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19/12/2013

Conflitto "competitivo"


Il clamoroso flop dei “forconi” in piazza del Popolo mette fine a dieci giorni di discussioni abbastanza schizoidi, anche nella sinistra antagonista italiana. Duemila persone al massimo, parecchi dei quali fascisti, molti dei quali legati al network di CasaPound, qualche imprenditore agricolo o commerciante fallito o sul punto di esserlo, si aggiravano inutilmente in uno spazio troppo più grande delle loro ambizioni. Persi per strada gli autotrasportatori, i “mercatari”, i negozianti e tanti “campioni statistici” di altre altre figure sociali che stanno pagando un prezzo feroce alla crisi.

Alla fine della fiera, dunque, abbiamo un “malessere sociale” diffuso, trasversale a diversi settori delle classi più deboli, e un tentativo di egemonia politica chiaramente fascista e chiarissimamente fallito.

Per ora.

Nessuna “rivolta spontanea”, come si era capito subito, ma una operazione politica, progettuale, mirata a mobilitare e “rappresentare” segmenti sociali abbastanza definiti. Ai quali, in qualche caso e per un paio di giorni, si erano aggregate figure sociali diverse, come a Torino. Spaccature interne alla “testa politico-sindacale” del movimento, inesistenza di una piattaforma “vertenziale” credibile e “incredibilità” dei figuri propostisi come “leader politici” hanno rapidamente esaurito il piccolo patrimonio di mobilitazione creato la scorsa settimana, anche grazie alla “generosa” ed esagerata copertura mediatica mainstream.

Questo fallimento naturalmente non significa che prima o poi un'operazione simile non possa riuscire. Fare gli scongiuri o eccedere nell'ironia sarebbe davvero fuori luogo.

Parliamo dunque di noi, della “sinistra antagonista”, e di come abbiamo reagito di fronte a questa prima “variazione sul tema”.

Speriamo sia chiusa definitivamente la fase delle introspezioni sociologiche, dei conati di “analisi della composizione di classe” realizzati tramite suggestioni soggettive di fronte al fluire di “gente” nelle strade. Il massimo esempio di questa disposizione “a capire”, guardandosi bene dal “pensare”, resta a nostro avviso il pezzo di Marco Revelli su il manifesto. Una lunga – molto ben scritta, a tratti affascinante – carrellata in soggettiva per le vie di Torino, dove però, per diabolica magia, si riesce a non nominare mai “il padrone della città”: la Fiat. Come se “l'analisi strutturale” fosse demodé, come se i movimenti del capitale che non “incontriamo per strada” non avessero influenza sui corpi e sulle menti delle persone reali, che le strade invece percorrono. Come se la fuga da Torino – e dall'Italia – di quello che è stato il fulcro “privato” dello sviluppo industriale non fosse rilevante. Stiamo parlando dell'alfa e dell'omega dello scontro di classe in questo paese per un secolo abbondante, che nel giro di pochissimi anni sta attraversando l'Atlantico, abbandonando a un destino di decadenza in primo luogo Torino.

Un problema troppo grosso per essere affrontato con gli strumenti della sociologia “osservativa”, vero? Eppure da questo “movimento” (la fuga, come prima la “presa” della Fiat) dipende tutto, e soprattutto – ma non solo – a Torino.

Ma finiamola qui. C'è un malessere sociale profondo e terribile, con motivazioni concretissime e prospettive imperscrutabili. E si è aperta ufficialmente la “competizione” politica per trasformare questo malessere in un “blocco sociale”, da organizzare sul piano “vertenziale” e da rappresentare sul piano politico. L'avversario è chiaro per tutti: l'Unione Europea, i suoi diktat, le politiche di austerità, lo svuotamento degli istituti della “democrazia rappresentativa”, l'espropriazione di qualsiasi decisione riguardo a noi stessi.

I fascisti hanno fatto la loro mossa. Noi avevamo fatto la prima, con il 18 e 19 ottobre. I fascisti lavorano – come sempre – “per i padroni”. Vuol dire che “sollevano” agitazione per ricondurla nell'alveo del consenso, magari mugugnante, al potere e agli interessi in esso prevalenti contro cui affermano di voler combattere.

Noi abbiamo in testa un'altra partita. Ma i “ceti sociali” di riferimento, in qualche misura e in qualche snodo, si sovrappongono. Non ci sono soltanto “i nostri” (lavoratori dipendenti, pubblici e privati, precari e stabili, disoccupati ed esodati, pensionati, finte partite Iva e “neet”, ecc), ma anche frazioni consistenti di piccola borghesia produttiva e commerciale. La “competizione” dei fascisti parte da questi ultimi settori per mettere in moto una protesta che tenda a coinvolgere anche “i nostri”. Noi dobbiamo fare l'esatto contrario.

Per riuscirci servono analisi, progetto, proposta, strumenti organizzativi all'altezza della sfida, non "alla bassezza” in cui siamo tutti costretti. Serve capacità e volontà di creare una “massa critica” senza la quale non “si pesa” sul conflitto sociale, anche se si agisce – localmente, settorialmente, episodicamente – il conflitto. Eppure sembra che in questa sinistra conflittuale, antagonista, manchi non solo la “capacità” di fare massa critica, ma addirittura la comprensione di quanto sia necessaria; quindi la volontà di crearla. Come se la solitudine dei piccoli gruppi – o dei micro-partiti – fosse il massimo che una patetica idea di “auto-rappresentazione” consente di immaginare.

Per riuscirci non serve attendere le “esondazioni dell'eccedenza”, pronti per l'immersione, perché non ce ne saranno mai di “spontanee”. Ogni momento di conflitto, anche da destra, parte da un'iniziativa soggettiva capace di incontrare – almeno in parte – un “malessere”. Qui si misura se l'”essere antagonisti” è uno stato d'animo sottostante ad alcuni modelli comportamentali oppure movimento di trasformazione reale delle cose presenti.

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