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24/12/2013

La Germania dei poveri rivela la debolezza dell'Unione Europea


A quanti interpretano le vicende dell'Unione Europea in chiave “nazionalistica” consiglieremmo vivamente di guardare meglio a quello che sta avvenendo oggi in Germania, ovvero nel paese che indubbiamente ha guadagnato di più dalla creazione dell'euro (in termini di condizioni di partenza, concambio, ecc).

Se, infatti, la politica economica di Berlino – imposta ai partner riluttanti o entusiasti – fosse stata concepita in termini davvero “nazionalistici” oggi dovremmo riscontrare in quel paese un arricchimento sostanziale anche del lavoro dipendente, una maggiore sicurezza sociale, una più equa distribuzione della ricchezza.

Nulla di tutto questo. E i dati più recenti mostrano un aumento delle diseguaglianze (tra regioni e ceti sociali) e un aumento abbastanza rapido dei “poveri”, ovvero quelli che mettono insieme un reddito inferiore agli 848 euro al mese, 1.278 per le coppie. Si tratta di soglie equivalenti al 60% del reddito medio. Gli “indigenti” ufficialmente censiti sono passati in sei anni (dal 2006 in poi) dal 14 al 15,2%. In alcune zone del paese, come nel land dell'Est o nella città di Brema si supera anche il 10%. Persino nella capitale, Berlino, che pure gode fama di grande vivibilità, la percentuale sale al 21,2%, 2,5 punti in più del 2008.

Una ragione strutturale sta nella forte immigrazione dai paesi dell'Est europeo, che ovviamente contribuiscono ad abbassare in modo drastico le “pretese salariali” (un classico, per chi conosce i meccanismi che impongono l'esistenza di un grandissimo “esercito salariale di riserva”). Un fenomeno cui concorrono ormai anche molti italiani, greci, spagnoli e portoghesi; soprattutto giovani e ben laureati.

L'altra ragione strutturale è l'esistenza dei mini-job, lavori part-time per cui i datori di lavoro godono di sovvenzioni statali (rientrano nel programma di “riforme” disegnato dal socialdemocratico Gerhard Schroeder, predecessore della Merkel ma sull'identica linea, il cosiddetto Hartz IV).

La compressione salariale che ne è derivata, nel giro di un decennio, è stata di tali dimensioni da far assumere ai socialdemocratici l'iniziativa di imporre un “salario orario minimo” di 8,5 euro come punto “decisivo” della propria partecipazione al governo di coalizione con la Merkel. L'hanno ottenuto, ma dal 2016...

“In compenso”, i pensionati teutonici se la passano davvero male: oltre il 30% prende il minimo, 688 euro al mese. Più che in Italia, certo, con una edilizia pubblica che rappresenta quasi il 40% del mercato immobiliare (in Italia, ormai, soltanto il 2%) e a sostanziale parità dei prezzi (l'euro ha “livellato” soltanto questi, non certo le condizioni di vita); ma non certo un reddito da bengodi.

In sintesi, dunque, i redditi complessivi degli strati popolari non consentono affatto alla Germania di diventare la “locomotiva dei consumi” di cui avrebbero bisogno gli altri paesi Ue – soprattutto i Piigs – per risollevare il proprio Pil.

Ma questa è anche la principale differenza con gli anni '30, quando – addirittura sotto il nazismo – i lavoratori in genere venivano “protetti” sul piano salariale (non certo su quello dei diritti!), per conquistarne il consenso al regime. Al fondo delle politiche Ue e della Troika, declinate in anticipo dai governo tedeschi, non c'è affatto il “nazionalismo” novecentesco, ovvero la retorica – tradotta in fatti – del “siamo tutti nella stessa barca”, con l'ausilio di investimenti pubblici, discreti livelli salariali e condivisione “di massa” delle politiche dello Stato.

C'è invece l'interesse fondamentale della finanza privata e della manifattura export oriented, che hanno contemporaneamente ridisegnato (insieme alla Bce) le priorità del mercato finanziario e le filiere produttive, sradicando violentemente quelle dei paesi deboli. In particolare dell'Italia, dove una borghesia che non esiste sul piano imprenditoriale (“bollettari”, speculatori edili, rottamatori delle proprie stesse aziende, ecc) e una classe politica immonda hanno collaborato fattivamente alla distruzione di un patrimonio industriale (e del know how relativo, università compresa) costruito nel corso di un secolo, soprattutto grazie all'intervento pubblico. Ovvero con i nostri soldi.

Insomma, l'Unione Europea si va costruendo senza ricercare in nessun paese un “consenso popolare positivo”, fondato sul miglioramento delle condizioni di vita, anche a scapito di quelle delle popolazioni di altri paesi. Nemmeno in Germania. Al contrario, si evidenzia in questo percorso un programma di impoverimento generale delle popolazioni, quasi un voler creare "condizioni post-belliche" senza passare per un conflitto interimperialistico dagli esiti imprevedibili e incontrollabili.

È dunque un mistero da dove i poteri sovranazionali pensino di poter trarre una “legittimità democratica” per i propri programmi. In assenza della quale, è scritto nelle cose, tutta la costruzione europea non potrà che crollare come un castello di carte mal congegnato. Anticipare l'esito, creare le condizioni politiche, sociali, culturali per una "rottura a sinistra" di questa camicia di forza, diventa l'unico progetto credibile per chi vuol cambiare - internazionalisticamente - il mondo.

Fonte

I grassetti sono del sottoscritto.

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