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25/12/2013

Addio al petrolio, il “picco” è arrivato

Strana gente, i geologi petroliferi. Fin quando sono in servizio presso una delle “sette sorelle” sono attivissimi nel sostenere la linea ufficiale della compagnia, negando qualsiasi problema di ”scarsità” negli approvvigionamenti futuri e – figuriamoci – ogni turbamento proveniente dal “picco di Hubbert”, la legge fisica enunciata oltre 50 anni fa da un altro geologo, secondo cui la produzione di greggio inizia a declinare una volta raggiunta la metà delle risorse disponibili. Legge che vale per un singolo giacimento come per l’insieme dei giacimenti del pianeta.

Una volta in pensione, infatti, una buona fetta dei geologi – in genere i più autorevoli – cambiano completamente atteggiamento, denunciando che i tempi del “petrolio facile” (e cheap, poco costoso) sono finiti per sempre. Che, in conclamata assenza di alternative altrettanto potenti, bisogna prepararsi a un futuro ben gramo; pieno di fame, carestie, guerre per le risorse residue.

È la volta di Richard G. Miller, ex British Petroleum. Che conferma pienamente come il temutissimo “picco” sia stato probabilmente già superato nel 2008; e che solo la crisi economica globale – che ha ridotto la domanda complessiva di energia – e il contemporaneo (ma di breve momento) sfruttamento di gas e petrolio dalle scisti bituminose ha permesso di mantenere “piatta” l’offerta di greggio e/o equivalenti (gli Usa, per esempio, si stanno buttando disperatamente sul gas naturale).

Questo articolo di Nafeez Ahmed, apparso nei giorni scorsi sull’inglese Guardian – lo stesso quotidiano che ha fatto esplodere il Datagate – fa il punto della situazione. E nemmeno tanto tra le righe squaderna al mondo intero la più semplice delle verità: questa crisi non avrà fine. O con essa finirà anche il modo di produzione capitalistico (e l’attuale stile di vita), oppure una “ripresa” sarà possibile soltanto dopo che l’umanità (e i capitali in eccesso che la dominano senza dominare anche le proprie dinamiche interne) sarà stata quantitativamente ridotta a una percentuale della cifra attuale.

Difficile infatti non capire che senza energia da idrocarburi l’attuale modo di vita e produzione è semplicemente impossibile. E che non ci sono “soluzioni indolori” fin quando l’unico interesse contemplato (e militarmente difeso) è il profitto del singolo capitale, non l’interesse generale della umanità alla sopravvivenza.

Per la prima volta nella Storia, dunque, il capitale – il modo di produzione relativo – si scontra non solo con gli antichi “limiti interni” (la lotta di classe, la crisi di sovrapproduzione, ecc), ma anche con due limiti esterni insuperabili: l’esaurimento delle risorse non riproducibili e il collasso ambientale. Solo la “scoperta” di una fonte energetica alternativa, disponibile nella quantità crescente necessaria all’accumulazione capitalistica, potrebbe allontanare uno di questi due limiti esterni. Ma non se ne vede ancora traccia (tutte le “energie rinnovabili”, al momento, presentano altri limiti e non sono altrettanto “versatili” degli idrocarburi).

Se anche venisse trovata domattina, però, si porrebbe comunque il problema di sostituire completamente il ciclo produttivo, i modelli di consumo, le infrastrutture tecnologiche di ogni ordine e grado, che al momento sono “tarati” sul petrolio o il gas. Servirebbe un mondo politicamente coeso e “solidale” per gestire questa transizione in modo efficiente e pacifico; e in ogni caso non sarebbe un change mordi e fuggi. Almeno per un ventennio.

Di tutto questo si discute e ragiona apertamente, nel mondo. Qui da noi il silenzio è quasi totale. “Merito” dell’Eni, certamente, che controlla direttamente o indirettamente buona parte dei media e delle forze politiche principali (pubblicità, finanziamenti diretti o indiretti, ecc). Ma demerito soprattutto di un ceto intellettuale in disarmo, scarso sul versante scientifico e dimentico anche della necessità obiettiva di un “pensiero forte”, in grado di misurarsi con i problemi della “totalità” e non solo di fornire argomenti pret-a-porter per l’affabulatore di turno.

Demerito anche di quasi tutte le frange della “sinistra antagonista”, afone sul piano della critica al modo di produzione reale (di sparate ideologiche è pieno il web), tutte prese da beghe di cortile, piegate in due dalle mille versioni di un “pensiero a chilometri zero”, che non si azzarda ad andare oltre i confini dell’orto in cui si sopravvive. E che, nei casi peggiori, si crogiola in una sorta di “elogio dell’ignoranza” che è la miglior confessione di resa intellettuale di fronte alla complessità del mondo.

I problemi che questa crisi pone sono enormi e richiederebbero la concentrazione di tutte le capacità intellettuali, di mobilitazione, di condensazione in organizzazione stabile. Sono problemi dal timing estremamente ravvicinato e non tollerano nemmeno un attimo di gigioneggiamento. L’unica arte che in Italia fa scuola.

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Un ex geologo della British Petroleum (BP) ha lanciato l’allarme: l’età del petrolio a buon mercato sta finendo, portando con sé il pericolo di “recessione continua” e un aumento del rischio di conflitti e fame.
All’inizio di questo mese, nel corso di una conferenza sui “Geohazards”, come parte del corso post-laurea per assicuratori sui “pericoli naturali”, presso l’University College of London (UCL), il dottor Richard G. Miller, che ha lavorato per BP dal 1985, prima di ritirarsi nel 2008, ha detto che i dati ufficiali dalla International Energy Agency (IEA), US Energy Information Administration (EIA), Fondo Monetario Internazionale (FMI), tra l’altro, hanno dimostrato che il petrolio convenzionale ha probabilmente raggiunto il picco intorno al 2008.
Il dottor Miller ha criticato la linea ufficiale dell’industria petrolifera – le riserve mondiali durerebbero 53 anni ai tassi attuali di consumo – sottolineando che “il picco è il risultato del calo dei tassi di produzione, non di riserve in calo. ” Nonostante le nuove scoperte e l’aumento della produzione di petrolio non convenzionale e di gas, 37 paesi sono già post-picco, e la produzione globale di petrolio è in calo del 4,1% circa all’anno, o 3,5 milioni di barili al giorno (b/d) per anno.

“Abbiamo bisogno di nuova produzione pari ad una nuova Arabia Saudita ogni 3 o 4 anni per mantenere e far crescere la fornitura… Le nuove scoperte però non tengono il passo con il consumo dal 1986. Stiamo disegnando sulle nostre riserve, anche se le riserve stanno apparentemente salendo ogni anno. Le riserve sono in crescita grazie a una migliore tecnologia nei vecchi campi petroliferi, aumentando la quantità possiamo recuperare qualcosa – ma la produzione è ancora in calo del 4,1% annuo”.

Il dottor Miller, che ha preparato le proiezioni annuali in-house sulla futura fornitura di petrolio per BP 2000-2007, si riferisce a questo come il “problema ATM” – “più soldi, ma prelievi quotidiani ancora limitati”. Di conseguenza: “la produzione di petrolio liquido convenzionale è rimasta piatta dal 2008. La crescita dell’offerta di liquido da allora è stata in gran parte coperta dai liquidi di gas naturale [NGL] – metano, propano, butano, pentano – e petrolio da sabbie bituminose».
Il dottor Miller è co-editore di un numero speciale della prestigiosa rivista Philosophical Transactions della Royal Society, pubblicato questo mese sul futuro dell’approvvigionamento petrolifero. In un documento introduttivo scritto a quattro mani con il dottor Steve R. Sorrel, co-direttore del Gruppo Sussex Energy presso l’Università del Sussex, a Brighton, sostiene che tra gli esperti del settore petrolifero “c’è un consenso crescente sul fatto che l’era del petrolio a buon mercato sia finita e che stiamo entrando in una fase nuova e molto diversa”. Entrambi approvano le conclusioni prudenziali di un ampio studio precedente del Centro Energy Research (UKERC) finanziato dal governo britannico.

“… Un calo sostenuto della produzione convenzionale globale appare probabile prima del 2030 e vi è un rischio significativo che questo inizi prima del 2020… e l’evidente l’inserimento in corso di risorse provenenti dal tight oil [petrolio di scisto] appare improbabile che possa influenzare in modo significativo questa conclusione, in parte perché le risorse base appaiono relativamente modeste”.
In realtà, la crescente dipendenza dallo scisto potrebbe peggiorare i tassi di declino nel lungo periodo:

“La maggiore dipendenza dalle risorse petrolifere prodotte utilizzando la fratturazione idraulica aggraverà ogni tendenza al rialzo dei tassi di declino medio globale, dal momento che questi pozzi non hanno plateau e diminuiranno in modo estremamente veloce – per esempio, del 90% o più nei primi 5 anni “Le sabbie bituminose finiranno nello stesso modo, concludono i due ricercatori, sottolineando che “le sabbie bituminose canadesi forniranno solo 5 ​​milioni di barili al giorno fino il 2030, che rappresenta meno del 6 % della proiezione IEA sulla produzione di tutti i ‘liquidi’ per tale data”.

Nonostante la proiezione prudente del picco del petrolio globale “prima del 2020″, essi sottolineano anche che:

“La produzione di greggio è cresciuta di circa 1,5% all’anno tra il 1995 e il 2005, ma poi si è appiattita con gli aumenti più recenti di “liquidi” in gran parte derivanti da NGLs, sabbie bituminose e olio di scisto. Si prevede che queste tendenze continueranno… La produzione di petrolio greggio è fortemente concentrata in un piccolo numero di paesi e in un piccolo numero di campi “giganti”, con circa 100 campi che producono la metà delle risorse a livello mondiale, 25 che ne producono un quarto e un singolo campo (Ghawar, in Arabia Saudita) che ne produce circa il 7%. La maggior parte di questi campi giganti sono relativamente vecchi, molti sono ben oltre il loro picco di produzione, la maggior parte del resto sembra abbastanza vicina all’inizio del declino entro il prossimo decennio o giù di lì, e ci si aspetta che ben pochi nuovi giacimenti giganti possano essere trovati”.

“Il picco finale sta per essere deciso dal prezzo, ma quanto possiamo permetterci di pagare?”, mi ha detto il dottor Miller in una intervista sul suo lavoro. “Se possiamo permetterci di pagare $ 150 al barile, potremmo certamente produrre di più per pochi anni, guadagnando tempo importante per nuovi sviluppi, ma questo potrebbe spaccare di nuovo le economie”.

Miller sostiene che a tutti gli effetti, il picco del petrolio è già arrivato, dato che le condizioni sono tali per cui, nonostante la volatilità, i prezzi non possono ritornare ai livelli pre-2004 (intorno ai 30 dollari al barile, ndr).

“Il prezzo del petrolio è salito quasi ininterrottamente dal 2004 ad oggi, a partire da $ 30. C’è stato una grande picco a quasi $ 150 e poi un crollo nel 2008/2009 (in seguito al blocco delle economie dopo il fallimento di Lehmann Brothers, ndr), ma da allora è risalito a $ 110 ed è restato lì. L’aumento dei prezzi ha portato un sacco di nuova esplorazione e di sviluppo, ma questi nuovi campi non rappresentano effettivamente un consistente aumento della produzione, a causa del declino dei campi più anziani. Ciò è compatibile con l’idea che siamo praticamente al picco oggi. Questa recessione è quanto somiglia di più al picco del petrolio”.

Anche se è sprezzante circa la capacità del petrolio e del gas di scisto di prevenire il picco e il successivo lungo declino della produzione mondiale di petrolio, Miller riconosce che c’è ancora qualche margine di manovra che potrebbe portare significativi, anche se temporanei, dividendi per la crescita economica degli Stati Uniti – anche se solo come “un fenomeno di relativamente breve durata “:

“Siamo come una gabbia di topi da laboratorio che hanno mangiato tutti i cornflakes e hanno scoperto che si può mangiare anche i pacchetti di cartone. Yes, we can, ma… L’olio di scisto può raggiungere una produzione di 5 o addirittura 6 milioni di barili al giorno negli Stati Uniti, il che potrà aiutare enormemente l’economia americana insieme allo shale gas. Le risorse di scisto, però, sono inadeguate per i paesi più densamente popolati come il Regno Unito, perché l’industrializzazione della campagna colpisce molte più persone (con molto meno disponibilità di spazio naturale alternativo), ed i benefici economici sono distribuiti in misura minore tra più persone. La produzione di petrolio da scisto negli Stati Uniti raggiungerà probabilmente il picco prima del 2020. Non sarà assolutamente sufficiente per sostituire i 9 milioni di barili al giorno importati attualmente dagli Stati Uniti”.

A sua volta, prolungandosi la recessione economica globale, i prezzi elevati del petrolio potrebbero ridurre la domanda. Un caduta della domanda a sua volta potrebbe mantenere più a lungo un plateau produttivo di petrolio oscillante sui livelli attuali.

“Siamo probabilmente nel picco del petrolio già oggi, o almeno nel tratto finale della collina. La produzione potrebbe salire ancora un po’ per alcuni anni, ma non abbastanza da portare il prezzo verso il basso. In alternativa, una recessione prolungata in gran parte del mondo può mantenere la domanda sostanzialmente piatta per anni al prezzo di $ 110 al barile, come abbiamo oggi. Ma non possiamo far crescere l’offerta ai tassi medi passati, ovvero di circa 1,5% all’anno, ai prezzi di oggi”.

La dipendenza fondamentale della crescita economica globale da forniture di petrolio a buon mercato suggerisce che mentre continuiamo nell’era del caro petrolio e del gas, senza sforzi appropriati per mitigare gli impatti e la transizione a un nuovo sistema energetico, il mondo affronta un futuro di turbolenza economica e geopolitica.
“Negli Stati Uniti, i prezzi elevati del petrolio sono correlati con altrettante recessioni, anche se non tutte le recessioni si correlano con alti prezzi del petrolio. Questo non dimostra un nesso di causalità, ma è molto probabile che quando gli Stati Uniti pagano più del 4 % del PIL per il petrolio, o più del 10% del PIL per l’energia primaria, l’economia declina visto che il denaro viene risucchiato in acquisti di carburante invece che di altri beni e servizi… Una carenza di petrolio influenzerà ogni comparto dell’economia. Mi aspetto più fame, più siccità, più guerre per le risorse e un’inflazione costante del costo energetico di tutte le merci”.

Secondo un altro studio pubblicato nell’edizione speciale del Royal Society journal dal professor David J. Murphy della Northern Illinois University, un esperto del ruolo dell’energia nella crescita economica, il ritorno energetico sull’investimento (indice EROI) per la produzione di petrolio e gas a livello mondiale – l’ammontare di energia prodotta rispetto alla quantità di energia investita per ottenere, trasportare e utilizzare l’energia – è di circa 15 ed è in calo. Per gli Stati Uniti, l’indice EROI della produzione di petrolio e gas è ad 11 ed è in calo; e per il petrolio e biocarburanti non convenzionali è in gran parte meno di 10. Il problema è che, quando diminuisce l’EROI, i prezzi dell’energia aumentano. Così, Murphy conclude:

“… Il prezzo minimo del petrolio necessario per aumentare nel breve termine l’offerta di petrolio è a livelli coerenti con quelli che in passato hanno indotto recessioni economiche. Partendo da questi dati certi, concludo che, quando l’indice EROI del barile declina, la crescita economica a lungo termine sarà più difficile da raggiungere e avverrà ad un costo finanziario, energetico e ambientale sempre più elevato”.

L’EROI attuale negli Stati Uniti, ha detto Miller, semplicemente “non è sufficiente per supportare l’infrastruttura degli Stati Uniti, anche se l’America fosse autosufficiente, senza aumentare la produzione anche oltre il consumo corrente”.

Nell’introduzione alla loro antologia di articoli sulla rivista Royal Society, Miller e Sorrell sottolineano che “la maggior parte degli autori ” presenti nella edizione speciale “concordano sul fatto che le risorse di petrolio convenzionale sono in una fase avanzata di esaurimento e che i combustibili liquidi diventeranno più costosi e sempre più scarsi”. La “rivoluzione” dello shale può fornire solo un po’ di “sollievo a breve termine”, ma è comunque “improbabile che faccia una differenza significativa nel lungo termine”.

Essi chiedono una “risposta coordinata ” per affrontare questa sfida e mitigarne l’impatto, tra cui “profondi cambiamenti nei sistemi di trasporto a livello mondiale”. Mentre alcune “soluzioni ecocompatibili al ‘picco del petrolio’ sono disponibili”, avvertono, queste non saranno né ” facili ” né “rapide”, e implicano un modello di sviluppo economico che accetta più bassi livelli di consumo e di mobilità.

Nell’intervista che mi ha concesso, Richard Miller era particolarmente critico verso le politiche del governo britannico, tra cui l’abbandono di progetti per parchi eolici su larga scala, la riduzione delle tariffe incentivanti le energie rinnovabili, e il supporto allo shale gas. “Il governo farà di tutto per ottenere un rimbalzo economico a breve termine”, ha detto, “ma la conseguenza sarà che il Regno Unito sarà più strettamente legato a un futuro a base di petrolio, e saremo noi a pagare un prezzo alto per questo”.

* Nafeez Ahmed è direttore esecutivo dell’Institute for Policy Research & Development e autore della Guida per l’utente alla crisi di civiltà: e come salvarsi.

Traduzione personale da http://www.theguardian.com/environment/earth-insight/2013/dec/23/british-petroleum-geologist-peak-oil-break-economy-recession

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