) nell’inserimento nel mondo del lavoro di quei giovani di classe popolare tra i 18 e i 24 anni che altro non sono che il terrore delle classi medie razziste di sempre.

Queste (manovrate dai media tuttora monopolisti) continuano a vedere quelle “testoline nere” che arrivano dalle periferie come il nodo dei loro timori di sicurezza, chiedono mano dura, guardano a destra e sono indotti a credere che la principale libertà sia quella di acquistare e possedere dollari. Non è così, la principale libertà resta quella dal bisogno, resta l’inserimento sociale, l’uguaglianza e le politiche redistributive. E al di fuori dai paesi centrali (e anche lì…), come testimoniano i problemi simili del Venezuela bolivariano, la giustizia sociale, un alto livello di spesa pubblica volto a politiche redistributive, sono incompatibili con gli indici macroeconomici che il modello neoliberale pretende a qualunque costo, anche umano.

Le politiche pubbliche volte alla creazione di uguaglianza e sicurezza sono infatti viste come il fumo negli occhi dai mercati internazionali e la caduta del peso è una pistola puntata sul paese. L’ultima volta, con la dollarizzazione, fu scelta la strada dei sacrifici umani, della distruzione dello stato sociale, della carestia indotta dall’FMI con migliaia di morti per fame, della deindustrializzazione del paese e della svendita totale di questo. Con tutti i difetti e le fragilità l’Argentina che ha riaperto scuole e ambulatori e dimezzato la disuguaglianza, e che comunque si avvia alla fine di un ciclo, è mille volte meglio.

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