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27/11/2013

La crisi politica, oltre il teatrino

C’è una tentazione alla quale bisogna resistere, quella cioè di considerare le scene che si svolgono sul palcoscenico istituzionale immagini di un mondo separato, lontano dalla società reale e con logiche interne su cui non vale la pena di indagare. E quindi i commenti su ciò che in quei luoghi avviene privi di interesse, se non per la parte meno visibile dei salassi al lavoro salariato e delle misure repressive che dovrebbero mettere quel mondo al riparo da proteste e rivolte.
La tentazione si fonda su dati reali, naturalmente. Il dato essenziale lo aveva già colto Paul Valéry, quando scriveva che la politica è l’arte di impedire alla gente di occuparsi di ciò che la riguarda. Del resto una battuta, abusata ma comunque felice, chiama “armi di distrazione di massa” il chiacchiericcio mediatico sulle disavventure giudiziarie di Berlusconi, sulle amicizie pericolose di Cancellieri e sulle balls of steel dell’attuale presidente del Consiglio.
E’ per questo che chi agisce per il disgusto di uno stato di cose e con il desiderio di cambiarlo indaga piuttosto su ciò che non si vede, dietro il palcoscenico o al di qua della “quarta parete”, tra gli spettatori paganti, nello sforzo di mettere in contatto una parte con l’altra, saltando le ingannevoli scene che li separano.
Eppure se queste vengono semplicemente ignorate, sfuggono dati della realtà di cui sarebbe invece meglio tenere conto. Anche perché accade spesso che gli attori dimentichino il copione e improvvisino come nella commedia dell’arte. E questo accade tanto più spesso, quando la disorganizzazione e la confusione nel pubblico mettono il palcoscenico al riparo da sacrosante reazioni di sdegno.

La mano destra del padronato italiano
Prima ancora che la Commissione Europea chiedesse di rivedere la legge di Stabilità, in Italia i portavoce di parte padronale avevano già espresso la loro delusione nei confronti del governo Letta-Alfano. Gli interessi in nome dei quali l’una e gli altri hanno parlato non sono proprio gli stessi, ma la morale della favola è la medesima, così come l’individuazione del cane che ancora dovrebbe essere bastonato. L’argomento delle recriminazioni è, più o meno, il seguente. A che cosa diavolo serve un governo di “larghe intese”, se non a farsi carico di misure impopolari con un’opposizione ridotta la minimo possibile?
Letta – sia chiaro – si è mosso nel solco del cosiddetto governo tecnico guidato da Monti ma, per quanto possa apparire incredibile, c’è chi ritiene che ci sia ancora molto succo da spremere dal lavoro subalterno, dai resti del welfare e da beni che dovrebbero essere considerati comuni.
Gli oltre tremila emendamenti alla legge di Stabilità (qualche anno fa l’avrebbero chiamata finanziaria) testimoniano del clima elettorale permanente con cui l’attuale governo è stato finora costretto a fare i conti. L’azione di disturbo della destra berlusconiana, con i lavori in corso e di fronte a un declino economico che avvicina l’Italia alla Grecia, significa semplicemente che il capitalismo italiano non ha in questo momento una destra di cui possa davvero fidarsi per la semplice ragione che gli interessi di un solo padrone ostacolano quelli del padronato nel suo complesso. Nei limiti in cui è possibile usare una simile formulazione per un modo di produzione in cui la guerra interna è la regola.
Luciano Fontana nell’editoriale del Corriere della Sera del 16 novembre esprime il suo rammarico per la “malinconica fine di un’esperienza”. Il popolo di centrodestra – scrive – ha dinanzi a sé un orizzonte vuoto; Forza Italia è solo un’etichetta che serve a regolare conti interni; i partiti di Berlusconi arretrano nelle urne, perdono pezzi e mescolano interessi privati e pubblici.
A proposito della rottura nella corte berlusconiana, vale la pena di segnalare una sola cosa. Era poco credibile l’idea che Alfano e soci si muovessero sorretti solo dall’attaccamento alle poltrone. Sarebbe stato un calcolo miope perdere il sostegno dei soldi e dei media di Berlusconi in cambio di poltrone prestigiose certo, ma precarie e comunque di breve durata in confronto ai tempi di un’intera carriera. Era intuibile quindi, anche prima che il Messaggero lo rivelasse, che alle spalle della nuova formazione politica ci fosse l’ennesimo tentativo dei cosiddetti poteri forti di creare sostegni più sicuri delle metamorfosi berlusconiane pro domo sua.
Le ultime vicende smentiscono un’idea che l’esperienza italiana (ma anche altre in giro per il mondo) aveva alimentato. Si è detto che sconfitto il movimento operaio e ridotta a ben poco la possibilità dello Stato di elargire a settori popolari con la mediazione di sindacati e partiti, i possessori di capitali tendevano a entrare direttamente in politica ciascuno con la propria corte, i propri bravi, i propri mezzi di comunicazione e la propria mitocrazia in una specie di neo-feudalesimo capitalistico.
Non importa quanto questo sia vero o falso. In parte è vero, ma non da ora; in parte è l’estensione arbitraria di fenomeni limitati e interpretabili in modi diversi. Ciò che interessa tuttavia è che vero o falso, parzialmente vero o parzialmente falso che sia, questo modello di potere non sarebbe comunque efficace perché è evidente che le formazioni sociali egemoni non possono fare a meno di affidabili mediazioni politiche, capaci anche di regolare in qualche modo i loro rapporti interni.

L’altra mano
Il Partito Democratico si è da tempo candidato a essere l’autentico partito padronale, capace di gestire razionalmente i suoi affari in cambio di una parvenza di democrazia e di una spolveratina di buonismo, per alcuni aspetti più cattolico che laico. Tuttavia la borghesia italiana non può affidarsi nemmeno al partito di Epifani, che non dà garanzie né di tenuta, né di adeguata ampiezza di consensi. In fondo l’attuale marasma deriva proprio dall’incapacità del PD di vincere in pieno un confronto elettorale con la destra, anche quando quest’ultima si trova nello stato di crisi in cui si è trovata più volte per divisioni interne, perdita di consensi, vicende giudiziarie e finanziarie del suo leader. Le ragioni per cui il PD non vince sono numerose, ma vale la pena di ricordarne soprattutto una. Il suo destino è simile a quello dei partiti liberali europei del Novecento che coniugavano un certo spirito laico e alcune libertà democratiche con l’ossequio agli imperativi del profitto, restando così privi della possibilità di trovarsi in qualche modo in sintonia con settori popolari sufficientemente ampi. Con questi settori nel Novecento i partiti sono entrati in contatto o dal versante della soddisfazione di loro bisogni primari (le sinistre) o da quello delle superstizioni religiose, razziste, sessiste e omofobe (le destre). Mi scuso per la schematizzazione estrema, perché le cose ovviamente sono state molto più complicate di così, ma l’importante qui è comprendere che cosa renda l’altra mano non sufficientemente efficace. A causa di questa inefficacia nel corso del secolo passato la gestione degli affari delle formazioni sociali egemoni è stata spesso affidata o agli apparati di partiti di origine operaia oppure a destre estreme o anche non estreme, come la Democrazia Cristiana in Italia, ma legate a reti di aggregazione e a sentimenti popolari radicati nella storia del paese e capaci quindi di garantire uno stabile e ampio consenso.

La terza mano
La crisi rende naturalmente più ampio lo spazio per il ritorno di destre radicali. Come spesso accade in Italia, il fenomeno si è realizzato in forma più contraddittoria e confusa. Per alcuni aspetti le coalizioni elettorali di Berlusconi sono state già a loro modo destre radicali, perché hanno inglobato i post, i neo-fascisti e i razzisti della Lega e perché hanno radicalizzato lo scontro politico con gli avversari e con le istituzioni della democrazia parlamentare. E tuttavia hanno anche alimentato la leggenda di schieramento moderato e liberale, limitando (dopo Genova 2001) gli aspetti repressivi dei loro governi e subendo le pressioni della burocrazia cattolica nel senso di una pacificazione. E’ possibile che dopo la rottura con Alfano, per una certa fase almeno, la destra berlusconiana tenda a occupare più coerentemente uno spazio populista e radicale, in polemica con l’Europa e con l’uso strumentale anche di temi sociali. Inoltre in Italia una parte di quello spazio è occupato dal Movimento 5 Stelle che mescola comportamenti e discorsi di sinistra e di destra.
Alla terza mano bisogna perciò guardare soprattutto nella sua dimensione internazionale e chiedersi se in qualche modo può rappresentare la soluzione di una crisi padronale di direzione che non è solo italiana. La risposta è negativa, anzi è magari vero il contrario. A un certo tipo di destre nel corso del Novecento i possessori di capitali hanno scelto di affidare i loro interessi sotto la minaccia dell’ascesa del movimento operaio, dinanzi ai fantasmi del bolscevismo e della rivoluzione. Oggi non solo questi fantasmi si sono dissolti ma la minaccia nucleare, gli squilibri climatici e l’ampiezza delle ripercussioni dei gesti politici della maggiori potenze economiche e militari sembrano sconsigliare pericolosissime avventure. Se ce ne fosse davvero bisogno, questi signori sarebbero anche disposti a correre il rischio, ma non sembrano queste le circostanze. Non solo, ma se un giorno lo diventassero vorrebbe solo dire che la crisi di direzione del capitalismo si sarebbe ulteriormente aggravata.
Per tornare all’Italia e per concludere una sola osservazione. C’è chi pensa che la crisi si risolverà in senso presidenzialista e plebiscitario. In una certa misura questo sta già avvenendo, al di là degli stessi interventi legislativi. Ma è legittimo esprimere dubbi sul fatto che questa sia davvero la soluzione. Per spiegarlo bisognerebbe avventurarsi su altri terreni di osservazione, su cui il palcoscenico e le sue scene contano davvero poco.

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